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 2002  febbraio 19 Martedì calendario

CASELLI

CASELLI Giancarlo Alessandria 9 maggio 1939. Magistrato. Capo della Procura della Repubblica di Torino. stato giudice istruttore a Torino nelle inchieste sul terrorismo rosso fino alla metà degli anni Ottanta. Nel 1986 viene eletto al Csm per Magistratura democratica, poi torna a Torino in Corte d’Assise e nel 1993 diventa procuratore di Palermo. Nel giugno 1999 viene chiamato alla guida delle carceri italiane, nel 2001 a Bruxelles come rappresentante di Eurojust • «Tanto tempo fa qualcuno diceva che era un giudice ”fascista”. Avevano appena rapito il direttore del personale della Fiat Ettore Amerio, l’Italia stava entrando nei suoi anni di piombo. Il primo a chiamarlo apertamente ”comunista” veniva invece da Corleone: era Totò Riina. Come una belva si dibatteva nella gabbia, un giorno parlò di complotti e sibilò un nome: Gian Carlo Caselli. Ricorda lui: ”Lo stesso anatema indirizzato dieci anni prima al pool di Falcone da un altro mafioso di primo piano, Antonino Salvo”. Uno dei terribili cugini di Salemi, gli esattori. [...] una vita tra i Palazzi di giustizia - uditore nel ’67 a Torino [...] ”Sono l´unico magistrato italiano al quale il Parlamento ha dedicato espressamente una legge. Una legge contra personam che mi ha espropriato di un diritto: quello di concorrere, alla pari con altri colleghi, alla carica di Procuratore nazionale antimafia”. [...] una cronaca vista dal di dentro della guerra al terrorismo e poi di quella a Cosa Nostra, gli incontri in Piemonte con il generale Carlo Alberto dalla Chiesa e gli scontri al Csm per la nomina di Falcone a capo dell’ufficio istruzione, il processo Andreotti, l’inchiesta su Marcello Dell´Utri, gli attacchi della politica ai cosiddetti processi politici siciliani, le vicende e le ferite italiane di un quarto di secolo. Voleva andare in Calabria Gian Carlo Caselli quando lasciò Palazzo dei Marescialli, quattro anni - dal 1986 al 1990 - a duellare con chi ironizzava sui giudici ”sceriffi” e a trasferire giudici ”ragazzini” nelle regioni dove spadroneggiavano mafia e camorra e ’ndrangheta. ”Ho pensato che fare un’esperienza in Calabria avrebbe compensato il disagio che avevo dovuto infliggere ad altri, ma la Sicilia no, non l’avevo mai presa in considerazione” [...]. Aveva un ”buon rapporto” con Falcone e ”un ottimo rapporto” con Borsellino, dopo le stragi viene scelto come procuratore capo a Palermo e prende possesso di una stanza dove alcuni suoi predecessori avevano perfino negato l’esistenza della mafia. Ma non è tutto bianco e tutto nero nella Sicilia di quella stagione dove sembra che l’isola stia per esplodere di rabbia, dove le piazze sono in rivolta contro i boss, dove dai balconi sventola la protesta dei lenzuoli. Il neo procuratore sbarca in città e il Ros del colonnello Mario Mori gli fa trovare impacchettato Totò Riina, latitante da 24 anni e 6 mesi. Un successo poliziesco clamoroso, macchiato però dall’inspiegabile abbandono del covo del corleonese ”senza che la Procura ne sapesse nulla”. [...] ricorda: ”Dei miei anni a Palermo si ricordano soprattutto i processi a imputati eccellenti”. [...] primi passi come uditore ”quando la Costituzione cominciava ad uscire dal cassetto”, quando lui si riconosce già allora in Magistratura democratica che ”rappresentava la rottura di una visione del potere giudiziario”. [...]» (Attilio Bolzoni, ”la Repubblica” 9/12/2005). «Procuratore Generale della Repubblica a Torino - è stato capo della Procura di Palermo dalla fine del ’92 all’agosto ’99. Si erano appena patite le stragi di Falcone prima, Borsellino poi, e le loro scorte. Il magistrato torinese che aveva piegato il terrorismo si propose per andare a proseguire il loro lavoro. Ricorda: ”Iniziò l’operazione Vespri Siciliani, con i militari che sorvegliavano per ventiquattr’ore uffici, abitazioni, ogni tipo di obiettivo sensibile, così da lasciar più libere le forze dell’ordine per prevenzione e attività investigativa sul territorio”. Non è Palermo che Caselli ricorda come luogo indimenticabile. O, meglio, ricorda l’impennata di orgoglio e dignità della gente, ma non può