varie, 19 febbraio 2002
CAUSIO
CAUSIO Franco Lecce 1 febbraio 1949. Ex calciatore. Ala- centrocampista, cominciò a giocare nel Lecce: tre partite in serie C nella stagione 1964-65, poi la stagione successiva passò alla Sambenedettese. Un provino positivo gli aprì le porte della Juventus, con cui debuttò in serie A il 21 gennaio 1968 in Mantova-Juventus 0-0. Fu l’unica sua presenza in bianconero per quella stagione. Poi fu mandato a fare esperienza altrove: un campionato nella Reggina in serie B e quindi un altro nel Palermo in serie A. Dopodiché, fu richiamato a Torino. Nella stagione 1970-71 Causio giocò il primo di undici campionati consecutivi da titolare nella Juventus. Il suo bilancio alla fine fu di 447 partite giocate (305 in campionato) e 73 gol realizzati (49 in campionato). I trofei vinti: 6 scudetti, una Coppa Uefa e una Coppa Italia. Nel 1981-82 fu ceduto all’Udinese dove fu protagonista di tre altre stagioni giocate ad alto livello. A 35 anni giocò un altro campionato con l’Inter, poi tornò a casa, a Lecce; le ultime partite con la Triestina. Il debutto in azzurro avvenne il 29 aprile 1972, in Italia- Belgio 0-0 a San Siro, con Valcareggi in panchina. Alla fine furono 63 presenze con sei gol e con la conquista del titolo mondiale in Spagna nel 1982. Dodicesimo nella classifica del Pallone d’Oro 1976, tredicesimo nel 1977, diciannovesimo nel 1978, ventunesimo nel 1979 • «’Brazil” per la fantasia, ”Barone” per l’eleganza e il baffo aristrocratico: con Bruno Conti e Claudio Sala una delle più grandi ali mai espresse dal calcio italiano. Alla Juventus giunge via Lecce e Sambenedettese. Debutta a Mantova, nel 1968, allenatore Heribero Herrera, poi Reggina, Palermo e ritorno alla base. Orgoglioso e tecnicamente dotatissimo, Causio è un pittore che dipinge dribbling e veroniche, fughe e cross: gli attaccanti alla Bettega gli devono un sacco di gol. Negli anni Settanta, diventa un punto di riferimento irrinunciabile della Juve e della Nazionale. Il suo calcio è spettacolo ambulante, sempre e comunque al servizio dei palati più fini. Con lui, le ali riprendono a volare [...]» (’La Stampa” 19/1/2004) • «[...] è stato un grande giocatore, un campione fantasioso e irrequieto. Classe e dribbling, talento puro, piedi di velluto. Qualcuno scrisse: ala e tornante. Riduttivo. Era, ha detto Enzo Bearzot, c. t. campione del mondo, una mezzala completa. ”Sono stato bene, ho giocato in buoni posti e vinto molto. Sono contento, nel calcio alla fine ho fatto tutto”. [...] Adamo, il suo allenatore. ”Mi fa esordire a sedici anni in serie C, per caso. Quelli della prima squadra scioperano, nelle ultime tre partite giochiamo noi della Primavera. Poi mi mandano a San Benedetto del Tronto, sempre in C. Quelli sono gli anni dei viaggi e delle selezioni. Quanti provini. Ne ho fatti in tutti i posti, a Milano, a Mantova, a Roma e in giro per l’Italia”. E a Torino? ”Sono stato quindici giorni, con il Toro. L’allenatore era Nereo Rocco, il vice Bearzot. Quindici giorni, pensavo mi prendessero. Un sacco di complimenti e bei discorsi sulla carriera e sul futuro. Bearzot voleva tenermi, sono tornato a casa aspettando un telegramma. Un giorno mi chiamano a Forlì. Altra prova, stavolta selezione Juve. Dico: ”Basta, non ne posso più, sono stufo. Prove, prove, ma cosa devono vedere ancora?”. Mi dicono: ”Fa’ il bravo, vai, è importante, ci sarà il capo degli osservatori, uno che ne capisce veramente”. A Forlì faccio tre-quattro gol e altre cose in pochi minuti. Un uomo a bordo campo mi urla: ”Basta! Basta così”. Esco, convinto di aver sbagliato qualcosa. L’accompagnatore mi prende sotto braccio: ”Sai chi è quello? Luciano Moggi, uno giusto. Decide lui. Anzi, ha già deciso”. In quel preciso momento ero diventato juventino”. Giovanili, Italo Allodi che voleva mandarlo via per indisciplina: ”Ma no, ero un ragazzo esuberante. Diciamo così. Una sera torno tardi assieme a Savoldi, si arrabbiano, una bella strigliata, minacce. Insomma, un bel cazziatone. Ma capiscono. Ci sto due anni, alla Juve, mi fanno esordire con il Mantova e poi mi mandano a farmi le ossa prima a Reggio Calabria e poi a Palermo. Si diceva così, fare le ossa. In Sicilia, quando arriva la Juve, faccio diventare matto Cuccureddu. Alla fine Giampiero Boniperti mi stringe la mano: ”Tu sei nostro, sei in prestito, vero?’