Varie, 19 febbraio 2002
CARRA
CARRA Enzo Recanati (Macerata) 8 agosto 1943. Politico. Leader dei teodem, nel gennaio 2010, causa la candidatura di Emma Bonino a presidente della Regione Lazio, ha lasciato il Pd per l’Udc. Nel 1993, da portavoce dell’allora segretario della Dc Arnaldo Forlani, fu chiamato a testimoniare sulla tangente Enimont alla Democrazia cristiana, accusato per ”dichiarazioni reticenti” dal pubblico ministero Antonio Di Pietro, processato per direttissima e tradotto in aula con schiavettoni e catene. Un’immagine drammatica che fece il giro del mondo, ma aprì anche il varco ai primi dubbi su certi metodi del Pool. «Divenni un’icona di Mani pulite. Rappresentavo la Dc trascinata con i ferri in Tribunale... […] Ti chiedevano una cosa, gli rispondevi che non ne sapevi nulla, ma loro volevano comunque che tu accusassi qualcuno. Io mi rifiutai di partecipare a questo gioco al massacro e pagai a caro prezzo, anche se tutti i condannati per Enimont, da Cusani a Citaristi, confermarono che non ne sapevo nulla […] Vissi quel dramma come la prova della mia vita. E se riuscii a superarla fu perché, anche grazie alla violenza che mi fu riservata, il clima nel Paese cominciò a migliorare e i garantisti trovarono finalmente spazio sui media» (’Corriere della Sera” 2/11/2001) • «’Per celebrare il primo anniversario di Tangentopoli e per diffondere nel mondo un’immagine della Dc in catene, loro curarono i dettagli come in una sceneggiatura. Una mattina, poco dopo l’alba, ci hanno portato nelle cantine della prigione di San Vittore: assieme a cinquanta detenuti, per lo più peruviani, eravamo legati con un’unica catena di ferro, lunghissima. Ci hanno caricato in due cellulari e ci hanno portato nelle segrete sotterranee del palazzo di Giustizia di Milano. Gli altri furono liquidati in qualche ora. Alla fine rimasi solo. Affamato, saranno state le 14, dietro alle sbarre, quelle larghe tipo film western. Un carabiniere si impietosì e mi portò un panino con la mortadella. Quando mi hanno chiamato, il maresciallo dice: non c’è bisogno dei ferri. Squilla il telefono, parlotta e invece chiede gli schiavettoni, serra le manette e saliamo due rampe di scale. Le telecamere si avventano e comincia quella terribile passeggiata”. […] Il pomeriggio successivo a quella passeggiata, i magistrati del pool furono costretti a spiegare in un’affollata conferenza stampa che il trattamento riservato a Carra era standard, che non si trattava di una messa in scena, ”e invece è stato proprio così: serviva alla strategia di allora un’immagine della Dc prigioniera e sconfitta. E’ capitato a me, poteva capitare ed è capitato anche di peggio ad altri. Mi sono salvato grazie alla mia coscienza pulita, a una durezza che solo il carcere ti può tirare fuori e al senso dell’ironia che per fortuna non mi ha abbandonato mai. Oggi, quei giorni sono lontani”. Stringerebbe la mano a Di Pietro? ”Quando mi arrestò, gli urlai, dandogli del tu: ti rimorderà la coscienza tutta la vita, per quello che mi fai oggi. Lui rimase colpito. Molti mesi dopo, chiamò a Milano mia moglie Olga e quasi per scusarsi le disse: può capitare a tutti, di frequentare cattive compagnie, pensi a me, che ero amico del sindaco di Milano. Olga, che è di Cuneo, parlò poco e ascoltò stupita quelle parole. Non so se oggi... ma forse sarebbe un bene per tutti, chiudere con il giustizialismo”. […] Negli anni del potere, una parola di Carra era in grado di spostare equilibri politici, negli anni del crollo, c’era chi - al bar Ciampini in piazza in Lucina - spostava la sedia per non doverlo salutare (e spesso erano gli stessi che avevano chiesto, implorato e magari ottenuto un favore). ”Fu grazie a Giovanni Minoli che riuscii a superare il dopo-carcere - racconta - mi affidò una serie di documentari, me ne andai in giro per il mondo, dalla Cina all’Afghanistan, scrivevo sceneggiature, libri, cercavo di dimenticare. Tutti gli altri, a parte pochissimi amici, erano occupati a fare prediche, a corteggiare e omaggiare giudici, leghisti, nuovisti di tutti i tipi e qualità”. La fine della Prima Repubblica Enzo Carra l’ha vista dalle finestre di Piazza del Gesù. E le sequenze, la successione degli eventi e le mosse dei protagonisti compongono la trama di un film. Scena prima: ”Siamo alla primavera del 1991. Qualcuno, sotto la pressione del referendum di Segni e delle prime campagne di stampa contro la corruzione e il caso Enimont, invoca le elezioni anticipate. Andreotti, che è a capo del governo, si rifiuta. Forlani