19 febbraio 2002
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Caianiello Vincenzo
• . Nato ad Aversa (Caserta) il 2 ottobre 1932, morto a Roma il 26 aprile 2002. Giudice. «Si era laureato nel 1954, a 22 anni, in Giurisprudenza. L’anno successivo, dopo aver vinto un concorso, entra nella pubblica amministrazione, quindi passa prima alla magistratura ordinaria e successivamente alla Corte di conti e infine al Consiglio di Stato. Nel 1986 diventa giudice costituzionale: è estensore di 470 decisioni prima di diventare vicepresidente e quindi presidente per poco più di un mese (dal 9 settembre al 23 ottobre del 1995). L’anno dopo viene chiamato come tecnico a guidare il ministero di Grazia e Giustizia dall’allora presidente del Consiglio Lamberto Dini, in sostituzione di Filippo Mancuso. Docente di diritto pubblico e amministrativo all’Università della Luiss, collaboratore delle maggiori riviste di diritto e autore di numerosi saggi, amava intervenire nel dibattito politico e giuridico, con tesi a volte anche ”controcorrente”, ma sempre fondate sul rispetto rigoroso dell’ordinamento. Come ad esempio la difesa della separazione delle carriere dei magistrati, che Caianiello sosteneva fosse già fissata implicitamente dalla Costituzione. Garantista, sostenitore dell’importanza della sovranità popolare, si era trovato a fianco dei radicali nelle battaglie referendarie. Sulla giustizia aveva anche auspicato una semplificazione dei gradi di giudizio (con l’eliminazione dell’Appello, sostituito dal ricorso a misure cautelari) per consentire processi rapidi. Dopo le polemiche seguite a Tangentopoli, aveva auspicato che il gip (il giudice delle indagini preliminari) fosse un organo collegiale, e non affidato a un solo giudice. Da ministro della Giustizia fece scalpore il suo intervento sui magistrati di Brescia che stavano indagando sull’ex pm Antonio Di Pietro, che Caianiello aveva definito ”protervo”. Eclettico (aveva prestato consulenze anche nel campo calcistico) fino alla fine non si è mai tirato indietro quando vedeva messi in discussione i principi del diritto in cui credeva» (Riccardo Bruno, ”Corriere della Sera” 27/4/2002). Nel 2001 fece discutere un suo parere alla Federcalcio sul caso dei falsi passaporti: «Un’infermiera, nei giorni scorsi, mi ha detto: non ci vorrà rovinare Cafu. Io le ho risposto in siciliano: Cafu? E Cu fu? Chi è stato? [...] Ho visto l’ultima partita nel 1990: era la finale del campionato del mondo, a Roma. L’ho vissuta come uno spettacolo [...] Il calcio si è troppo compromesso con gli affari, per questo è diventato impossibile portare alle estreme conseguenze il pur giusto principio dell’autonomia del diritto sportivo. Quotazioni in borsa, abbonamenti, contratti pluriennali e plurimiliardari: non è più un fatto soltanto sportivo, ma soprattutto economico» (’Corriere della Sera” 14/4/2001).