Varie, 19 febbraio 2002
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Cela CamiloJose
• Iria-Flavia (Spagna) 11 maggio 1916, 17 gennaio 2002. Romanziere, saggista, poeta, giornalista. Premio Nobel per la Letteratura 1989. «Padre spagnolo e mamma italo-inglese. [...] Era per lui un punto d’onore non mostrare debolezze, presentare una scorza ruvida, anche se chi lo conosceva bene parla di una tenerezza nascosta. Alla tenerezza di Cela, alto, diritto, viso da totem severo, non credono quei personaggi della vita spagnola, in primo luogo colleghi, che hanno dovuto subire commenti velenosi e sarcastici. Lo scrittore, autore di dieci romanzi, alcuni dei quali considerati capolavori della letteratura spagnola del XX secolo, e di una settantina fra saggi, poemi e racconti di viaggio, non aveva peli sulla lingua ed era attratto dalle polemiche. Polemiche e scontri erano parte integrante di un personaggio che non credeva ’in mode, scuole, tendenze e nemmeno nella burocrazia della letteratura’. Gli spagnoli più giovani, che magari hanno letto a scuola La famiglia di Pascual Duarte, uno dei sui romanzi più belli, lo hanno conosciuto come anziano al centro di controversie che finivano in titoloni di giornale. Poteva essere un commento misogino o politicamente non corretto, una battuta cattiva, un’accusa di plagio o di autoplagio, un matrimonio spezzato dopo lunga vita in comune con la prima moglie per convolare in seconde nozze, già in età molto tarda, con una donna con la metà dei suoi anni. Anche le abitudini erano oggetto di attenzione delle cronache rosa come gli spostamenti in una Rolls Royce guidata da una donna di colore in uniforme di gala. Un originale Cela lo era fin dalla giovinezza. Dopo l’infanzia dorata in una famiglia benestante e colta, aveva studiato medicina, filosofia e legge senza costrutto. Aveva provato ad essere torero, pittore, attore prima di scoprire la letteratura, in tempi difficili, in piena guerra civile. E su quegli inizi, i critici di Cela ricamavano a piacere. Lo scrittore non voleva dare soddisfazione ai suoi nemici che riesumavano vecchie storie. Aveva combattuto a fianco dei franchisti, ma questo poco importa. Agli avversari premeva ricordare il suo lavoro di censore di stampa, fra il 1938 e il 1942. Avevano anche ripescato negli archivi una lettera da lui firmata in cui il futuro Nobel offriva i suoi servigi come confidente alla polizia franchista per non andare al fronte. Durante la transizione alla democrazia, seguita alla morte di Franco, più volte si era sollevato il problema della sua collaborazione con il regime autoritario ma Cela aveva sempre respinto le accuse sostenendo di essere stato costretto a lavorare come censore ’per mantenersi agli studi’. Diceva che il danno da lui provocato con la matita rossa del censore era inesistente, dato che doveva controllare riviste come il Messaggero del Cuore di Gesù o il Bollettino del Collegio degli orfani dei ferrovieri . E ricordava che il suo La famiglia di Pascual Duarte, uscito nel 1942, era stato colpito dalla censura franchista tanto che era stato pubblicato a Buenos Aires. Gli premeva sottolineare come nel Dopoguerra una rivista di cui era direttore aveva ospitato scrittori che vivevano in esilio. Ma la polemica non lo abbandonava mai. Dopo il Nobel, indispettito per non avere ancora ricevuto il Premio Cervantes, l’alloro più importante della letteratura spagnola, aveva detto che ’il premio è pieno di m...’. In seguito, secondo gli avversari, aveva brigato in ogni modo per ottenere il Cervantes, elogiandolo apertamente. Un altro premio, il Planeta, di prestigio inferiore ma molto ricco, lo aveva vinto con il libro La Crux de San Andres all’origine di un’accusa di plagio da parte di un’oscura scrittrice. Il vecchio e glorioso scrittore aveva dovuto presentarsi in tribunale il maggio scorso per difendersi dall’accusa. E l’ultima controversia ha visto Cela, già malandato in salute, protagonista in ottobre. Dinanzi al re e a molti capi di Stato latinoamericani riuniti a Valladolid per il secondo Congresso della Lingua Spagnola, ha letto un bel discorso sulla difesa dell’idioma. Qualcuno, sicuramente non un amico, ha scoperto che il discorso era identico a quello pronunciato nel primo Congresso in Messico nel 1997. E il discorso in Messico era eguale ad un altro pronunciato nel 1992» (Mino Vignolo, ”Corriere della Sera” 18/1/2002). «Di carattere tormentato fin dall´inizio della vita, e probabilmente dotato di una forte dose di bastian contrarismo, Cela combatté nella guerra civile dalla parte dei franchisti, un evento che ebbe un peso speciale sulla sua vita, sul giudizio dei critici e, con tutta probabilità, ma in modo sottile, sulla sua opera stessa. Infatti, a differenza di