Varie, 15 febbraio 2002
BUSI
BUSI Aldo Brescia 25 febbraio 1948. Scrittore • «’Io sono sempre stato una celebrità, tanto che poi mio padre mi pestava a sangue con la cinghia. A tre anni e mezzo ero in ospedale per otite o chissà, e da solo scavalcai il cancello e me ne tornai a casa. Se ne parlò per giorni, in paese. Ne avevo sette o otto e percorrevo il tratto dalla tabaccaia al sagrato danzando sulle punte, in odio a chi andava in chiesa. Ero già scandaloso […] Io sono sempre stato un grande scrittore, i miei temi circolavano alle elementari anche fuori dalla mia classe” […] Si pensa alla nota di Piero Bertolucci che mancava alla prima edizione di Seminario sulla gioventù del 1984 e che ha cominciato ad apparire in tutte le numerose ristampe Oscar: racconta di come un giorno nell’ufficio dell’ Adelphi in centro a Milano, apparve il ragazzo del bar Pinguino di via Verri, un diciassettenne alto e ricciolino. ”Il grembiule bianco era legato quasi sotto le ascelle, la sinistra teneva, vicino alla spalla, un vassoio con alcuni bicchieri vuoti e cinque bottigliette di Campari Soda, anch’esse vuote... Con la destra mi porgeva un dattiloscritto enorme...”. Seminario sulla gioventù allora era intitolato Il Monoclino e l’editore lesse quasi tutte le 500 pagine fitte, ”stupefatto di trovarmi davanti ogni tanto, nella farragine indescrivibile di quella colata di parole, una pagina perfetta, magistrale”. Era il 1965 e le pagine magistrali con tutto il resto furono pubblicate nel 1984, proprio dall’Adelphi, ma intanto erano passati 19 anni, e la vita si era accumulata, con tutto il suo patire, su quello che da grazioso giovinetto capace di rossore, concupito da commesse e professionisti, si era trasformato in un bell’uomo di 36 anni che ne aveva visti di ogni colore in mezzo mondo, ma di lì non si era mosso: uno che scrive tutta la vita, anche se barista, è uno scrittore, e alla fine anche i più riluttanti tra gli editori (troppo rumore, troppa estraneità, troppa alterigia, troppo talento, troppi sberleffi, troppo dispettoso esibizionismo) dovettero cedere. Prima Adelphi, poi Mondadori. ”Per Seminario sulla gioventù Calasso mi diede un anticipo di 800 mila lire, un furto: quel primo romanzo l’avevo cominciato a 14 anni e riscritto 14 volte bruciando a poco a poco tutte le stesure, perché sono un piromane. Una settimana dopo portai all’editore, finito, Vita standard di un venditore provvisorio di collant, ed ero già alla fine del terzo e a metà del quarto romanzo”. Il secondo se lo prese Mondadori, pagando finalmente un bel po’ di milioni, il che per Busi fu un segno di riscatto dagli anni spietati, dalla spietatezza degli altri. […] ”Quel che ricordo nitidamente dell’infanzia e giovinezza sono la mia esaltazione psichica ed erotica, la rabbia, l’odio, il desiderio di vendetta. Li ho dentro ancora, intatti. Se penso al passato, sento solo salire un fuoco dallo stomaco che morirà con me”. A 14 anni se ne era andato di casa, tutto pesto, con la licenza media e già esperienza di cameriere e sguattero e una valigetta di latta con fogli scritti e da scrivere, il tesoro che lo accompagnerà in un giro forsennato per campare, scappare, osservare, fare sesso ovunque sfrenatamente, vivere. […] Abitava in via Bigli, in una soffitta traballante con branda e centinaia di scarafaggi, faceva il cameriere di trottoir, portando veloce vassoi e tazze in mezzo al traffico, a parrucchieri, case di moda, uffici, ”e le commesse volevano solo me, prima che rispondessi male ai fratelli parrucchieri allora di grido, molto villani”. Restava disoccupato, cercava altri incontri, prendeva il treno, solo o con qualche compagno incontrato a caso: e andava a fare lo sguattero, ma anche il ballerino di fila, oppure l’operaio, il contabile, il fattorino, il ragazzo au pair, a Venezia o a Sirmione, a Lille o a Parigi, a Londra, a Monaco di Baviera, a Berlino, a Cortina: ”Dormivo spesso sulle panchine o sotto i ponti, a Cortina mi salvò la vita una signora che nel gelo della notte mi buttò addosso una coperta: del resto proprio lì lavando piatti tutto il giorno in acqua gelata mi ritrovai paralizzato e muto. In Francia le vecchie si innamoravano di me, una castellana bella, colta e femminile voleva a tutti i costi sposarmi, mi sarei sistemato, ma io marchette non ne ho mai fatte, neppure per fame. Piuttosto andavo ai giardinetti e mi facevo dare dai bambini la loro merendina. E poi per principio non andavo con le donne, allora la sodomia non era di moda”. Con gli uomini sì, umanamente spaventosi, ”come un gioielliere di Valenza, miliardario, che mi invitava nella garconiere di Milano e poi mi offriva una pizza. Dopo l’hanno rovinato i gigolò”. Di notte leggeva, studiava, scriveva: ”Alla Siemens di Monaco facevo il magazziniere e raccoglievo l’immondizia, mi davano due ore di libertà e io mi chiudevo nel cesso a studiare: la mia cultura nasce dagli odori delle deiezioni”. Così ha imparato perfettamente inglese, francese, tedesco […] Finalmente, a 28 anni prende a Firenze il diploma di puericultrice, e nell’81, a 33, si laurea a Verona in lingue e letterature straniere con una tesi sul poeta americano John Ashbery, anche lì un dispetto, perché in tanti tra gli intellettuali d’epoca non sapevano chi fosse. Poi si sa, 27 tra romanzi, manuali, testi teatrali o di poesia, ”orrendamente tradotti in 13 lingue” e continuamente ristampati e decine di traduzioni di testi classici. E adesso, dopo tanto successo e prima tanto patire, ”Scrivo, e quando non ho niente da scrivere dormo e vegeto sino a che non riprende la mia splendida, autistica tempesta: non incontro, non vedo, non partecipo, esco di media una volta ogni tre settimane. Sono un cittadino esemplare perché la disonestà porta via troppe energie psichiche e perché l’onestà, essendo più sbrigativa, tiene alla larga gli scocciatori. Non ho amici, solo conoscenti: non ho amanti, né fissi né passeggeri”. […] ”Non è mio lettore chi interpreta le mie opere sotto una luce autobiografica, poiché io, sempre e anche se decido di farmi punto di vista letterario, smetto di esistere come uomo quando scrivo. Io ho scritto dei capolavori assoluti nella storia dell’umanità servendomi di me non più e non di meno che dell’io di tutti gli altri, mica pagine di diario: quasi ogni mia opera è l’autobiografia di un altro, di ogni altro che non sono io e nel quale non mi identifico per cultura, linguaggio, morale, tic, eccetera”» (Natalia Aspesi, ”la Repubblica” 3/8/2002).