varie, 15 febbraio 2002
BRUSCA
BRUSCA Giovanni Palermo 20 maggio 1957. Mafioso. L’uomo che il 23 maggio del 1992 azionò il telecomando che provocò la strage di Capaci in cui vennero uccisi Giovanni Falcone, la moglie e tre agenti di scorta. Un mafioso sanguinario, uno dei boss più vicini a Totò Riina. Arrestato il 20 maggio del 1996, ha cominciato a collaborare alcuni mesi dopo. Detto ”u verru, il porco • «Il mafioso che non molla sul bacio di Andreotti, lui non l’ha mai sentito schioccare; che non sa di cupole maestose tirate su alla Masino Buscetta e ride dei bambaloni che ci credono; il Brusca che inchioda Balduccio Di Maggio al rango di raccontapalle» (Pietrangelo Buttafuoco, ”Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini”, 3/10/1998) • «Lo chiamavano ”il porco”. E ne sparlavano sempre. Dicevano che era un codardo, un miserabile, che era quello che era perché figlio di quel padre riverito come un califfo. Anche quelli che si riunivano nel casolare di contrada Dammusi, i più intimi, non lo sopportavano. Andavano tutti là dopo avere scannato qualcuno e brindavano con lo champagne, solo casse di ”Monsciandò”. Lo baciavano perché dovevano baciarlo, lo salutavano perché dovevano salutarlo. Ma non lo rispettavano. Troppe femmine. Troppe chiacchiere. Troppe ostentazioni. Giovannino neanche sembrava uno dei Brusca, dinastia eletta di San Giuseppe Jato, capitale di mafia di un pezzo di Sicilia che ha sempre avuto qualcosa di indicibile. Non somigliava in niente al vecchio Bernardo, quel pecoraio che puzzava come un caprone ma che aveva il cervello più fino di tutti nella Cosa Nostra sanguinante dei Corleonesi. Però ”il porco” comandava. Eccome se comandava. Pure a Palermo. Comandava e faceva uccidere. Uomini, donne, vecchi, bambini. Tutti quelli che si mettevano contro lo ”zio” Totò o contro lo ”zio” Vicè, contro quei signorotti di campagna che tra gli anni 80 e 90 avevano in pugno l’isola. E Giovannino Brusca era un protetto di corte. Di più: era quello che in siciliano si dice un ”canazzu da catena”, loro lo scioglievano e lui fedele ubbidiva. Poi lo riattaccavano. E intanto lui saliva, saliva sempre più in alto in quella Cupola di paranoia che aveva voluto Salvatore Riina. Era diventato un boss. Il più spietato. Ancora più carogna dei ”contadini” nati ai piedi della Rocca Busambra. Un animale. Quando poi decise di pentirsi, Giovannino si autoccusò anche di cento e passa omicidi. Ma forse ne dimenticò qualcuno. E poi ha aspettato, ha aspettato con pazienza un po’ di libertà. Dopo otto anni, è arrivata anche per lui. Era la fine di un bella giornata di primavera quando lo presero. Il mese era maggio, l’anno il 1996. Di notte, in una villa in mezzo alla campagna senza alberi di Agrigento, il letto asciutto di un fiume, le dune di sabbia bianca come la neve di San Leone. Era in dormiveglia. E aveva accanto sua moglie Cristiana. Il loro bambino Davide che strillava nell’altra stanza, il fratello Enzo con la sua donna al piano di sotto. C’era un salone pieno di valigie ancora aperte. Dentro c’erano vestiti firmati, orologi d’oro, preziosi, soldi. Gli sbirri lo stanarono con le ”cimici” e probabilmente anche con uno spione. Ma se ne seppe poco di quella cattura. Dissero che lo ammanettarono mentre stava vedendo il film sulla vita e sulla morte di Giovanni Falcone, l’uomo che proprio Giovannino aveva ucciso. Probabilmente una balla rifilata a una stampa sempre assetata di colpi di scena, particolare davvero ininfluente rispetto a quello che accadde poi. I colpi di scena veri li riservò lui. E tanti. Con le sue rivelazioni: quelle vere e quelle finte. Cominciò con le menzogne. Trascinando in acque torbide galantuomini, mescolando ricordi, dicendo e non dicendo. Dentro e intorno alle sue confessioni apparirono all’improvviso personaggi sinistri, avvocati, medici, commercialisti, una borghesia palermitana infetta che tentò di sfuggire alle ”chiamate” del figlio