ricordare strade, vicoli, mercati perché li ha sempre visti da un’auto in corsa, in un viaggio camuffato da incidente, da un elicottero, da una finestra blindata: ”Anche la festa di Santa Rosalia l’ho seguita in televisione, nell’appartamento”. Eccolo l’appartamento indimenticabile. Alla Favorita, davanti all’ippodromo, c’è un complesso chiamato Tre Torri che lo Stato sequestra per piazzarci uffici della Dia, forze di polizia e abitazioni di magistrati: ”A me toccò il nono piano. Ottavo e decimo furono lasciati vuoti per precauzione. Davanti alla porta c’era quella postazione con il filo spinato e il militare armato. Ricordo con affetto quei giovani che, quando terminava il loro periodo di servizio, mi chiedevano una foto con loro, fieri di essersi impegnati per la legalità”. L’interno era per assurdo un momento di relax, in piena solitudine. Simbolo massimo di rischio e di quiete, paradossalmente di libertà di star solo. Solitudine anche per il pranzo: vietate le trattorie, un piatto in ufficio, dove c’è anche una branda per le notti che la scorta dei Nocs considera più a rischio. La cena è alle Tre Torri. Racconta Caselli: ”Mangiavo pesce spada, del quale sono ghiotto, che mi surgelavo io. E poi trippa e bollito che cucinava e surgelava mia moglie quando venivo a Torino a trovare la famiglia. Me li portavo a Palermo in quei contenitori frigorifero, in un angolino dell’aereo militare. Non ho voluto mai che loro mi raggiungessero. Solo una volta, quando non stavo molto bene, mi ha fatto una sorpresa mia moglie”. Palermo è la fuori: ”Dalla finestra guardavo il Monte Pellegrino, l’ippodromo, le palme, respiravo la città da lì, cercando di sentirne la fisicità, ma il quotidiano, il gusto di una passeggiata era impossibile. Ero letteralmente impacchettato da quei ragazzi che rischiavano la vita per la mia e imponevano le regole: dovevi fare come volevano loro. Con gentilezza e rispetto decidevano per te. E tu obbedivi. Li ricordo con grande affetto e riconoscenza”. I Nocs stabiliscono orari e spostamenti, tragitti e opportunità di incontri pubblici. Di questa vita Caselli ha narrato nel volume scritto con il collega Antonio Ingroia, a cura di Maurizio De Luca, L’eredità scomoda: da Falcone ad Andreotti sette anni a Palermo (Feltrinelli). Ci sono nel libro episodi che, a margine della drammaticità del momento, gli consentono di sorridere: ”Avevano preoccupazioni particolari. Quando scesi mi tolsero la borsa con gli incartamenti e la giacca. Mi diedero una tuta da ginnastica e un berrettaccio. Erano tutti in tuta: andammo a fare jogging, ma loro erano atleti veri e dopo qualche chilometro stentavo a tenere il passo. Fu una sfida personale. Arrivati dov’erano le auto blindate, potei riprendere fiato”. Tra i mezzi con cui il Procuratore esce da Palazzo di Giustizia diretto a casa c’è un cellulare della Polizia Penitenziaria mescolato tra quelli degli imputati: ”Forse un presagio dell’incarico che avrei avuto dopo, alla direzione del Dipartimento che si occupa delle carceri”. Si annuncia un dibattito pubblico a Favara e va a fuoco il teatro. Si annuncia un altro dibattito a Corleone e la scorta sconsiglia di andarci: ”Era un momento difficile, ma Fra Paolo, francescano, sorreggeva quell’impeto di ribellione, presa di coscienza, spinta forte. Dovevo andarci. I Nocs misero una condizione: il come lo decidiamo noi. Nel garage mi fecero sdraiare sul sedile posteriore di un’auto, con una coperta addosso. Ero un sequestrato. Ma non bastava. Caricarono l’auto su un carro attrezzi e andammo là in questo modo. Neppure i carabinieri, attentissimi e allertati, capirono da dove ero sbucato”. D’improvviso l’appartamento diventa a rischio. Si prepara un attentato dal Ponte Pellegrino. Con un missile. Arrivano i tecnici e lo blindano interamente con lastre da 30-40 centrimetri: ”Mi sembrava di vivere nel caveau di una banca. Al questore La Barbera non pareva sufficiente quel caveau, perciò mi prese e mi trasferì a Bocca di Falco, aeroporto di esercito e forze dell’ordine. C’erano uffici, militari di servizio. La notte vivevo una solitudine enorme. C’era un campo da tennis ma era proibito usarlo, riuscimmo soltanto a fare qualche partita. Quando