Varie, 19 febbraio 2002
CANFORA
CANFORA Luciano Bari 5 giugno 1942. Storico • «Grecista barese, oltranzista dell’ortodossia stalinista anche se postuma, proietta nella politica la miopia intemporale del filologo classico. Dotato di proverbiale capacità di giudizio storico per aver liquidato come ”idiozia” la svolta nel Pci di Achille Occhetto e per aver preferito a Michail Gorbaciov i regimi dell’Est esaltando la funzione anticapitalistica della Germania Est, guata ogni occasione per gettarsi - foruncolo del ”Corriere” qual è – nell’agone giornalistico con puntualizzazioni, paradossi, corsivi polemici diretti per lo più contro Sergio Romano, ma anche contro Norberto Bobbio. All’esegesi dei classici greci e alla rievocazione dei grandi miti dell’Antichità, alterna saggi di storia contemporanea, da quello in cui difese la ”giusta sentenza” (l’assassinio del filosofo Giovanni Gentile) a quello su Palmiro Togliatti in cui accusò Paolo Spriano di incompetenza e malafede; un intervento orale, al Festival dell’Unità, sull’idea comunista secondo François Furet, gli valse da parte del compianto storico francese una definizione memorabile, ”à la limite du grotesque”. Tenta invano da anni di ottenere la cattedra di filologia classica alla Normale di Pisa. Scrive col pennino ma per inviare le sue epistole si serve del fax» (Pietrangelo Buttafuoco, ”Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini”, 10/10/1998). «Indipendentemente dall’epoca che l’analisi ha prescelto, è la politica, invariabilmente, il suo oggetto: l’osservazione del passato è sempre anche uno sguardo sul presente, e viceversa. Lo stesso metodo critico si esercita su Caligola e Mussolini, Cicerone e Gibbon, Tacito e Luttwak. L’analisi sulla relatività e parzialità di ogni visione del presente, sui condizionamenti ideologici del giornalismo culturale ad esempio, va dall’eretico Fozio al giacobino Marat, dal disincantato Leopardi al settario Brecht, dalle «penne comprate» ai tempi del Minculpop alla lucidità realpolitica di Croce storico del socialismo. Perché, se secondo Croce ogni storia è sempre contemporanea, secondo Canfora il mestiere di storico parte dall’esperienza personale e dall’osservazione incessante della politica. ”La politica è stata presente fin dall’inizio nella mia vita”, spiega. ”Sono convinto che sia la forma più alta di moralità e riassuma l’intera attività umana”. Come Tucidide e Tocqueville, Canfora si sente uno storico privilegiato: ”Ho potuto osservare il fenomeno comunista nel momento del suo massimo prestigio”, racconta, ”nell’immediato secondo dopoguerra, poi del suo definitivo cristallizzarsi in organismo statale autoritario e, infine, della sua caduta”. Fin da ragazzo, interrogandosi sulla rivoluzione d’ottobre, Canfora si è posto nella posizione minoritaria di chi non ignorava le scomode verità che la propaganda comunista aveva nascosto. Si è rivolto così al passato per esplorare il costante divario tra fatto e resoconto del fatto e sondare, alla fine, il mistero del progresso. Per capire gli esiti dell’esperienza sovietica Canfora ha studiato prima la rivoluzione francese, la reazione termidoriana, il terrore bianco. E’ arrivato a leggere Tucidide per verificare ”la salda e semplice filosofia della storia” del Manifesto di Marx ed Engels. ”Il problema centrale mi sembrava allora questo”, ricorda. ”Perché mai doveva considerarsi un progresso il passaggio dalla polis democratica alla monarchia assoluta macedone?”. Da questa radice si sono formate le riflessioni sulla ”retorica democratica”, sulla propaganda come forma naturale di comunicazione del divenire storico, la convinzione che lo studio della storia non può non avere al suo centro, come suggerisce il titolo stesso del libro, quello degli storici, delle loro idee e prevenzioni, informazioni e deformazioni: delle impercettibili ma inevitabili vibrazioni impresse dal moto del presente allo spettro visivo di chi guarda il passato. E’ così che Luciano Canfora è diventato, oltreché uno degli storici italiani più letti e tradotti nel mondo, uno dei critici più liberi e antidogmatici della politica del nostro paese: dall’apertura al revisionismo per il caso Gentile alla polemica sulla riforma universitaria di Berlinguer, contro cui non ha esitato a schierarsi, invocando la ”disobbedienza civile” dei professori ed evocando i millenari pericoli della demagogia. Del resto, come diceva Goethe, chi non tiene la sua contabilità su almeno tremila anni di storia, non ha titolo per giudicare il presente» (Silvia Romchey, ”La Stampa” 19/6/2003). Vedi: Luigi Quaranta, ”Sette” n. 23/2002;