Varie, 15 febbraio 2002
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Bubka Sergey
• Luhansk (Ucraina) 4 dicembre 1963. Ex saltatore con l’asta. A 17 anni già saltava 5,10 metri, a 19 vinse quasi da sconosciuto i mondiali di Helsinki. Ha stabilito in totale 35 record del mondo tra indoor e aperto, primo uomo a superare il muro dei 6 metri (1986 a Mosca), primo a saltare oltre 6,10 metri (Malmoe 1991). Ha vinto sei titoli mondiali consecutivi dall’83 ad Atena 1997. Ha saltato oltre sei metri per 43 volte, 110 volte oltre 5.9 metri. Primato indoor: 6,15 nel 1993; primato all’aperto 6,14 nel 1994. Ha vinto una sola medaglia d’oro olimpica: Seul 1988. Si è ritirato nel 2001 • «L’hanno soprannominato in tanti modi: Zar, Imperatore, Sputnik, Terminator. Anche per il suo vizio di regalare ogni anno almeno un record del mondo [...] Quando a Roma in una notte di fine agosto del 1984 un astista francese coi capelli lunghi, un playboy delle pedane, gli rubò il primato e poi tutto contento si mise a fumare una sigaretta, gauloise bien s^ur, pensando che il mondo quella sera non si sarebbe più mosso. Non conosceva Bubka, che a notte fonda salì a 5,94 e si riprese per sempre il cielo. Ah, certo, dicevano che fosse più interessato ai soldi che ad abbattere i confini, altrimenti perché ogni volta mangiava un centimetro in più, invece di fare un salto più ingordo? Per lui, sovietico e nemico, una ditta americana studiò aste rigidissime, che nessun altro poteva adoperare per mancanza di forza nelle braccia e di velocità nelle gambe. Bubka saltava, ma correva anche i 100 in 10”3 e nel lungo si spingeva a 8 metri. Da piccolo era stato un bimbo vivace: a tre anni era scappato di casa, a quattro aveva rischiato di annegare in una botte, a cinque era caduto da un albero e non si era rotto l’osso del collo solo perché un ramo aveva attutito la caduta [...] Nella sua vita è stato in volo più del Concorde, ha fatto più di 13 mila salti l’anno, è stato in aria duemila volte, ha passato una vita a combattere e a vincere contro l’asticella. Ora è ricco e ben sistemato, casa a Montecarlo e a Berlino, ha la Ferrari e la Mercedes, ha due bambini, Vitaly (in onore del suo ex allenatore) e Sergei che giocano bene a tennis. Bubka torna a terra, il cielo non è più suo. Qui dal basso, grazie: per avercelo fatto toccare» (Emanuela Audisio, “la Repubblica” 5/2/2001) • «[...] Non avevo ancora 20 anni nell’agosto del 1983. Sentivo addosso una grande emozione. Allora vivevamo nell’Unione Sovietica chiusa, dura. Era la mia prima esperienza. Ricordo che ho passato ore in riva al lago, che costeggia ilVillaggio degli atleti, perché l’acqua aiuta a rigenerarsi. L’acqua e il fuoco sono gli elementi che ti aiutano a ritrovare la pace dell’anima. Il tempo era stato magnifico fino al venerdì della qualificazione, quando è cominciato a piovere e a fare freddo. Un disastro. Di 27 atleti solo in otto siamo riusciti a saltare 5.20, poi Volkov è salito a 5.40. A quel punto mancavano ancora un tentativo a testa per Olson e Vigneron, i favoriti, e hannofermato la gara. Per salvare quei due ci hanno costretti a tornare la mattina per rifare tutto da capo. [...] Avevamo ancora addosso le tute umide e io sono rimasto sotto la tribuna con altri, perché non riuscivamo a capire la ragione di quella decisione della giuria, che all’improvviso ha avuto una pensata ancora più bizzarra: ha stabilito che tutti e 27 avevamo il diritto di disputare la finale. Hanno cambiato il programma e hanno fatto iniziare la finale la domenica alle 9 di mattina invece che alle 14. Così ci siamo sorbiti dieci ore di competizione. Alle 17 sono riuscito a battere il vento e sono salito a 5.60, ero terzo, in paradiso. I tecnici avevano stabilito questo traguardo per me. C’erano ancora Slusarski e Volkov in gara. Ho sorvolato 5.70 e sono passato in testa. Ho vinto così. Non riuscivo a crederci. Ed ero ancora tanto naif, che dopo la cerimonia di premiazione sono salito sul bus per il villaggio. A un certo punto Kozakievicz mi ha chiesto: ma che cosa fai qui? Dovevi andare alla conferenza stampa... Io non sapevo. Volkov più tardi era arrabbiato con me: ’ho dovuto rispondere io alle domande dei giornalisti che chiedevano chi eri. E io sapevo poco, sei uno...” [...] Dei sei titoli, due sono stati davvero complicati: Tokyo 1991 e Atene 1997, l’ultimo. In Giappone ero arrivato con il tallone destro malandato. Ho dovuto fare due iniezioni per potere stare in pedana. Ricordo che ai primi due tentativi falliti a 5.90 ho avvertito un sinistro crack nel piede. Niente dolore, perché la puntura aveva tolto la sensibilità, ma era arrivato al cervello il messaggio che il tallone poteva sbriciolarsi. Ero indeciso, perché rischiavo di chiudere la carriera. Però non mi sono arreso e ho tenuto l’ultimo tentativo per 5.95, l’unica possibilità per vincere. Ho cercato di non pensare. Sono salito altissimo. I tecnici giapponesi al computer hanno studiato il salto e mi hanno detto che ero arrivato a 6.27... Dai sacconi ho visto in tribuna Nebiolo che si agitava vicino a Samaranch. Mi mandò un emissario che mi chiese di tentare i 6.11 del record del mondo. Scossi il capo, non potevo rischiare il futuro. Ad Atene la fatica invece era tutta mentale, 14 anni dopo la prima vittoria [...]» (Gianni Merlo, “La Gazzetta dello Sport” 4/8/2005).