tornai a Torino gli elicotteristi mi regalarono un casco con scritte tutte le ore di volo segreto fatte insieme”. Il luogo fisico della memoria è la blindatura, è il filo spinato davanti alla porta, sono le lamiere che ricoprono l’appartamento, i viaggi più strani. Il luogo morale della memoria rimane un altro: ”Quando decisi di propormi pensavo alla mia famiglia. Una volta laggiù, capii la solitudine, ma capii anche l’impennata di libertà dalla mafia da parte della gente, l’importanza degli incontri con parrocchie, circoli, teatri, scuole. Volevano normalità ed eravamo lì per tentare di offrirla, senza badare al fango che ci arrivava addosso. In quella vita impari ad apprezzare meglio anche le piccole cose quotidiane insieme con il mestiere che hai scelto. E capisci che rifaresti tutto da capo”» (Marco Neirotti, ”La Stampa” 18/8/2004). «’Io, fondamentalista?... Non mi è facile parlare di me. Ma il linguaggio della coerenza e del rigore, prima di tutto con se stessi, e l’impegno e la fatica e le rinunzie..., hanno altri nomi. Faccio il magistrato che applica la legge, le mie convinzioni intellettuali, filosofiche, restano fuori dal mio lavoro. [...] il terrorista si pentiva sulla base di una crisi politica, per il fallimento dei suoi progetti rivoluzionari. Si rendeva conto che aveva praticato una violenza armata in nome di niente, capiva che la sua era stata soltanto una feroce illusione. In lui c’era una duplice molla: certo!, l’interesse personale, o, meglio, una prospettiva di interesse personale; ma anche un profondo convincimento ideologico, l’accertamento di una sconfitta irreversibile”. E il pentito di mafia? ”Anche qui tanti casi diversi. C’è l’interesse, e c’è la crisi individuale: ma la crisi del mafioso non è ideologica, è una crisi di potere. Prendiamo crisi e interesse come due poli fra cui corrono tante sfumature: ciascun pentito va a collocarsi dentro quell’arco. Nel pentito di mafia, l’interesse personale è di sicuro prevalente. Ma c’è altro, magari di radice psicologica... Era un uomo potente, viveva la sua latitanza nel territorio con tranquillità e benessere: se andava in galera, era un uomo che comandava anche lì. Dopo le stragi di Falcone e Borsellino, con il famoso 41 bis, il rigore del carcere provoca uno scarto. Cambia l’atteggiamento dello Stato, il quale con una legge dice: voglio combattere la mafia; ma per conoscere la sua mentalità e i suoi segreti; se tu me li riveli, vieni incontro agli interessi generali e io ti compenso con benefici, con sconti di pena eccetera. A quel punto, crisi di potere e prospettiva di benefici, determinarono la massa di pentimenti di questi ultimi sette anni”. E in precedenza, con Falcone e Borsellino? ”Sono stati loro a dare inizio a un diverso atteggiamento dello Stato nei confronti della mafia, a combatterla in maniera efficace. Ma hanno potuto lavorare poco. Ed è una vergogna che, avendo mostrato che la mafia si poteva sconfiggere, siano stati professionalmente bloccati - lasciamo perdere perché, ma lo sono stati - a forza di polemiche, cui mi dispiace dirlo, partecipò anche il grande Sciascia, uno scrittore che faccio leggere ai miei figli, sia chiaro... Ci furono polemiche strumentali sull’uso dei pentiti, sul pool bollato come ’centro di potere’, ci fu distorsione politica dei profili personali... Falcone, accusato di essere un ’comunista’!... Queste polemiche impedirono al pool di lavorare, e si infiammarono ancora di più quando Borsellino cominciò a occuparsi delle relazioni ’esterne’ della mafia, di Ciancimino, dei fratelli Salvo. Questa è una storia da non dimenticare. Vede, il lavoro di Falcone finisce quando il consigliere Caponnetto decide di tornare a Firenze e si apre il capitolo della sua successione. Fu una battaglia durissima che io vissi all’interno del Csm. Erano di fronte Falcone, erede naturale di Caponnetto, con una competenza specifica ineguagliabile, e il giudice Meli, una persona onestissima, di qualità, ma portatore, nella lotta alla mafia, di una cultura che ormai si rivelava inadeguata. Da un lato c’era una visione organica dell’indagine; Meli, con una lunga anzianità di servizio, era per la frammentazione, un metodo che si era