Varie, 19 febbraio 2002
CAIRO
CAIRO Alberto Ceva (Cuneo) 17 maggio 1952. Fisioterapista • «C’è chi l’ha proposto a Premio Nobel per la pace. Non c’è che dire, se lo meriterebbe davvero Alberto. Lo chiamano tutti così a Kabul, il nome basta e avanza. Sta scritto in rosso, in bell’evidenza sul camice bianco di un fisioterapista italiano che da [...] anni ridà speranza a migliaia di afghani, maciullati nel corpo e distrutti nell’anima. Alto, magrissimo, capelli brizzolati e barba corta, Alberto Cairo ha un sorriso fanciullesco e un’aria mite sotto cui si nasconde un’autentica forza della natura. Quella che ogni giorno, dal 1990 in poi, nonostante le guerre, i bombardamenti e i cambi di regime, lo conduce all’ospedale della Croce Rossa Internazionale dove dirige il Progetto ortopedico che, oltre a Kabul, conta altri cinque centri nel resto dell’Afghanistan. [...] Parla perfettamente il darì, la lingua simile al persiano che insiem e al pashtun è la più diffusa a Kabul. Si rivolge per nome ad ognuno dei suoi ospiti, ne conosce le storie, i drammi, le speranze. Li assiste con una dedizione totale e un entusiasmo contagioso. Perché questo medico non si accontenta di ricostruire gli arti di chi è rimasto dilaniato da una mina o soffre di un grave handicap fisico ma tenta di ridare ai suoi pazienti il gusto di vivere, la sensazione di essere utili, la coscienza di una dignità. Alberto mi confida le sue tormentate riflessioni. ”Escono da qui avendo ripreso in qualche modo a camminare, a muoversi, a compiere le azioni più banali della vita quotidiana. Ma restano tagliati fuori dalla società, destinati all’abbandono o alla marginalità. In Afghanistan la vita è dura, i meccanismi di esclusione sono brutali e chi si trova nella condizione di disabile è più penalizzato che mai”. Così, da qualche anno, al programma di riabilitazione ha aggiunto l’impegno per il reinserimento sociale. Non solo protesi, dunque. La stampella più importante per rimettere in piedi tanti poveri disgraziati è un’attività lavorativa. Ma dove può trovare lavoro un disabile a Kabul? Se lo deve inventare da sé. In genere si tratta di piccole attività commerciali, basta un carrettino o una bancarella per vendere sigarette, bibite, spiedini di montone e così via. Ecco allora il sistema messo a punto dalla fervida inventiva di Alberto Cairo: chi esce dal suo ospedale può usufruire di un micro-credito per iniziare un’attività in proprio. ”Si esamina il progetto, se ne discute anche con gli altri membri della famiglia, ed una volta approvato viene concesso un prestito che solitamente era di 100 dollari ma che adesso, data l’inflazione, abbiamo portato a 350. Dev’essere restituito entro 18 mesi, senza interessi. E facciamo dei controlli periodici per stabilire a che punto è il progetto”. Da buon piemontese Cairo non transige. ”Se qualcuno cerca di svignarsela coi soldi, prima o poi lo becchiamo. Ma devo dire che i casi di truffa s ono stati molto pochi. In genere funziona un rapporto di fiducia, l’importante è stabilire un legame contando sul fatto che chi esce dal nostro centro ortopedico deve poi tornarci periodicamente per le cure”. [...]. I micro-crediti infatti servono anche a finanziare un periodo di studio per i più giovani. E poi ci sono i casi disperati, quelli che nella società afghana non riusciranno mai a trovare un lavoro. Vedove di guerra, madri di famiglia col marito diventato pazzo, anziani in completa solitudine. [...]» (Luigi Geninazzi,”Avvenire” 18/2/2005). «Qualcuno l’ha definito ”l’angelo di Kabul”. Ma lui, da buon piemontese resta schivo, appartato. ”Non voglio soprannomi melensi”, ripete. E si racconta: ”Ho studiato da avvocato. Ma a 30 anni ho riscoperto una grande passione per la fisioterapia così sono entrato nella Croce Rossa Internazionale. Nel 1988 sono arrivato a Kabul. Allora c’erano le truppe sovietiche e per convincerle a lasciarci aprire un centro medico assicurammo che avremmo curato anche i militari. Da allora sono stato l’unico occidentale a rimanere in questo Paese tanto a lungo, l’Afghanistan è un paese coperto di mine, oltre dieci milioni […] Dalla metà degli anni ”90 siamo riusciti a creare altri cinque centri di cura: Herat, Mazar, Jalalabad, Bahar, Faizabad. Con il tempo ci siamo dedicati a curare non solo le vittime della guerra ma gli affetti di altre patologie non derivate dalle attività belliche, oltre 50 mila disabili sono venuti a farsi curare da noi […] Miriamo a reintegrare anche socialmente i nostri pazienti, a questo fine abbiamo creato un centro a Kabul per la costruzione degli arti specialmente per le persone rimaste ferite o handicappate dagli scoppi delle mine. Preferiamo costruirci localmente i nostri arti piuttosto che importarne di più sofisticati dall’estero. Da noi ci si cura e si impara un mestiere”» (Lorenzo Cremonesi, ”Corriere della Sera” 24/6/2002). «Siamo i genitori di Alberto Cairo e sentitamente ringraziamo per quanto il suo giornale, il Foglio, ha scritto il 16 novembre u.s. sul lavoro che da oltre dodici anni svolge a Kabul. Tante cose non sapevamo, poiché Alberto è per natura molto schivo nel descrivere quanto ha fatto e quanto fa tutt’ora. Non abbiamo parole per rinnovare il nostro grazie. Con stima e deferenza porgiamo distinti saluti, Ada e Carlo Cairo, Ceva (Cn)» (’Il Foglio”, 22/11/2001).