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 2002  febbraio 19 Martedì calendario

CAVAZZONI

CAVAZZONI Ermanno Reggio Emilia 5 giugno 1947. Scrittore. Insegna all’Università di Bologna. Oltre a Il poema dei lunatici (1987), che ha segnato il suo esordio, ha pubblicato Le tentazioni di Girolamo (1991) e Vite brevi di idioti (1994) e alcuni racconti per l’antologia Narratori delle riserve, a cura di Gianni Celati (Feltrinelli. 1992). autore di scherzi letterari (I sette cuori, 1992) e di traduzioni infedeli (Jacopo da Varagine, Le leggende dei santi, 1993) • «[...] Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni [...] è l’opera più stramba, gradevole e sofisticata che mi sia capitata sotto gli occhi da molti anni a questa parte. In qualche episodio è un tantino ridondante; ma certe prolissità sono trascinate via dalle continue invenzioni. L’autore [...] è ricercatore di Estetica all’Università di Bologna; dunque, sia pure in un campo dai confini divenuti incerti, è un professionista della riflessione, un teorico dell’immaginario. Ma si sa che lo spirito burlesco è non di rado il confortevole compagno delle menti filosofiche. Cavazzoni deve aver perlustrato in lungo e in largo l’immaginario comico, nella letteratura e nel cinema, coltivando una predilezione per particolari forme dello straniamento buffonesco. So quasi nulla del suo talento filosofico (più che altro lo arguisco dalle argomentate stranezze di questo libro), ma posso dire che il suo talento letterario è cospicuo, e grande nella fumisteria. Di suggestioni fumiste, di magie squinternate e ridicole, Cavazzoni è insieme un inventore e un utilizzatore inesauribile. Scansiamo subito qualche possibile equivoco. Il poema dei lunatici è scritto in prosa, e in una prosa niente affatto dotta, anzi deliberatamente finto-candida e melensamente demenziale. Questa melensaggine, che si esibisce nel tono sprovveduto e volenteroso-credulone dell’io narrante, è senza dubbio uno strumento collaudato; ma risulta assai efficiente e produce effetti spesso irresistibili. Il protagonista è un ricercatore di balle: bottiglie nel fondo dei pozzi, esserini che abitano nelle tubature dell’acqua, anellidi che vivono in simbiosi coi dubbi mentali, madonne che appaiono in campagna e sui campanili, popolazioni invisibili ai confini del nostro mondo. naturale che nel suo girovagare s’imbatta in tipi bislacchi con i quali, ovviamente, corre curiose avventure e scambia, soprattutto, un inverosimile repertorio di conoscenze maniacali. Il racconto è tutto festosamente balordo, davvero lunatico dalla cima al fondo, e procede collezionando abilmente una stramberia dopo l’altra. Quando una stravaganza comincia a stuccarci, Cavazzoni smette e ce ne propina una nuova. Il bislacco libro è un omaggio dal basso alle coglionerie di messer Ludovico Ariosto e alla licantropia del suo cavaliere Orlando; però qui di furioso c’è soltanto una scena finale dove, dopo un gran duello a feroci colpi di scopa e di paletta, il vincitore, un mattocchio prefetto di nome Gonnella (sfumatura boccaccesca), svanisce trasvolando nella beatitudine come il palazzeschiano Perelà. L’ispirazione operativa del testo di Cavazzoni è un composto pressoché insolubile. Mentre leggevo il poema, m’ è venuta in mente una intera biblioteca, nonché una piccola cineteca di lunatici. Se l’elenco che segue non vi accende bagliori nella testa, è probabile che non apprezzerete Il poema dei lunatici. Cavazzoni s’è costruito una tradizione che dal Till Eulenspiegel, dal Baldus del Folengo, dal Bertoldo e dal Cunto del Basile, passando per il Candido di Voltaire, arriva fino allo Sveik di Hasek, ai devianti di Montaldi (Autobiografie della leggera), al Celati delle Avventure di Guizzardi, al Serpente di Malerba. Per la strada si scorgono gli Altrove e Un certo Piuma di Michaux, e mi pare di intravedere perfino Il Sempione strizza l’occhio al Frejus (un Vittorini quasi dimenticato). Si avvertono, così alla rinfusa, le novellaje popolari degli svitati, soprattutto padani. Quanto ai comici della pellicola, non possono mancare il classico Stanlio che dorme in piedi e l’impassibile ottimista Buster Keaton; e neppure, per venire ai nostri giorni, i citrulli di razza impersonati da Benigni e Nuti. Non credo di aver esaurito l’elenco dei modelli, dei prestiti, degli influssi palesi e nascosti (c’è giustamente anche un pizzico di Pirandello). Ma tutte queste presenze, dirette o indirette, danno sapore al testo e sono spesso riscritture geniali, fuse in uno sproloquio controllatissimo che ruota impavido sulle trovate più astratte, sui dialoghi assurdamente meticolosi, sulla ostinata coerenza che è propria dei sogni balzani. Figure e situazioni strampalate si offrono nella concretezza della favola, come se il mondo delle realtà convenzionali e opprimenti stesse sempre dall’altra parte, e non contasse