Varie, 19 febbraio 2002
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Cancogni Manlio
• Bologna 6 luglio 1916. Scrittore • «[...] è il più grande scrittore italiano. [...] I suoi libri sono uno diverso dall’altro. Alcuni suoi articoli sono diventati leggenda, come l’inchiesta sulla corruzione a Roma che andrebbe preso, ristampato e farne un opuscolo come quello che racchiude le leggi costituzionali della Repubblica italiana, perché quell’inchiesta è come la Costituzione del giornalismo italiano (del buon giornalismo), ne è la legge fondante [...] Cancogni scrive come se fosse ancora decisivo scrivere. Rileggete l’attacco di La carriera di Pimlico, il più bel racconto italiano di tutti i tempi (non si accettano repliche né dissensi) [...]: ”Sono il caporazza di Belfiore e credo, in Italia, il decano della categoria. una buona professione che non annoia mai, forse perché gli animali hanno sempre delle risorse. Dopo anni di esperienza, per esempio, la nascita di un cavallo è ancora un’emozione”. Così comincia e quasi subito dopo il caporazza di Belfiore comunica al lettore un’informazione fondamentale eppure (lo stile di Cancogni) racchiusa in un unico giro di frase: ”Rimasi solo davanti ai box. Non c’era più tempo di andare a dormire. Mia moglie era morta un mese prima e io non avevo voglia di tornare nella nostra camera dove, sul cassettone e sul comò, erano rimasti i suoi pettini e le sue forcine” [...] Mentre Ribot trionfava nelle corse di tutto il mondo, Cancogni (che delle gesta di Ribot fu cronista assiduo) inventava Pimlico, il cavallo che non diventerà mao campione, e il suo dimesso ma intenso cantore, il caporazza di Belfiore [...]» (Antonio D’Orrico, ”Sette” n. 20/2001). «Vive in Versilia. stato inviato speciale dell’’Europeo” e dell’’Espresso”. Tra i suoi titoli: Allegri, gioventù (Premio Strega nel 1973), Quella strana felicità (Premio Viareggio 1985), Il Mister (Premio Grinzane Cavour 2000). [...] ”Varie volte, nella vita, ho deciso di smettere di scrivere. Lo avevo fatto nel 1949, dopo che il mio primo libro, Azorin e Mirò, fu rifiutato da quattro editori, e il secondo - Poveri trentenni - non piacque neppure agli amici [...] Faccio a mano la prima stesura, e poi una seconda, prima di battere a macchina, che ora devo tenere su uno scrittoio inclinato, per colpa del mal di schiena. Picchio sui tasti con forza, nervosamente, scardinandoli [...] Parto di scatto per le prime cinque pagine, poi esaurisco la carica. Per questo alla fine degli Anni Ottanta ho scritto racconti brevissimi. La mia misura ideale sta attorno alle cento cartelle”» (’Corriere della Sera” 19/6/2001).