. ”Penso, presidente’. ”Ah, che bella notizia’. Torno alla Juve e quella sarà la mia definitiva Juve”. Dodici stagioni, sei scudetti. ”Ho due grandi ricordi: i consigli di Helmut Haller e l’aiuto di Armando Picchi. Allora c’era il mercato di novembre e chi giocava un minuto entro quel mese non poteva più essere ceduto. Volevano mandarmi alla Lazio. Ancora ossa. Ma Picchi mi mise in campo contro il Milan per impedire la cessione e alla squadra disse: ”Voi siete i titolari, ma questo è un maestro del calcio e troverà subito un posto’. Fece alcuni spostamenti, liberò una posizione a centrocampo: ”Maestro, fai quello che sai fare’. Dalla Juve sono uscito quando mi hanno ceduto”. All’Udinese. Undici anni dopo. Il passaggio è traumatico, Causio ci rimane male, polemica inevitabile. Allora. Adesso, Franco dice: ”Mi hanno mandato via, eravamo in tre per un ruolo: Fanna, Marocchino ed io, il più vecchio. Avevo 31 anni. Con la Juve ero uscito dalla nazionale. Con l’Udinese l’ho riconquistata. Sono diventato campione del mondo. Boniperti mi ha richiamato tre anni dopo, ma ero già in parola con l’Inter. ”No, grazie: vado a Milano’”. Mundial in Spagna, gioca a carte con il presidente Pertini sull’aereo del trionfo. Racconta Causio: ”Il ritorno è stato molto bello, divertente la partitina con il presidente, Bearzot e Zoff. Ah, Pertini che uomo, che personalità. Un po’ di tempo dopo, una mattina, mi sto allenando al Moretti, il vecchio stadio di Udine, adesso non c’è più. Arriva una gazzella dei carabinieri, un capitano corre dall’allenatore Enzo Ferrari. Mi guardano e Ferrari mi chiama: ”Barone, vogliono te’. ”Me?’. Sono un po’ sorpreso e preoccupato. Il capitano mi dice a bassa voce: ”Causio ci segua, il presidente Pertini vuole vederla”. Siamo stati insieme tutto il giorno, a mangiare in una trattoria del centro, a parlare di calcio e di vino, della Spagna, della Juve e del mio futuro. Mi disse: ”Sei bravo, bravo, spero che tu diventi anche un buon allenatore’”. Anche Gianni Agnelli mandò un biglietto con scritto: bravo. Con tre punti esclamativi. ”No, era una foto con dedica. L’Avvocato mi vedeva bene. Se è per questo anche Boniperti, un vero maestro. Ho fatto il corso di allenatore, sono diventato vicepresidente della Triestina, osservatore della Juve, team manager dell’Udinese. Ho fatto tutto ma non sono riuscito ad allenare”. Osservatore bianconero sino all’arrivo della triade Moggi- Giraudo- Bettega. ”Io ero con Boniperti, cambiarono i collaboratori. Mi è dispiaciuto, soprattutto per il rapporto che avevo con Roberto Bettega, eravamo stati una vita assieme, avevamo diviso camere e ambizioni. Ma l’ho accettato, sono le regole del calcio e del lavoro. Tutto cambia, tutto si trasforma. successo alla Juve dove avevo dato e vinto molto. successo all’Udinese, dove mi hanno considerato una pietra miliare, il giocatore della rinascita. Io non ho rimpianti, per me la riconoscenza è importante. Io non ho mai sputato nel piatto dove ho mangiato”. I ricordi rimbalzano. Ventiquattro anni di calcio giocato, più di ottocento partite, la sua Juventus con Capello, Altafini, Anastasi, Scirea, Boninsegna, Tardelli. La sua Udinese con Gerolin, De Agostini, Edinho, Mauro, Virdis e Zico. Il cavaliere della Repubblica Franco Causio è un uomo molto orgoglioso. Delle sue origini, della sua famiglia, del suo calcio, del suo lavoro. ”Un po’ di tempo fa ho visto Moggi, abbiamo chiacchierato a lungo. Gli ho detto: ”Sai, Luciano, nel calcio ho fatto tutto, mi manca una panchina, mi piacerebbe allenare, anche in serie C. Cosa ne pensi?’. Ha scosso la testa: ”Lascia perdere, fai bene il tuo lavoroin televisione. Ti diverti? Ti pagano? Continua così, non farti venire dei mal di testa’”. [...]» (Germano Bovolenta, ”La Gazzetta dello Sport” 13/2/2005) • Ha scritto Giampiero Mughini: «Lo chiamarono ”Brazil” per la sua maniera alla brasiliana di colpire il pallone. Avrebbero dovuto ricordare una frase di Alberto Savinio, quella in cui lui ammetteva di non saper giocare a carambola e non se ne dava pace: ”Carambolisti si nasce, così come si nasce violinisti o disegnatori al tratto. Rinunciai a qualunque carambolica speranza quando, dopo ripetuti e dolorosi tentativi, mi convinsi che il carambolista non viveva in me”. Ecco, tutto al contrario che in Savinio, il ”carambolista” viveva in Causio. Gli era come annidato dentro. Causio c’era nato ”carambolista”: di un’arte della carambola che prevedeva non l’uso della stecca bensì quello dei piedi. Gli avversari dicevano che tutto stava a non lasciargli il tempo di ragionare, a non lasciargli quel metro di vantaggio, che altrimenti non c’era più niente da fare a tentare di fermarlo. ” troppo più forte di me, non potevo fare nulla contro di lui” ammise un Lele Oriali umiliato durante un Juventus-Inter del campionato 1971/1972, una partita in cui Causio aveva segnato tutti e tre i gol del 3-0 projuventino, e dire che uno come Oriali diverrà campione del mondo nel 1982. [...]» (Un sogno chiamato Juventus, Mondadori 2003).