Varie, 19 febbraio 2002
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Carter Jimmy
• Plains (Stati Uniti) 1 ottobre 1924. Politico. Il 39° presidente degli Stati Uniti d’America, in carica dal 1977 al 1981. Tra i suoi successi la firma degli accordi di pace di Camp David fra Egitto ed Israele. Fu lui a far accantonare il McCarranAct, che vietava l’ingresso negli Usa dei comunisti • «Ex ufficiale di Marina e ingegnere nucleare sui sottomarini […] Educatamente ostinato, ferocemente sgobbone, mattiniero come l’ufficiale di Marina che era stato e come il preacher man, il predicatore battista che avrebbe voluto essere, Jimmy ”Spegni il Sorriso e Vai a Dormire”, come lo raccontavano i vignettisti del tempo, è stato l’ultimo presidente di un’America che non esiste più, quella prodotta dalla doppia umiliazione del Vietnam e del Watergate. Fu quell’onda di sdegno e di vergogna, quel bisogno di sentirsi di nuovo ”giusti” e non soltanto ”forti” che lo proiettarono dal piccolo mondo antico sudista dove la madre, miss Lilian, preparava il burro di noccioline, dove il fratello gestiva l’unica stazione di benzina del paese, stravaccato in salopette jeans unta e lattina di Budweiser perennemente in mano, alla Casa Bianca. Un mondo talmente lontano dalla acrobatica moralità di Clinton e dal bellicismo texano di Bush da mettere nei guai lui, marito fedele di una lavorante di parrucchiere, Rosalyn, quando osò confessare che non aveva mai tradito la moglie, ma ”ogni tanto avvertiva desiderio per altre donne”. Fu eletto per dimenticare Saigon e le Gole Profonde, per riportare ”moralità” nella casa di vetro, nella White House, e lui commise l’errore fatale che a volte i politici onesti commettono: prese sul serio le promesse che aveva fatto. Introdusse criteri di ”moralità” nella politica estera degli Usa dopo anni di ripugnanti dittature puntellate per interesse strategico, mise al bando gli ”omicidi di leader politici” stranieri, aprì per la prima volta l’Amministrazione a uomini di colore e a donne, licenziò in tronco per il sospetto di conflitto di interessi un vecchio amico banchiere, Bert Lance, che aveva scelto come capo gabinetto, lasciò che l’apparato militare americano, proprio lui che era uscito dall’accademia navale di Annapolis, decadesse. Sempre nella ostinata, sincera convinzione che il messaggio della montagna, ”beati coloro che fanno la pace”, fosse un programma di governo praticabile. un uomo per bene, convinto che il mondo sia un luogo per bene, dunque condannato a subire e a infliggere tremende delusioni. I sovietici lo tradirono con l’invasione dell’Afghanistan, che lo costrinse al boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca nel 1980. L’Ayatollah rovesciò lo Scia e poi prese in ostaggio per 444 giorni i diplomatici americani a Teheran, spingendolo a una tragicomica operazione di salvataggio che finì in catastrofe, con otto militari americani uccisi. Gli sceicchi del petrolio strangolarono l’economia americana, portando l’inflazione al 18 per cento e costringendo i viziatissimi automobilisti americani a qualche coda nei distributori. Ma quando, nel 1978, sequestrò Anwar Sadat e Menachem Begin a Camp David per 14 giorni li costrinse a quella pace fra Egitto e Israele che ancora regge e che impedisce l’esplosione della guerra aperta. Un trattato che valse il Nobel a Begin e Sadat, ma non a lui. L’America si stancò in fretta di lui, associandolo ai tempi duri che quegli anni ”70 avevano portato e gli preferì il messaggio technicolor e ottimista di Reagan, colui che annunciava ”è di nuovo mattino in America”, si svegliava serenamente alle 9, sapeva scherzare e preferiva una breve esposizione a voce, piuttosto che il noioso librone sullo stato del mondo. Il Carter Cincinnato sconfitto, tornato alle lezioni di dottrina il sabato pomeriggio, alla sua vocazione di ”portatore di pace”, si dedicò a fabbricare sedie e case per i poveri, essendo, cristianamente, un ottimo falegname. Creò un Carter Center per la democrazia ad Atlanta, volando in 36 paesi a sorvegliare le elezioni per conto dell’Onu. Osò andare a incontrare il ”demonio” Castro, per testimoniare l’insensatezza di quell’embargo. E continuò a ripetere il messaggio della montagna, se vuoi la pace prepara la pace, fino a dissentire apertamente dal Bush della ”guerra preventiva” e a dire che lui avrebbero votato contro l’attacco all´Iraq e atteso che l’Onu decretasse il fallimento delle ispezioni» (Vittorio Zucconi, ”la Repubblica” 12/10/2002). «La sua è stata una presidenza sfortunata, morta nel pantano - 1980 - degli ostaggi americani a Teheran. Ben diverso il clima quattro anni prima, quando