Varie, 19 febbraio 2002
CERAMI
CERAMI Vincenzo Roma 2 novembre 1940. Scrittore • «Sono nato in una famiglia piccolo borghese, mio padre era maresciallo nella Roma fuori le mura, verso San Giovanni, all’Alberone. A casa non c’erano libri, neanche uno. Lui era militare e quindi l’unica cosa da leggere a portata di mano era la collezione dell’Aquilone, una rivista di aeroplani: una di quelle cose tutte in bianco e nero, con i piloti con qui baffoni ridicoli, con Francesco Baracca. Non solo non conoscevo nulla, ma mi vedevo già nella carriera militare, strada sulla quale poi è finito mio fratello. Per fortuna uno scarto di soli tre anni tra me e lui ha fatto la differenza. Lui aveva la memoria della guerra, e quindi c’è rimasto impastoiato: ha vissuto tutta la sua vita in uno strano terrore, molto irrazionale e molto profondo, che ne ha fatto una persona un po’ chiusa, introversa. Io invece ho cominciato a sentire il rock che arrivava d’oltreoceano, a leggere i primissimi fumetti. Ecco: i fumetti sono stati una grande liberazione, proprio un’apertura, una sprovincializzazione enorme [...] Per noi che stavamo in parrocchia e giocavamo a biliardino, i fumetti sono stati fondamentali. Ci portavano in spazi lontani, allargavano gli orizzonti. E poi è venuto il cinema, ancora più forte, più potente. così che la nostra generazione ha cominciato a guardare avanti, non indietro [...] Se ho cominciato a scrivere, invece, è stato per una difterite. una malattia che adesso è scomparsa, ma all’epoca ogni tanto compariva. Una malattia mortale: è il velopendulo che si gonfia e si rimane soffocati. Avevo dieci anni. Per fortuna, non so perché, trangugiando un brodo tiepido, che non volevo assolutamente bere perché mi usciva dal naso tutto quello che tentavo di mandar giù - però me lo davano per forza, se no morivo di fame - mi scoppiò qualcosa e guarii. Non appena sono guarito - quando si dice la sfiga - ho cominciato a non vedere più. In realtà vedevo doppio, poi triplo, poi quadruplo, e nel giro di una settimana c’erano diecimila persone davanti a me, e invece era una sola. E poi tutte queste persone si sono coalizzate e si sono trasformate in una nebbia bianca. Ho vissuto un anno e più dentro quella nebbia. Non potevo muovermi, stavo quasi sempre a letto, sbattevo dappertutto, non volevo alzarmi. Sentivo attorno a me mia mamma, mio papà, mio fratello e mia sorella che facevano finta di essere allegri, e io però capivo che non lo erano. Anche perché è vero che quando non si vede gli altri sensi si acuiscono. Poi mia madre andò al santuario del Divino Amore, a piedi, e piano piano la vista mi tornò. Poco dopo ci trasferimmo a Ciampino, che è a quattordici chilometri da Roma, dove avevamo un orticello miserabile che mio padre aveva messo su con i soldi della guerra di Spagna. Là mi iscrissi a una piccola scuola media che si chiamava Francesco Petrarca, in via Pignatelli, una villettina che io mi ricordo liberty ma sicuramente, nella realtà, deve essere stata una cosa orrenda. La memoria fa questi scherzi. [...] Lì feci la prima media ed ero molto timido. Diventavo rosso, mi venivano i brufoli, mi mettevo all’ultimo banco, nascosto il più possibile [...] La mia era timidezza cronica. Mi chiamavano per interrogarmi e io non mi alzavo, facevo finta di non sentire. Dicevano: "Cerami, Cerami!" e io mi guardavo un po’ intorno, come a dire: "Ma chi cercano?"; e non mi alzavo. passato un anno così. L’unica cosa un po’ simpatica era la ricreazione, che però durava un quarto d’ora. Si scendeva e si giocava a pallone nel giardinetto. E nel giardinetto c’era un professorino giovane che insegnava alla terza media, che giocava a pallone e tirava bene, era molto bravo. Sì, con lui era un momento di disinvoltura, si correva. Mi piacque molto, e una volta ho avuto addirittura il coraggio di avvicinarmi per chiedergli qualcosa, ma poi sono scappato. Fatto sta che in un anno non avevo risposto una volta, e fui bocciato. Allora tornai a fare la prima e quel professorino, che aveva ventotto, ventinove anni, divenne il mio insegnante di lettere. Per noi era il professor Pier Paolo Pasolini, ma era anche solo un ragazzo vestito come noi, povero come noi, con la camicia tutta sdrucita e la cravatta che era uno straccetto lacero. Mia madre gli andò a parlare: "Mio figlio ha dei problemi, perché è stato cieco". Lui non disse nulla, quella volta. Io intanto mi ero rimesso nell’ultimo banco, e pensavo: "Sto tanto bene qui". Lui ogni tanto passava, mi tirava uno scappellotto, buttava lì una frase, e piano piano riuscì a farmi diventare un po’ più estroverso. Io però avevo bisogno di parlare con lui, sentivo che lui poteva essere una via d’uscita, anche se non sapevo bene da che cosa... Allora mi ricordo che pensavo: "Devo andare lì con una scusa, ma che sia una scusa seria". "Pensa e ripensa, mi avvicinai e gli dissi: "Scusi professore, mi sa dire che cos’è la metempsicosi?". Avevo scelto apposta una parola difficilissima, per stupirlo. Lui si mise a ridere, perché aveva capito, e mi diede una risposta spiritosa. Speravo di aver rotto il ghiaccio, invece niente, avevo fatto peggio. Allora, dopo mesi, ho pensato: "Adesso gli vado a chiedere cos’è l’onomatopea". Ma non ebbi il coraggio» (Storia di altre storie, Piemme). Vedi anche: Tommaso Pellizzari, ”Sette” n. 7/2001;