varie, 19 febbraio 2002
CASTELLITTO
CASTELLITTO Sergio Roma 18 agosto 1953. Attore. Sposato con Margaret Mazzantini. «Un cavallo di razza, il Baggio della recitazione» (Carlo Carlei). «Un personaggio dopo l’altro, appare il più accreditabile successore di Marcello Mastroianni [...] Sul video nostrano è diventato popolare incarnando don Milani, Fausto Coppi e Padre Pio» (’La Stampa” 7/8/2001). «Non è un divo, non è un sex-symbol, insomma non è una ”immagine”. qualcosa di più raro e complesso. un attore-autore, e da prima di passare alla regia, per la sicurezza e la disinvoltura con cui sa mettere qualcosa di suo, talvolta di segretamente suo, nei personaggi più diversi. un attore di solida formazione classica, con anni di studi e di palcoscenico alle spalle, trasformatosi come pochi in ”animale” cinematografico. Ma è anche il professionista coraggioso che quando ruoli e film interessanti scarseggiavano ha preso cappello per andarsene all’estero. Accettando anche piccole parti, o autori alle prime armi, pur di scoprire altri mondi e rimettersi in gioco. Come avrebbe fatto Mastroianni in età matura, se vogliamo. Solo che per Mastroianni questa fase libera e avventurosa veniva dopo una carriera irripetibile; per Castellitto invece questa apparente deviazione avrebbe segnato un nuovo inizio. Un modo per mettere a frutto la curiosità e l’inquietudine, e insieme per cercare dentro di sé la propria natura profonda. Perché il cinema sarà una lingua internazionale, ma nessuno è più spaesato di un attore all’estero. Mentre Castellitto, senza mai cadere nel ”tipico”, ha travasato la sua italianità indiscutibile quanto irrequieta e moderna in film francesi, canadesi, tedeschi, seducendo perfino un grande incontentabile come Jacques Rivette (Va savoir). E intanto, fra un viaggio e l’altro, ha messo insieme una quantità e una varietà di ruoli che non hanno forse eguali nel panorama contemporaneo. Chi altro è stato, fra cinema e televisione, Fausto Coppi e Padre Pio, Enzo Ferrari, Gioacchino Rossini e Don Milani, ma anche uno psichiatra (Il grande cocomero) e un detective (A vendre), un borghese in crisi e un mariuolo di periferia (Non ti muovere e Sembra morto... ma è solo svenuto), un proiezionista imbroglione e un negoziante ebreo (L’uomo delle stelle, Concorrenza sleale), un professore frustrato e un artista in rotta con la famiglia e la società (Caterina va in città , L’ora di religione)? [...]» (Fabio Ferzetti, ”Il Messaggero” 8/1/2005). «Ho sempre considerato il mio mestiere un privilegio. Lavorare con la fantasia, l’immaginazione, una certa passione psicologica e fisica, mi è sempre sembrato un lusso. Ricordo il giorno in cui nell’azienda dove lavoravo da un anno e che si occupava della distribuzione di giornali sul territorio nazionale, arrivò la telefonata di un mio ex-compagno di scuola con il quale avevamo organizzato qualche saggio scolastico. Io ero davanti ad un tabulato e stavo decidendo quante copie di una nota rivista pornografica avrei dovuto far spedire in una cittadina di mare. ”Stanno cercando un conduttore per una trasmissione per bambini, perché non ci provi? Pagano poco, però pagano”. Ci provai, per gioco, per noia di quel tabulato e di quella rivista che nemmeno mi eccitava più. Naturalmente non mi scelsero, presero un raccomandato ma due mesi dopo il regista di quella trasmissione mi chiamò per dirmi che c’era un ruolo in uno spettacolo teatrale, ”Calderon de la Barca, poche battute, pochi soldi, ti va?”. Molto spesso lo spettacolo saltava perché per la regola il numero degli attori non può superare quello degli spettatori in sala. Eravamo otto attori, fatevi il conto. Ma alle prove di quello spettacolo conobbi un allievo dell’Accademia d’arte drammatica di Roma che mi convinse a frequentare i corsi come uditore. Durante le lezioni in un piccolo, bellissimo teatrino, la passione per questo mestiere cominciò a crescere. Fino a quando non arrivò il giorno della scelta definitiva. Gli insegnanti chiesero ad alcuni uditori se avessero voluto affrontare gli esami per diventare allievi. Ci pensai su qualche giorno, o forse qualche ora. Scrissi una lettera di dimissioni all’azienda dove lavoravo e la presentai. Una sera a cena, informai i miei genitori del salto. Se volete conoscere la loro reazione, basterà che andiate a rivedervi la scena in cui il ragazzino di E.T. scopre l’alieno dietro il cespuglio. L’alieno, naturalmente, ero io. [...] cerco di tenere ancora in vita questa alienità. l’unico modo per combinare qualcosa di buono. Ogni volta che comincio le prove di uno spettacolo o un film, cerco di sentirmi un po’ inadeguato al compito. Io non credo nell’immedesimazione, per carattere, per cultura, per preparazione, perché sono italiano. Credo nella rappresentazione, i miei maestri si chiamano Marcello Mastroianni, Gianmaria Volonté, Alberto Sordi. Ma cerco sempre il panico, l’incertezza, quell’adrenalina che accende l’immaginazione e la nutre. Un grande regista cecoslovacco, Otomar Kreijka, con il quale ho recitato in teatro Cechov e Strindberg, ci diceva ”Fatevi venire almeno una seconda idea perché la prima assomiglia sempre a uno stereotipo”. Non me lo sono mai dimenticato, ancora oggi. Recitare per me significa divertirmi, emozionarmi e provare ad essere utile all’emotività degli spettatori. Recitare un personaggio è come raccontare una storia, quella storia diventa uno specchio per chi la ascolta e in quello specchio rintracci qualcosa che ti riguarda, che ti fa ridere o ti fa pensare. Il mio riferimento è la vita perché è alla vita che il mio lavoro torna. Anche per questo amo gli errori: un attore che sbaglia a darti una battuta, un vuoto di memoria, un inciampo nel binario della cinepresa, è la vita che si fa beffa delle prove, del preconfezionato. Detesto gli attori che interrompono un ciak dicendo ”scusate, ho sbagliato”. Vaffanculo! Non hai sbagliato, sono solo cambiate le regole, accetta la sfida che quel binario fra i piedi ti lancia. Ecco, è così che mi diverto, l’ho imparato dai bambini, che quando giocano s’impegnano, s’incazzano, ridono ma guai a chi interrompe il gioco» (’Il Messaggero” 8/1/2005).