gli Stati Uniti lo scoprirono e lo scelsero per intraprendere un nuovo cammino. Bisogna infatti risalire a John Kennedy, e alla sua fortunata campagna presidenziale del 1960, per trovare un episodio di vita politica americana paragonabile all’imprevista e schiacciante ascesa di Jimmy Carter. In meno di un anno questo coltivatore di noccioline, la cui unica esperienza amministrativa di rilievo era stata il governatorato della Georgia, si trasformò da personaggio poco conosciuto su scala nazionale in protagonista di un’America alla ricerca di una nuova identità dopo le traversie degli ultimi anni: Vietnam, Cambogia, Watergate. Il raffronto con Kennedy non è casuale: come Kennedy, Carter si trovava di fronte a un’America sfiduciata, in un’impasse esistenziale. Per Kennedy era l’America che usciva dalla guerra fredda e cominciava a medicare le ferite del suo tessuto sociale, e le cure sembrarono condensate in quelle ”nuove frontiere” che anche dopo l’uccisione del Presidente rappresentarono il filo conduttore della politica interna americana. Carter invece aveva davanti a sé un Paese che essenzialmente voleva dimenticare gli orrori della guerra ma soprattutto la corruzione di Washington, la disonestà del mondo politico. Non a caso affrontò la lunga corsa dall’anonimato alla popolarità curando in ogni modo la stessa immagine di ”uomo nuovo” che Kennedy aveva saputo proiettare, fino a imitarne i tratti più amati dall’elettorato, come il ciuffo di capelli sulla fronte. Un raffronto così superficiale potrebbe anche continuare, sulla falsariga di un’analisi sommaria che fa di entrambi abili ”venditori di speranza”. In realtà c’erano, tra i due personaggi, alcune differenze sostanziali. Kennedy, per esempio, non aveva mai messo in dubbio l’integrità e la competenza del mondo politico di Washington, mentre Carter lanciò una sfida aperta alle pastoie politiche (lo stesso partito democratico lo osteggiò a lungo nella sua rincorsa alla Casa Bianca) e ai meandri della burocrazia federale; Kennedy aveva rappresentato l’aristocrazia del denaro della Nuova Inghilterra mentre Carter si propose come self-made man, l’uomo che si è fatto da sé, a costo di duri sacrifici; Kennedy aveva dovuto superare i pregiudizi degli americani nei confronti della sua fede cattolica, Carter invece (di fede battista) aveva il torto di venire dal ”profondo Sud”, di avere cioè le radici nell’America schiavista (un pregiudizio che restava, a oltre un secolo dalla guerra civile) e conservatrice; se Kennedy, infine, aveva tratto i suoi appoggi politici da una sorta di complotto tribale, Carter si creò una corte di sostenitori affascinandoli con la sua spregiudicatezza e soprattutto con la bandiera dell’efficientismo che sventolava a ogni occasione. Nella lotta presidenziale americana, che sotto molti aspetti sa di allegro carnevale, seppe imbroccare la via giusta: imponendo l’immagine di uomo serio, preparato, onesto, ma anche curando con estrema attenzione quella di allegro compagnone, di chi riesce a fondere le tetraggini della politica con l’umorismo e il disinvolto humor dell’americano qualsiasi. Che non fosse un calcolo di natura squisitamente politica, solo un ingenuo avrebbe potuto supporlo; sta di fatto che con quel ”clown” d’eccezione il grande circo della politica americana vide rinascere, con una compattezza insospettata alla fine del ”75, le fortune del partito democratico. Era questione d’adattabilità: la stessa che ha segnato gli anni seguenti, sempre difficili per un ex presidente in cerca di un ruolo» (Fabio Galvano, ”La Stampa” 12/10/2002). «’Il miglior ex presidente degli Stati Uniti”. Così molti media americani lo chiamano sarcasticamente, ricordandone la pallida amministrazione, illuminata soltanto dal trionfo di Camp David, la pace tra Egitto e Israele. Gli ammiratori vedono in lui il ”Grande taumaturgo”, il leader che guarì l’America ferita dalla sconfitta in Vietnam e dal Watergate, l’architetto dei diritti umani, dipingendolo come una sorta di Gandhi Usa. I critici rievocano i suoi numerosi fiaschi, culminati nella disastrosa missione dei commando in Iran nell’80 per liberare gli ostaggi dell’ambasciata a Teheran, e nella umiliazione inflittagli dagli ayatollah, che li scarcerarono solo mezz’ora dopo l’insediamento di Ronald Reagan alla Casa Bianca. Anche lo storico democratico Arthur Schlesinger, suo compagno di partito, lo definisce ”un presidente mediocre”. E con una punta di umorismo, lui stesso ammette di non avere potuto ”convincere il popolo americano che sono un leader energico e forte”. Nel ”76, senza il Watergate e il Vietnam, probabilmente non sarebbe stato eletto