rivelato perdente. Venne ciononostante nominato Meli. Quella battaglia si svolse fra la decadenza del vecchio codice e l’entrata in vigore del nuovo dove la figura del giudice istruttore non c’è più... Che senso aveva discutere intorno a un ufficio che sarebbe scomparso? Si voleva bloccare un metodo di lavoro: questo era il punto... [...] Constato che il pool che stava vincendo venne di fatto fermato. Falcone emigrò a Roma, Borsellino era già a Marsala. Constato che i guai per il pool cominciano quando si comincia a occupare delle relazioni della mafia con pezzi del mondo esterno [...] Posso dire che, nella massa delle ricerche da fare, molte volte ci è mancato alla lettera il tempo per elaborare risposte che non fossero soltanto la necessaria, doverosa, affannosa gestione di quel che ci arrivava. Possono esserci stati errori di prospettiva, di valutazione. Il nostro lavoro è cominciato dopo le stragi, in una situazione di collasso non solo della lotta antimafia, ma delle stesse istituzioni. La mafia sembrava più forte di tutto e di tutti. Ma il nostro paese si dimostrò in possesso di anticorpi vigorosi: diede risposte con la legge, proprio la legge sui pentiti, [...] Ha consentito l’arresto di un numero enorme di latitanti, da Riina a Santapaola a Pulvirenti alla famiglia Ganci alla famiglia Madonia e a tutti gli altri: ha consentito la ricostruzione di delitti gravissimi, a cominciare dalle stragi, ha consentito il sequestro di armi, di capitali per un valore di diecimila miliardi: insomma, ha inceppato una macchina di morte fino a quel momento invincibile, inarrestabile. Vogliamo dimenticarcelo? Noi partivamo dall’anno zero... Abbiamo lavorato in questa situazione, cercando di correre dietro a tutto quanto fosse materia di indagine. In questa prospettiva, qualche errore può essere stato commesso [...] Nessuno ha mai parlato di ’terzo livello’, né Falcone né noi. Il fatto è che la mafia ha cercato contatti, compromessi con pezzi, ripeto ’pezzi’, del mondo che le sta attorno... Non dimentichiamo Santi Mattarella, Pio La Torre: c’è un elenco interminabile di servitori dello Stato che sono stati uccisi... Il ’terzo livello’ non esiste: c’è casomai un intreccio di interessi formicolante. Non c’è il politico che comanda alla mafia qualcosa o viceversa: possono esservi momenti di permeabilità. [...] Che di mafia abbia infettato la vita del nostro paese, lo sanno tutti. Indagare, quando ve ne siano spunti, sul versante delle cosiddette relazioni esterne, con pezzi della politica, della finanza e dell’economia, del sociale anche, è indispensabile, perché la risposta a Cosa Nostra sia articolata e completa. Cosa Nostra è qualcosa di molto diverso da una qualsiasi banda di gangster: vuole il controllo del territorio, e a questo fine intreccia relazioni. Il nostro criterio è stato sempre: un fatto, una persona. [...] Non facevamo processi a partiti, alla storia. Abbiamo agito solo per applicare la Costituzione, la legge uguale per tutti. Solo al servizio dello Stato”» (Enzo Siciliano, ”L’Espresso” 11/4/1999). «[...] spiega, con orgoglio, cos’è il casellismo e, una volta chiamato in causa, ricorda che il termine è stato coniato e utilizzato dal senatore Marcello Dell’Utri, un ”soggetto recentemente condannato a Palermo in primo grado (fatta salva quindi la presunzione di non colpevolezza) a nove anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa”. [...] ”Il riformista”, il quotidiano diretto da Antonio Polito [...] non gli aveva risparmiato aspre critiche: il casellismo consiste in ”una lunga serie di processi di mafia sistematicamente smontati in sede dibattimentale e, dunque, l’ex procuratore di Palermo non è adatto a guidare la Direzione nazionale antimafia”. Il dibattito sugli anni di Caselli a Palermo, sui processi all’ala militare della mafia conclusi con ”centinaia di ergastoli” e su quelli ai colletti bianchi di Cosa nostra sfociati anche in assoluzioni per ”insufficienza di prove” [...] Caselli si difende rivendicando al pool di Palermo il coraggio di aver affrontato anche in sede processuale, e non solo con le chiacchiere, le connessioni tra mafia e politica. [...]» (Dino Martirano, ”Corriere della Sera” 13/1/2005).