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 2002  febbraio 15 Venerdì calendario

BRYANT Kobe Philadelphia (Stati Uniti) 23 agosto 1978. Giocatore di basket. Dei Los Angeles Lakers con i quali ha conquistato cinque titoli Nba (1999/2000, 2000/2001, 2001/2002, 2008/2009, 2009/2010)

BRYANT Kobe Philadelphia (Stati Uniti) 23 agosto 1978. Giocatore di basket. Dei Los Angeles Lakers con i quali ha conquistato cinque titoli Nba (1999/2000, 2000/2001, 2001/2002, 2008/2009, 2009/2010). Si chiama così perché il padre Joe (ex grande giocatore con un passato in Italia) e sua moglie assaggiarono in Giappone la carne di Kobe (tenera, prelibata, costosa) e se ne innamorarono. Ricorda Christopher Ward, uno degli amici più cari dei Bryant a Reggio Emilia: «Uscirono da quel ristorante con il fermo proposito di chiamare Kobe il loro figlio maschio» (’Corriere della Sera” 14/4/2003). Carriera a rischio dopo l’accusa di stupro mossagli nell’estate 2003 da una cameriera del Colorado: «Bryant, anzi ”Kobe!”, come lo ha chiamato ”Le Monde”, soltanto il primo nome e l’esclamativo, è - o era? - il magnifico ragazzo manifesto che la macchina del marketing sportivo, affamati di eroi positivi, aveva venduto per restaurare l’immagine di una Lega Basket, la Nba, che sta perdendo appeal, fascino e spettatori bianchi. un atleta e un giocatore fantastico, fluido e forte nei suoi 204 centimetri di altezza per 90 chili di peso, capace di staccarsi dalla terra e dalla mediocrità, come soltanto Mike!, Michael Jordan sapeva fare. Parla tre lingue, dicono, e sicuramente l’italiano perché, dopo essere nato in Pennsylvania 24 anni or sono, crebbe a pane e Nutella in Italia per seguire il padre professionista di basket anch’egli. Passò direttamente a 18 anni dal liceo alla Nba, ai professionisti, perché il suo talento sarebbe stato sprecato in quei college ipocriti che fingono di essere riservati a ”studenti atleti”. Ha vinto tre campionati americani, ha statistiche che giustificano i 22 milioni di dollari di ingaggio annuo, più ”sponsor”. Segnò 551 punti in 13 partite nel febbraio 2003 (42 punti di media) per trascinare i suoi Lakers ai play off. Ma la favola del campione nero e buono, del ”Tiger Woods” del basket, finisce la sera del 30 giugno, in un albergo resort nella stazione sciistica dei ricchi, Vail, l’Hotel Cordillera, alle 11 di sera, quando lui invita un’impiegata diciannovenne, della quale fingiamo di non conoscere il nome e il volto spiattellati sui tabloid e su Internet, in camera sua. Le amiche di liceo dicono che lei sognava il mondo dello show business, che aveva tentato di qualificarsi per un programma tv di nuovi talenti, che era molto irrequieta, con una storia di tentati suicidi con pillole. Perché entrò in quella stanza? Speranza di poter usare una superstar per scappare dalle valli delle Montagne? Curiosità? Affari suoi. Ciascuno è libero di entrare dove vuole, anche dove non sembra saggio andare. Nella stanza, comincia il lei dice, lui dice. Lui dice, dopo averlo negato, che sì, ebbe un rapporto con lei quando le ”impronte genetiche”, come per Monica e Bill Clinton, lo identificano. Piange in tv e chiede scusa all’’adorata” Vanessa e alla bambina di sei mesi. Ci ricorda che in fondo è soltanto un peccatore, come dice Bush, ma non un violentatore. Lei dice un’altra storia, al procuratore di Vail, Hulbert, che sì, va bene, qualche giochetto amoroso, molto ”petting”, ma anche un ”no” al momento culminante. Un no che Kobe! non avrebbe accettato, strappandole abiti e biancheria, sottomettendola con la sua immensa forza atletica, provocando ferite e abrasioni. La donna uscì piangendo dalla stanza, chiese