presidente. L’America era esausta e scoraggiata. Alla Casa Bianca sedeva Gerald Ford, subentrato nel ”74 a Richard Nixon dopo che questi era stato costretto alle dimissioni per lo scandalo che lo legava a una vicenda di spionaggio contro i democratici. L’economia era in crisi, l’elettorato diviso. Carter era un provinciale semi- sconosciuto, un agricoltore di Plains in Georgia, nel profondo sud, con una piccola azienda di arachidi e una famiglia eccentrica. I suoi brevi trascorsi di ex governatore, ex ufficiale di marina e ingegnere atomico erano passati inosservati. Ma mister Noccioline presentò agli elettori un volto nuovo, onesto, apolitico: un crociato contro l’establishment militar- industriale. L’America che voleva il cambiamento s’identificò in lui. Carter commise errori nella campagna elettorale: in piena rivoluzione sessuale e in piena guerra fredda, confessò a ”Playboy” di avere talvolta ”desiderato la donna d’altri”, e di volere la distensione con l’Urss. Ma chiunque avrebbe vinto contro Ford, prigioniero del passato. ”L’inaugurazione” presidenziale del gennaio del 1977 fu un trionfo: tenendo la moglie Rosalynn per mano marciò a piedi dal Congresso alla Casa Bianca tra gli applausi della folla. A 52 anni, sembrò a molti una versione modesta, popolare di John Kennedy. Fu la classica luna di miele del nuovo eletto con l’elettorato. Ma durò poco. Scoppiarono i primi scandali: il fratello Billy, semi- alcolizzato, strinse rapporti d’affari con il leader libico Gheddafi, allora nemico numero uno della Superpotenza, e Carter dovette troncarli; il ministro del Tesoro Bert Lance si dimise per brogli finanziari; esplose la crisi petrolifera del ”78, la seconda in cinque anni, e ”l’indice della miseria” (disoccupazione più inflazione) salì alle stelle. Cominciarono i pettegolezzi: Lillian, l’estroversa ottuagenaria madre del presidente, si serviva della Casa Bianca per fare proselitismo religioso; la figlia Amy era una pacifista che contestava l’amministrazione in piazza; Rosalynn, ”la magnolia di ferro” del sud, partecipava alle riunioni di gabinetto della Casa Bianca (altro che Hillary Clinton). Lui aggravò la crescente immagine di casualità e disordine della Casa Bianca con la sua condotta personale. A un vertice baciò il leader sovietico Breznev, l’invasore della Cecoslovacchia, tra le proteste dei repubblicani. Dopo una partita di pesca, raccontò di essere stato aggredito da un coniglio, suscitando la derisione dei media. Rischiò lo svenimento a una maratona, lo sport di cui era più appassionato. La pace di Camp David del marzo del ”79 tra il presidente egiziano Sadat e il premier israeliano Begin, lo rilanciò per qualche mese. Ma la caduta dello scià a Teheran, la sua decisione di concedergli asilo politico e la vendetta degli ayatollah segnarono la sua fine. Quando mandò aerei ed elicotteri in Iran, e due di essi si scontrarono rovinando la missione, il segretario di Stato Cyrus Vance si dimise in segno di protesta. L’ambasciata a Teheran fu tenuta ostaggio per 444 giorni, e Carter perse le successive elezioni. Per due anni l’ex presidente, l’uomo di fede – i servizi segreti lo chiamano in codice ”il diacono” – si trasformò nel biblico pastore carpentiere, lavorando con pialla e martello alla costruzione di case per i poveri e predicando nelle chiese. Poi, nell’82 fondò il Carter center ad Atlanta, e lo elevò rapidamente a un faro dei diritti civili, della lotta alla fame e alle malattie, e a un simbolo di pace. Le doti che lo avevano danneggiato alla Casa Bianca, innanzitutto il suo vizio accentratore, il ”micromanagement”, divennero la sua forza. Il suo carnet di ”grande pacificatore” è impressionante, dall’Etiopia all’Eritrea al Nicaragua, dalla Corea del Nord ad Haiti, persino a Cuba, dove di recente Castro gli ha riservato un’accoglienza regale. A 78 anni è un ambasciatore itinerante dell’America, l’ultima risorsa dei nuovi presidenti, da Reagan che imparò ad apprezzarlo, a Bush padre, e dei leader di tutto il mondo. Con la moglie Rosalynn al fianco, ha lavorato in 120 nazioni. Nessun ex inquilino della Casa Bianca aveva fatto tanto per l’umanità quanto lui. per avere evitato bagni di sangue, portato il bene dove c’era il male, che il Nobel lo ha premiato. Come ha detto un altro ex presidente, Bill Clinton, che vorrebbe ricalcarne le orme, il ”grande saggio dell’America è un modello per la sua gioventù”. Ha scritto 15 libri, uno di poesie, un altro religioso. ”Quando lasciai la Casa Bianca – ha confidato – calcolai di avere ancora 25 anni a mia disposizione. Ringrazio Dio di non averli sprecati”» (Ennio Caretto, ”Corriere della Sera” 12/10/2002).