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 2002  febbraio 15 Venerdì calendario

BUCCHI

BUCCHI Massimo Roma 18 settembre 1941. Vignettista. Di ”Repubblica” • «Omino gentile con una gran testa bella e fiera, da profeta, in un mondo in cui da profetare c’è rimasta solo la fine della storia. L’omino è sempre al lavoro, nella sua bottega da alchimista, dove mette assieme foto storiche, immagini pubblicitarie, caratteri di macchine per scrivere, codici a barre, schermate di computer e altri scarti di questa nuova era pubblicitaria e consumistica. Per fare che? Trasformare il piombo in oro, trovare qualche elisir di lunga vita, ridere del mondo piangendoci su? Anche, ma soprattutto per cercare l’unicità, quella piccola ambizione che però dà agli umili un orgoglio luciferino: non essere confondibile con tutti gli altri almeno in qualcosa, partecipare come tutti gli altri agli appetiti, alle carognate, alle furbizie, al tira a campare, ma in qualcosa essere unico. E unico Bucchi lo è per molti aspetti. Nell’aver messo assieme questi simboli, feticci, forme, vizi della modernità, e averne ricavato come un coro di nature morte ma parlanti a cui lasciare la testimonianza del presente e di cui mettersi al riparo. Eugenio Scalari, che per venti anni ha convissuto con questo suo contrario ma affine, accanto al cuculo che ammirava ma che mai avrebbe voluto essere, ha scritto che nel costume come in politica ”non aggredisce il luogo comune, ma lo sorvola e lo aggira”. Per dire che ci pensa su. Di Massimo Bucchi si celebrano i misteri, il surrealismo, la inquietante ”dolcezza perentoria”, il suo uso di strumenti modernissimi e al tempo stesso antichi. Ma a me Bucchi piace per l’esatto contrario, per aver conservato in questo laboratorio sperimentale da alchimista, delle virtù solide e antiche. A cominciare da quelle del lavoro. Bucchi perde raramente la calma, ma non sopporta quelli che lodano le sue intuizioni e battute folgoranti ed estri creativi come doni del cielo, come spontanei fiori del talento. Il talento certo ci vuole, ma ci vogliono anche le ore di lavoro questo sì umile e paziente, le lunghe ore per essere professionali, per dirsi padroni delle proprie tecniche e di una certa concezione del mondo, per non essere barzellettieri o megafoni del padrone o servi di propaganda. Mi piace Bucchi per la sua coerenza politica, che non è la coerenza dei partiti spesso incoerenti e dei loro conformismi spesso autoritari, ma la coerenza al ”fatti non foste a vivere come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”, o più modestamente per opporsi alla volgarità, alla arroganza, alla ignoranza di cui il mondo è pieno. Fuori dal tempo, dicono di Bucchi. Certo, fuori dal tempo delle miserie e delle vergogne, orgogliosi di quel po’ o di quel tanto di unicità raggiunta» (Giorgio Bocca, ”la Repubblica” 21/7/2003). «Pensavo di fare architettura. Da sempre lo desideravo. A tre mesi dalla maturità ho deciso di cambiare e mi sono iscritto a lettere. Ho impiegato quindici anni per laurearmi. Quindici lunghi anni vissuti teutonicamente [...] nel senso che ho sempre dato con grande regolarità gli esami, ma a intervalli lunghissimi. Solo per finire la tesi ho impiegato cinque anni [...] Ho fatto il cronista all’Avanti nella prima metà degli anni Sessanta, poi mi sono messo a fare il grafico, professione della quale ignoravo l’esistenza. Infine sono diventato art director per un’agenzia di pubblicità che lavorava per l’Iri. Ricordo che vi collaborava anche Franco Fortini [...] Era il 1967. Per darti un’idea in quale epoca eravamo calati, basti dire che uno che avesse cambiato nella vita più di due lavori era considerato uno spostato. Io approdai all’ennesimo mestiere il 2 gennaio 1968. Andai a lavorare in Mondadori occupandomi delle copertine di alcune loro collane. Poi passai alla Giunti. Ricordo che in quegli anni la grafica dei libri aveva fatto passi da gigante. Feltrinelli e Einaudi dettavano legge. Su tutti sovrastava la genialità di Munari [...] Una volta mi presentai a Bob Noorda, uno dei grandi art director dell’Europa degli anni Sessanta. Lavorava a capo di una agenzia. Un giorno vede i miei lavori, gli piacciono, parliamo. Mi considero praticamente assunto. A quel punto mi scatta dentro l’inquietudine [...] mi vedo già vecchio, dietro un tavolo a occuparmi di lettering [...] All’epoca non c’erano i computer e i caratteri che si usavano bisognava disegnarli con il compasso e il tiralinee. Per cui la volta dopo incontro nuovamente Noorda e gli mostro un monotipo a olio che avevo ricavato su vetro. Lui guarda questa cosa con orrore. Immagina di avere di fronte un Max von Sydow. Pensalo senza Bergman, ma con la stessa plumbea severità. Mi disse: scusi ho sbagliato credevo che lei fosse un grafico non un artista. Negli anni Settanta tornai a Roma. Poi un giorno seppi che avevano aperto un nuovo giornale, ”la Repubblica” [...] Mi dissero guarda che è un giornale che dura sei mesi. Era il 1976 quando fui assunto e sono ancora qui [...] Mi sento un miracolato. Pensare e disegnare una vignetta è come entrare in un mondo di sordomuti e poi scoprire che c’è il suono [...] Le immagini che elaboro sono ferme anche mentalmente. Nel senso che appartengono ad altre epoche: riportano a realtà antecedenti. E questo culturalmente provoca un certo spiazzamento, che è, o dovrebbe essere, uno dei requisiti della satira [...] Quando ci fu tangentopoli io disegnai un Robespierre che diceva agli italiani: non avete capito la differenza tra una rivoluzione e una retata. Cosa potrei aggiungere dieci anni dopo?» (Antonio Gnoli, ”la Repubblica” 28/10/2001).