aiuto a un fattorino, alle guardie del corpo di Kobe che avevano sentito le grida attraverso i muri, ma nessuno l’ascoltò. Risero di lei. Una piccola avventuriera. La solita ”cercatrice d’oro”, guarda la coincidenza, proprio nei monti della corsa all’oro. stata la famiglia, la madre, a insistere perché lei denunciasse Kobe. Sono state le amiche, sempre le solite amiche, a cinguettare garrule ed eccitate davanti alle telecamere raccontando che nei giorni successivi alla notte in camera, lei andava in giro a ridere di fou rire con loro, descrivendo le dimensioni mostruose di lui con grandi gesti» (Vittorio Zucconi, ”la Repubblica” 6/8/2003). «A 14 anni battè per la prima volta il padre, il celebrato asso del basket Joe ”Pralina” Bryant in una partitella uno contro uno. A 18 passò direttamente dal liceo alle squadre professionistiche del campionato Nba americano, saltando la routine del college. Da allora Kobe Bryant ha guidato la sua squadra, i Los Angeles Lakers, a tre titoli, imponendosi con il suo carattere a compagni come il leggendario Shaquille O’Neal, così famoso da essere diventato un cartone animato per bambini. Un matrimonio precoce con la flessuosa Vanessa Laine, l’italiano ben parlato grazie agli anni spesi al seguito del papà sui nostri campi, una catena di sponsor che annovera le scarpe Nike, la Coca Cola, la Sprite, Armani, e che lo retribuisce con 50 milioni di euro l’anno. Compra perfino una squadra italiana, celebre e decaduta, la Olimpia, sperando, invano, di rilanciarla. Unica pecca nella condotta del ragazzo modello del basket globale bello, intenso, con barbetta trendy, il litigio con papà alla vigilia delle nozze: troppo presto ammonisce Joe, non importa ripete Kobe, i genitori non si presentano alla cerimonia, piccati. Rappacificazione con telecamere, quando arriva la prima cicogna con Natalia Diamante. In un basket dove l’asso Wilt Chamberlain vanta centinaia di amanti nella sua autobiografia, Magic Johnson rivela di essere sieropositivo, Dennis Rodman confessa tanti peccati quanti piercing nelle parti più intime, Allen Iverson fa pubblicità alle scarpe con l’immagine da teppista di strada, Kobe, il nome preso in prestito ai mansueti buoi da bistecca giapponese, è un angelo per le public relations. Come gli animali Kobe, il ragazzo della pallacanestro è stato nutrito fin da bebè con amore e dedizione, come loro produce soldi a palate. Finché, recuperando da una artroscopia aVail, lussuosa stazione invernale per ricchi in Colorado, non chiama nella sua suite una cameriera ragazzina, alle 23. I vicini di stanza raccontano di avere sentito urla e mobili spostati con furia. Il giorno dopo la ragazza denuncia Kobe Bryant per stupro e violenza carnale. Il campione rischia fino a 18 anni di galera, e anche di più se la giuria, che sarà a larga maggioranza di bianchi, non gli concedesse attenuanti» (Gianni Riotta, ”La Gazzetta dello Sport” 6/8/2003). «Parla romagnolo, è nato a Filadelfia, e ancora oggi fatica a capire lo slang di un campo di periferia americano. […] Ha imparato a giocare sotto i canestri di Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, le città dove da adolescente ha seguito il padre Joe Bryant nel finale di carriera, dopo i canestri a Philadelphia, San Diego e Houston. […] Sui parquet Usa è considerato il re delle schiacciate, è alto 2,01 metri e pesa 95 chili. Più difficile convincere i compagni di scuola di Reggio Calabria: Bryant si esercitava da solo davanti a un canestro, gli amici lo trascinavano nella polvere col pallone di cuoio: ”Lascia perdere il basket, sei alto, copri tutto lo specchio, ci servi in porta”. Oggi è una stella che guadagna 