è cauto. Il Pci è lacerato in due, Armando Cossutta prepara la scissione e Bettino Craxi frena. Massimo D’Alema ha raccontato che lo fece per aiutare Achille Occhetto e la sua svolta. A me Bettino disse invece, sperando in una loro sconfitta: lasciamo fare a Cossutta, aspettiamo che lui porti via al Pds tutta la struttura e l’organizzazione e andiamo a votare in autunno. Nel ragionamento di Craxi c’era anche una personale preoccupazione: nel Capodanno 90-91 era stato male, voleva rimettersi in sesto prima di una nuova campagna elettorale. Intanto, la Dc viene indebolita da un governo che lasciava andare le cose, promuoveva tutti, sembrava non contrastare la corruzione. E da due morti, quella di Donat Cattin, che era un genio, e di Franco Malfatti, un uomo di grande raffinatezza politica. Si ammala Gava”. Scena seconda. ”Un giornalista importante mi chiama, era la fine dell’estate del 1991, e mi dice una cosa del tipo: gli ordini sono cambiati, dobbiamo mettere in luce tutti gli scandali di Bettino Craxi, cominceremo da Milano. E’ una grande occasione per la Dc. Lì ho capito che eravamo finiti tutti”. Scena terza. Scattano le prime indagini di Mani Pulite, è il febbraio 1992. Dalla scrivania di Carra si vedono due grandi vecchi, Andreotti e Forlani, che puntano soltanto al Quirinale ”e sottovalutano le inchieste di Milano, pensano che sia una delle solite vicende locali”. Si vede un Craxi che punta al grande ritorno a Palazzo Chigi, ma non è più l’uomo di una volta. E’ fisicamente indebolito, ”a Montecitorio i velinari professionisti dicevano che gli avevano amputato un piede, che portava una specie di scarpone finto, che non aveva più le dita”. Intanto, tutte le mattine, come un orologio, il Picconatore Cossiga lavora alla demolizione della Dc. ”E noi riunivamo l’ufficio politico del partito, con De Mita presidente del consiglio nazionale e Forlani segretario, per capire come affrontarlo. Parlavamo di cliniche, di medici. Di terapie, di pasticche, di preti, di esorcisti. Quando lo raccontavo al capo dello Stato, lui rideva soddisfatto”. In questo clima surreale, il 5 aprile 1992 si vota: il quadripartito prende la maggioranza, ”ma i partiti erano fuori gioco, non avranno il potere di imporre nulla: né il capo del governo, né i ministri. Appena un mese dopo, arrivano gli avvisi di garanzia per il dc Severino Citaristi e il repubblicano Antonio Del Pennino. In codice, significava che Forlani e Spadolini si erano giocati la presidenza della Repubblica. Persa quella, grazie anche ai sabotatori capeggiati da Cirino Pomicino, che, sperando in un’impossibile elezione di Andreotti, fecero mancare pochi voti all’elezione di Arnaldo, la valanga successiva ci avrebbe travolti”. Esce di scena il Caf, inizia la stagione dei governi scelti dal neopresidente Oscar Luigi Scalfaro. Dieci anni dopo, c’è chi attribuisce la disfatta dei partiti a un complotto delle toghe rosse. Chi a un forte condizionamento della Confindustria e dell’alta finanza. Chi alla sana rivolta della società civile, capeggiata da Mario Segni e appoggiata dai grandi editori. Chi al trionfo dell’Antipolitica contro una classe dirigente diventata inutile dopo il crollo del Muro di Berlino. ”Si erano consumate, in un duello estenuante, le due grandi linee politiche che ci aveva consegnato la morte di Moro. Quella di Berlinguer-Andreotti-De Mita, che puntava all’accordo fra i due blocchi e quella di Craxi-Forlani-Donat Cattin, di un centro-sinistra chiuso al Pci. Si erano consumati gli uomini, chi era morto, chi era invecchiato, non potevamo andare avanti sempre con il tirare a campare, come aveva fatto il Caf. Non so dire oggi se in quegli anni i partiti fossero peggiori, resta il fatto che la gente non li sopportava più. Eppoi, diciamo la verità: fra noi, c’erano alcuni che seguivano con passione il succedersi degli eventi, forse speravano di ereditare tutto il potere, tutte le poltrone lasciate libere dai grandi vecchi”. Fuori i nomi, Carra. Lui si ferma un attimo, guarda in alto e sospira - proprio come faceva Forlani - poi sussurra ”ma vogliamo credere che il ministro degli Interni e il ministro di Grazia e Giustizia non sapessero nulla di quanto stava per scatenarsi nelle Procure? Il patto fra Enzo Scotti e Claudio Martelli puntava dritto a due successioni: nel mirino c’erano Forlani e Craxi. Basta ricordare il discorso di Martelli, nel luglio 1991, al congresso di Bari, sulla moralità dei dirigenti socialisti”» (Barbara Palombelli, ”Corriere della Sera” 18/2/2002).