Varie, 19 febbraio 2002
CARDINI
CARDINI Franco Firenze 5 agosto 1940. Storico. Insegna Storia medievale all’Università di Firenze e da oltre un trentennio si occupa di crociate, di pellegrinaggi e di rapporti tra la cristianità e l’Islam. Ha lavorato e viaggiato a lungo in Terra santa. Libri: L’avventura di un povero crociato, Il Barbarossa, Francesco d’Assisi, La vera storia della Lega lombarda, Quell’antica festa crudele, Alla corte dei papi (’liberal” 1/10/1998). «Anarchico di destra, cattolico tradizionalista, qualche ispirazione socialisteggiante: e in Spagna l’hanno accusato perfino di pensiero ”falangista” per qualche idea controcorrente sulle corride e il destino dei tori. In ogni caso, è l’esponente di una destra imprendibile, non omologabile. Franco Cardini non è soltanto un professore di storia medievale a Firenze: è in primo luogo lo studioso che nel 1981 lasciò allibita la categoria degli storici con un libro, Alle radici della cavalleria medievale, una prova di insolito spessore letterario, che contaminava archeologia, antropologia, storia della spiritualità. In seguito, una produzione senza argini: esattamente quella di un ”intellettuale disorganico” (come recita il titolo del suo ultimo libro, appena pubblicato da Aragno), in cui fa i conti con la sua biografia e l’esperienza di storico [...]» (Edmondo Berselli, ”L’espresso” 3/10/2002). «Io non sono uno storico. storico non chi conosce un po’ di fatti del passato e un po’ di metodo per raccoglierli e interpretarli, bensì chi riesce a proporne un’autentica visione causale. Tacito, Ranke, Cantimori, sono storici. Certo, quello dello storico è anche un ”mestiere”, come diceva un altro che se ne intendeva, Marc Bloch. E quel mestiere s’impara. Non sono uno storico. Sono un professore di storia. I miei colleghi della scuola secondaria debbono insegnare a studenti un po’ più giovani gli elementi di base della conoscenza del passato, secondo quello che fra noi definiamo il ”modulo narrativo-espositivo”. Noialtri, che all’università abbiamo a che fare con studenti un po’ più maturi e che sono o dovrebbero essere più interessati e motivati, siamo tenuti a introdurli alla storia non già come somma di contenuti, bensì come ricerca, secondo quello che ordinariamente si definisce il ”modulo esegetico-problematico”. Storia come critica dei fatti, delle istituzioni, delle strutture, dei loro rapporti interni, delle loro dinamiche. Storia come libero gioco di forze individuali, comunitarie e collettive che tra loro interagiscono e che sono a loro volta variamente condizionate dal peso del passato, da quello dell’ambiente in cui si muovono, dall’imponderabile irruzione dell’elemento inatteso ed emergenziale che può sconvolgere linee di tendenza apparentemente ben disegnate e interrompere, accelerare, deviare processi in atto. Storia come processo, appunto: non come ”progresso”, né come ”senso irreversibile”, né - tantomeno - come ”Spirito del Mondo”. La fine del neohegelismo in tutte le sue forme ci ha tolto queste certezze o queste illusioni: la Storia non ha un senso o una ragione. Quanto meno, immanenti. Lo storico è parente del detective e del clinico: ha dinanzi segni, indizi, sintomi; deve trovar delle prove e formulare delle diagnosi. ”Lo storico è come l’orco: dove sente odore di carne umana, là sa che c’è il suo pasto”, diceva ancora Marc Bloch. E questo vale per chi indaga sul passato prossimo come su quello più remoto: in questo senso resta valido l’aforisma crociano che tutta la storia è storia contemporanea. A patto d’intenderlo correttamente, cioè con un occhio affinato dalla filologia e dall’antropologia: perché la gente del passato ragionava diversamente da noi e noi siamo obbligati a decodificare in modo giusto quella diversità. E perché il passato, una volta passato, non c’è più: al massimo lascia tracce che spesso vengono cancellate intenzionalmente, spesso si cancellano da sole e che comunque possiamo anche ignorare: quelli che cambiamo però siamo noi. E con noi cambia il nostro modo d’intenderlo, di comprenderlo, di ricostruirlo. Ecco perché, contrariamente a quel che si ripete, per fare storia sono fondamentali i ”se” e i ”ma”: non per elaborare costruzioni fantastoriche, le quali possono anche esser divertenti, ma perché soltanto il chiederci come avrebbero potuto andare le cose se qualche fattore fosse mutato ci aiuta a comprendere appieno le reali potenzialità che si sono sviluppate traducendosi in dati reali. Lo storico deve avere delle passioni. E deve imparare a padroneggiarle, a dirigerle. Deve sapere che l’obiettività assoluta non esiste e che alla verità definitiva non si arriva mai; che la Storia non è un tribunale, che non assolve e non condanna mai nessuno definitivamente e che ufficio dello storico non è comunque il giudicare, bensì il comprendere [...]» (Franco Cardini, ”Avvenire” 24/9/2004).