90 milioni di dollari a stagione. […] Quando a 17 anni esordì nell’Nba lo bollarono come ”presuntuoso” perché alla prima intervista disse che sarebbe diventato una stella. […] Indossa il numero 8: Michael Jordan è il mito sportivo dell’America anni Novanta, ma per Kobe, la strada da seguire è sempre stata quella di Mike D’Antoni. La stella della Milano anni Ottanta, con l’otto sulla maglia» (Gianluca Moresco, ”la Repubblica” 9/1/2003). «Il Kobe che ci interessa è quello che giace nei ricordi di Reggio Emilia. Suo padre Joe concluse lì, nelle stagioni 1989-90 e 1990-91, una splendida carriera italiana. Bryant jr. era un ragazzino e frequentava le scuole medie all’istituto ”San Vincenzo”, gestito dalle suore. Imparò un po’ della nostra cultura e, soprattutto, la lingua: nei libri sacri della Nba è scritto che parla fluentemente l’italiano e se sappiamo che l’avverbio è un po’ generoso, la cosa non dispiace. Quei giorni, comunque, sono ora nella memoria di compagni di scuola e di giochi, della fidanzata dell’epoca, di alcuni insegnanti. Da che cosa cominciare? Dalla smentita di una solenne frottola: non è vero che un professore di ginnastica (o una professoressa: di quest’ultima circolava pure il cognome, Sassi) avrebbe invitato Kobe a non dedicarsi al basket in quanto ”negato”. Il professor Pierpaolo Gambarelli si è sentito offeso quando l’ha sentito dire: ”Ho avuto Kobe come allievo ma quella bestialità non l’ho mai pronunciata: all’età di 11-12 anni Kobe era già di un’altra categoria rispetto agli altri e segnava con facilità da tre punti; noi, nei tornei, ne approfittavamo... Invece è vero che una volta, ai Giochi della Gioventù, si cimentò pure nel salto in lungo: il guaio è che si presentò in pedana con le scarpe da basket e non fece una grande figura”. Kobe non è un flash nitido solo per il professor Gambarelli. Lo è anche per l’ex collega di matematica, Annarita Perisi (’Era brillante e simpatico, ma non amava la mia materia perché la sua intelligenza è creativa e non schematica”), e per Giorgia Gallo, l’ex fidanzata: ”Che parola grossa! Fidanzati a dodici anni? Parliamo piuttosto di affetto ricambiato: di lui mi ha colpito il bel modo di fare. Tutto è finito prima della sua partenza dall’Italia; oggi mantengo contatti solo con una delle sorelle. Quando è tornato a Reggio, qualche anno fa, l’ho rivisto e mi ha fatto effetto realizzare che è famoso: a me è parso il Kobe di sempre”. […] Ma lui è rimasto quello che avevano conosciuto? ”Sì, assolutamente” rispondono Davide Giudici e Nicola Prandi, rispettivamente il nipote di Piero Montecchi (ex playmaker della nazionale) e il figlio dell’attuale presidente della Lega basket. Giudici e Prandi hanno giocato con Kobe nelle giovanili della Reggiana e poi, qua e là, in partitelle tra amici: ”Era molto educato, schivo, legato alla famiglia. Però si è inserito bene nel gruppo, nonostante non fosse il tipo da bisbocce”. Una curiosità: Kobe, per i trascorsi pistoiesi del padre, aveva un accento toscano; lo cambiò velocemente in emiliano. Nessuno, comunque, si aspettava che arrivasse così in alto come cestista. Giudici: ”Sinceramente, credevamo che avrebbe concluso gli studi in Italia e che avrebbe giocato in serie A. Invece il padre tornò negli Usa e Kobe lo seguì: oggi per lui provo ammirazione ma anche un pizzico di invidia”. Prandi: ”Una volta aveva male a un ginocchio e si preoccupò. Ci disse: ”Peccato, volevo andare nella Nba’. Noi ridemmo, ma aveva ragione lui. Del resto, ai tempi del minibasket era l’unico che schiacciava. In canestri più bassi, d’accordo, ma era pur sempre una schiacciata”» (Flavio Vanetti, ”Corriere della Sera” 14/4/2003).