di don Bernardo raccontando e ritrattando, confondendo, depistando. Per un anno Giovannino Brusca rimase un ”oggetto misterioso”. Poi lo status di pentito. Era attendibile, decretarono procuratori e giudici. Con quel timbro ufficiale di credibilità, in molti cominciarono a tremare. E il romanzo nero di Palermo iniziò dalla fine, dal 23 maggio del 1992. L’autostrada, il corteo blindato, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, la collinetta là difronte, i mafiosi appostati con il binocolo. Era il 28 marzo del 1997 quando Giovannino ricordò pubblicamente cosa avvenne alle 17,58 di quel 23 maggio. Aula bunker di Caltanissetta, processo per la strage di Capaci, il testimone chiave che parla. Una fastidiosa voce nasale, monotona. Le sue parole: ”Quando le auto erano al punto giusto Gioè (un altro mafioso del commando, ndr) mi grida: via, via, via...mi grida tre volte via, ma io, effettivamente, ho avuto un attimo di esitazione, non lo dico perché ora mi viene facile, vedo il fumo, vedo il fuoco e rimango sbalordito”. Silenzio cupo in aula. Nemmeno un brusio di disgusto. Così la raccontò Giovannino, la sua grande strage. E poi raccontò anche del piccolo Di Matteo, Giuseppe, rapito e sciolto nell’acido solo perché era figlio di Santino, uno che si era pentito prima di lui. Un bambino. ”Bambino? No, non era un bambino, guardate il suo certificato di nascita”, rispose una volta ”il porco”. Aveva undici anni. E poi ancora ricordò dei processi aggiustati, dei rapporti tra Giulio Andreotti e gli esattori Salvo, degli appalti pilotati, della politica al servizio della mafia, dei misteriosi intrecci tra i boss e i servizi segreti. Alcune cose furono credute e altre meno. Ma di quella seconda generazione di pentiti siciliani, Giovannino Brusca fu certamente il solo a non fare doppi e tripli giochi per conto di chi stava affossando per sempre (e anche dall’interno) l’antimafia di Palermo. Almeno questo bisogna riconoscerlo al boss che chiamavano ”il porco”» (Attilio Bolzoni, ”la Repubblica” 13/10/2004) • «Ho una piccola cicatrice sul mignolo della mano destra: avevo poco più di vent’anni, mi trovavo a Napoli nella villa di Angelo Nuvoletta, punto di riferimento dei corleonesi [...] Stavamo strangolando una persona che non ricordo più neanche come si chiamasse. A un tratto, la vittima riuscì a impugnare la pistola di Nuvoletta infilata sotto la cinghia dei pantaloni. Partì un colpo che tagliò in due un dito di Nuvoletta e ferì anche me. Lo strangolammo lo stesso. Non l’ho mai nascosto: ho torturato persone per farle parlare, ho strangolato sia chi rendeva la sua confessione sia chi restava muto, ho sciolto i corpi nell’acido, ho arrostito cadaveri sulle graticole [...] Non mi sono mai impressionato di questi aspetti della mia attività [...] Per strangolare adoperavamo una cordicella di nylon molto sottile: due di noi tenevano il malcapitato per le braccia, due per i piedi e uno, messo dietro, tirava... Dopo una decina di minuti sopraggiungeva la morte. Come lo capivamo? Perché i tessuti si allentavano e la persona si faceva la pipì e la cacca addosso... Dovevamo essere sicuri che fosse avvenuto il decesso. Sarebbe stato rischiosissimo immergere nell’acido un corpo che avrebbe potuto ancora avere delle convulsioni, degli spasmi. Qualche schizzo d’acido sarebbe stato micidiale per tutti i presenti. [...] occorrono 50 litri di acido per ottenere la disintegrazione di un corpo in una media di tre ore [...] Stefano Bontade e Totuccio Inzerillo - ci tengo a ricordarlo - furono i primi ad adoperare l’acido. Sino all’inizio degli anni Ottanta, noi adoperavamo un sistema molto più primitivo e molto più lento. Arrostivamo i cadaveri sulle graticole. Si cominciava di primo mattino e si finiva al tramonto: per fare sparire un solo cadavere impiegavamo dalle sette alle otto ore e ci volevano camion carichi di legna per tenere sempre viva la fiamma [...]» (’Panorama”, 15/4/1999).