altri scrittori franchisti o ligi al regime, che negli anni della dittatura si espressero, e non soltanto in poesia, in modo irreale, evasico, sfuggente, Cela, proprio nel momento più cruento del franchismo, nel 1942, quando aveva poco più di 25 anni, venne fuori con La famiglia di Pascual Duarte: un romanzo che è certamente uno dei migliori del Novecento e va in senso assolutamente contrario al clima dell´epoca. Come fosse riuscito a pubblicarlo, nonostante la censura feroce, è ancora oggi materia opinabile e discutibile, né valgono a chiarirla i ricordi abbastanza nebulosi offerti da Cela stesso circa le sue liti con i censori. Certo è che soltanto in provincia egli trovò un piccolo editore disposto a stampare il Duarte. Questa storia dai contenuti brutali, autoconfessione di un contadino sul quale pesano delitti di sangue, compreso un assassinio politico e la morte della madre, ebbe un successo immediato, anche se basato su presupposti in parte errati: molti critici credettero di riconoscere in questa storia di sangue, ignoranza, destino implacabile, una continuazione della vena picaresca che si era assopita in Spagna nel Settecento. Per questo libro si coniò il termine di tremendismo, trascurando la vena grottesca esperpentica, come si dice in spagnolo, che accompagnerà sempre poi l´immensa opera di Cela, ora nascosta sotto il realismo, ora velata da civetteria e che lo lega ad alcuni grandi della letteratura spagnola, prima di tutto Pío Baroja e poi Valle-Inclán, tutti maestri in quell´arte della deformazione che parte dalla realtà e si serve del realismo per passare sopra il suo cadavere. Sessant´anni, per di più densi di mutamenti, sono passati in Spagna dall´uscita del Duarte che tuttavia restò, a torto o a ragione, il segno distintivo di Cela. Da allora fino al Nobel a Cela erano passati per la testa cento titoli e altri ne ha scritti dopo, compreso quel romanzo Madera de boj (Legno di bosso) del 1999, che è stato esaltato proprio per la vena avanguardista, surrealista, che esisteva in Cela fin dal suo primo libro di poesia, scritto nel 1936 e poi pubblicato nel 1945, Pisando la dudosa luz del día (Calpestando la dubbiosa luce del giorno). Quasi altrettanto importante del Duarte e scritto pochi anni dopo, nel 1951, è La colmena, tradotto in italiano come L´alveare (anch´esso, come il Duarte, pubblicato presso Einaudi) e uscito a Buenos Aires proprio per ovviare alla difficoltà della censura che si era particolarmente accanita contro questo realismo sociologico e contro la descrizione, molto vivida ma anch´essa poetica, di un casermone popolare. Più che di un elenco di titoli la vita di uno scrittore come Cela sembra fatta di iniziative, di svolte, e soprattutto di linguaggio adattato man mano alle situazioni ma sempre sentito come immensa ricchezza. Una storia particolare è quella del romanzo La catira (La bionda), del 1955, collegata con un viaggio intrapreso da Cela nel 1953 quando, inviato dal centro galiziano a far le conferenze a Caracas, incorse in varie vicissitudini di tipo politico, ma fu prescelto dal presidente del Venezuela, incerto tra Hemingway, Camus oppure Cela, per scrivere un romanzo a sfondo venezuelano. Tutto sarebbe andato bene se Cela, fino ad allora poverissimo, ma già sposato con figlio, tornato dal Venezuela con un po´ di soldi non avesse celebrato questa circostanza insieme alla moglie ed alcuni amici, una sera, in un locale, dove s´infiammò (anche per colpa di Cela) una tremenda rissa tra camerieri, artisti e clienti. Ci fu qualcuno che fece un taglio spaventoso a Cela, sulla natica sinistra. Da lì cominciò una vera odissea per lo scrittore che subì più di venti operazioni e portò su di sé fino alla morte il segno di queste intemperanze giovanili. Di tutt´altro tipo è invece il romanzo scritto a Maiorca e che s´intitola Oficio de tinieblas, 5 (Ufficio delle tenebre, 5) del 1971: forse il libro più tragico e difficile di Cela, una sorta di monodia verbale, dal sottofondo sadico, che egli stesso definì ’purga del mio cuore’. Collegato, però, questo libro a uno straordinario soggiorno compiuto nell´isola dove lo scrittore diresse per vari anni una rivista, Papeles de Son Armandans, che fu un vero faro di cultura aperta e viva, del tutto scissa dall´ideologia franchista ancora imperante. Dobbiamo chiederci, a questo punto, quanti Cela siano davvero esistiti e concludere però che è morto invece un grande scrittore, ’disposto’, come è stato detto assai bene da Miguel García-Posada, ’a rischiare avventure di impegno difficile... e capace di trascendere le miserie e precarietà che possono alimentare il successo, la gloria e tutte quelle pompe che poco hanno a che fare con la letteratura’» (Angela Bianchini, ”la Stampa” 18/1/2002).