niente. Viceversa qui, nella serietà ridicola delle esplorazioni inutili, nel rovescio-spazzatura del mondo, può succedere che si scoprano le verità che contano. C’è bisogno di aggiungere che tali verità sono risibili? Nestore, abbandonato dalla moglie, vive ora consolato dai suoi elettrodomestici, che gli vogliono bene. La sua disgrazia era cominciata quando s’era accorto che sua moglie era un locomotore e lui s’era esaurito in tanti anni a fare il marito di un treno. E il povero sofà era la campagna che passava sotto i miei occhi velati, e mi sentivo fratello ai tralci di velluto e ai braccioli imbottiti, coi fiori di bel damasco. Poi via, io povera puleggia, di questo potente locomotore che andava avanti per la strada ferrata; in un fumo, in un fumo! Finalmente la moglie scappa con un vivisettore di polli e Nestore comincia a sospettare che il mondo sia fatto di imitazioni, di esseri finti e di cose truccate. Così il protagonista fa una scoperta capitale: se qua tutto è finto è un’opera d’arte. Il becchino Pigafetta gli rivela che sottoterra non c’è niente e che invece negli scarichi della città c’è l’inferno, e l’inferno è una schifezza puzzolente. La vocazione all’indagine si esalta nel protagonista quando incontra il Gonnella, che si dichiara prefetto a riposo e facente funzione in segreto. Ora si mettono a esplorare insieme tutte le magagne nascoste e gli apolidi di frontiera, campi sconosciuti, gente nascosta e dedita all’ ossessione. Gonnella ha una teoria: che questa gente si nasconde per difesa, come han fatto gli Aztechi. Appena gli spagnoli li hanno scoperti, c’è stata tanta pubblicità che le navi facevano la fila per andarli a depredare. Così gli Aztechi hanno perduto tutto e i sopravvissuti hanno deciso di non dare nell’occhio; hanno smesso di fare strade, città, templi, fortezze; si sono rintanati sotto le rocce, hanno cessato di scrivere, sono diventati prudentissimi e impercettibili e gli spagnoli non possono più depredarli. Il protagonista spera di ottenere informazioni dai ripetitori, specie di insetti dotati di uno speciale sistema di orecchiamento, rapidissimi e vociferanti, di scarso cervello ma atti a infilarsi dappertutto, anche nei posti più stretti. Ma se certe popolazioni scompaiono, altre vengono su come funghi in una notte; e perfino le regioni, le frontiere, non stanno mai ferme, crescono una sull’ altra, ondeggiano. Gonnella e il protagonista scoprono che un vero atlante geografico, come vorrebbero loro, definitivo e assolutamente trasparente, non si può fare. Verso la metà, anziché afflosciarsi, il libro prende un’andatura più ilare e spedita, le invenzioni comiche si infittiscono; e questo è un bene, perché ormai ci siamo abituati alle tecniche paradossali di Cavazzoni. Cinque o sei episodi (ma non so se chiamarli più esattamente giocolerie o variazioni) risultano esilaranti. Gonnella alle prese con incubi notturni e ombre minacciose intorno al suo letto, ha imparato la tecnica dei samurai. Egli dorme e lascia sveglio un braccio allenato al disarticolamento: come le ombre si avvicinano al letto, il braccio che sta di vedetta si mette a sferrare colpi a destra e a sinistra e rintuzza gli assalti del nemico. Il protagonista s’innamora di una signorina-uccello o donna-gallina che alla fine diventa un gallo cedrone e lo becca forte sul collo e gli si attacca alle spalle: e così correvo alla cieca senza risparmio, in mezzo a un sbattere d’ali e di piume, e pensavo: mamma mia, com’è strano l’amore. Uno studente legge alcune memorie di un suo prozio garibaldino e i nostri balordi apprendono come s’è svolta veramente la conquista della Sicilia da parte di un Garibaldi svampito, confusionario e sicuro di sé quando non si distrae. Un altro studente completa il quadro storico raccontando l’autentica vicenda del viceré, che in tutti gli atti di governo e di guerra si ispirava alla matematica. Gonnella spiega a Savini (il protagonista) che anche loro due sono nel mezzo di una guerra (una guerra di nervi, che però è la stessa cosa), solo che Savini non se ne accorge, proprio come quel tale che aveva la casa in mezzo alla pianura di Waterloo e non s’accorse della famosa battaglia. Qui scatta una gioconda parodia del celebre episodio di Fabrizio del Dongo a Waterloo nella Certosa di Parma di Stendhal. Un tale sostiene che nel mondo le balle ci son sempre state perché vengono su da sé, come prova la storia di Giuda Iscariota, che non fu affatto un traditore, ma un tradito. Qui mi fermo, non voglio dare troppe dritte agli eventuali lettori del Poema dei lunatici. Io ne ho tollerato le intermittenti prolissità perché la corrente della scrittura mi divertiva e prometteva, stagnando un poco in qualche ingorgo e indugio, di riprendere presto il suo gaio e tranquillo impeto. Difatti, così è stato. E altrettanto mi auguro sia di voi» (Alfredo Giuliani, ”la Repubblica” 30/12/1987).