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 2002  febbraio 19 Martedì calendario

CEREZO Toninho (Antonio Carlos). Nato a Belo Horizonte (Brasile) il 21 aprile 1955. Calciatore. In Italia ha giocato con la Roma (perdendo la finale di Coppa Campioni del 1983/84 e vincendo la Coppa Italia nel 1983/84 e nel 1985/86) e Sampdoria (vincendo lo scudetto 1990/91, la coppa delle Coppe 1989/90, la coppa Italia nel 1987/88 e nel 1988/89)

CEREZO Toninho (Antonio Carlos). Nato a Belo Horizonte (Brasile) il 21 aprile 1955. Calciatore. In Italia ha giocato con la Roma (perdendo la finale di Coppa Campioni del 1983/84 e vincendo la Coppa Italia nel 1983/84 e nel 1985/86) e Sampdoria (vincendo lo scudetto 1990/91, la coppa delle Coppe 1989/90, la coppa Italia nel 1987/88 e nel 1988/89). «[...] Lo diceva anche Paolo Villaggio, in tribuna, l’anno che la Samp vinse lo scudetto e lui lo suggellò con un gol: ”Cerezo è più vecchio di me, gli manca una gamba, e si è visto benissimo che ha segnato con la gamba mancante”. Non un filo di grasso, però. E dire che mangia tre volte al giorno: pranzo, cena e spaghettata di mezzanotte. A Roma e a Genova, almeno, faceva così. [...] figlio di un artista di circo delle Minais Gerais, lo Stato più povero del Brasile. ”Papà faceva il clown” raccontava in pubblico. Poi, agli amici veri, aggiungeva: ”Dava anche una mano a smontare il tendone”. Il figlio ne ha ereditato gli usi zingareschi: Liedholm gli dava il permesso di correre sul litorale romano, e lui a volte si sfiniva al punto da passarci la notte, buttato sulla sabbia. Quando prese casa, la riempì di bambini (4) e di cani hauser (2), al punto che non c’era più posto per i mobili, e appoggiava le pentole per terra. Andava d’accordo con tutti, tranne che con Manfredonia: due volte sole fu espulso, per rissa con il laziale, che lo chiamava ”sporco negro”. Al che lui non si teneva: ”Non sono negro, io; sono moreno”» (Aldo Cazzullo, ”La Stampa” 27/5/2002). «Poi dormiva. Aveva un cuscino che portava con sé, sempre quello. Lo metteva in valigia o nel borsone e lo tirava fuori: in pullman, nelle hall degli alberghi, negli spogliatoi. Senza Antonio Carlos Cerezo non dormiva. E dormire era il massimo: il riposo dopo la fatica [...] Antonio Carlos detto Toninho è sempre stato uno che non ha fatto un passo in più del necessario. Non si alzava neppure i calzettoni. Così s’è conservato bene: fino a 42 anni giocatore. [...] La vita gli è andata bene: ha guadagnato, s’è divertito, ha giocato, ha vinto. Se l’è meritato, Toninho il Tappetaro, come lo chiamavano a Roma perché sembrava un venditore di tappeti. Dei brasiliani della sua epoca è quello che ha vissuto di più: Brasile, Italia, poi il Giappone e ancora il Brasile. Mica come Falcao, diventato anonimo quando ha smesso di giocare; mica come Socrates, ritornato nel guscio di Ribeirao Preto, a ricordare il passato e a provare un ritorno grottesco. Cerezo ha fatto il contrario: ha sempre vissuto il presente senza guardarsi indietro, s’è spremuto fino a 42 anni, poi non ha avuto rimpianti: ”Fino a quando ti reggono le gambe e hai voglia devi giocare, altrimenti poi ti penti”. [...] è l’unico brasiliano che vive in Brasile e ha nostalgia dell’Italia. Tra Roma e Genova ha vissuto da favola. Erano gli anni 80: arrivò per affiancarsi a Paulo Roberto Falcao nella Roma campione d’Italia. Veniva dall’Atletico Mineiro la squadra di Belo Horizonte, la sua città, dove aveva anche un posto in Senato, cioè in consiglio comunale. Era stato eletto nelle liste del Partito demostratico sociale, il partito del regime. In campo era unico: le gambe magrissime e lunghe i calzettoni giù, i baffi. Nella Nazionale giocava col numero 5, che in Brasile è quello dei cervelli, i calciatori che si prendono in braccio i compagni per trascinarli. E poi aveva già 28 anni: esperto, furbo, intelligente. Alla Roma mancava uno così, uno che è diventato una battuta di Vancanze di Natale, prima versione: ”Ma secondo te che starà facendo Toninho Cerezo nella notte di Capodanno. Secondo me dorme, perché è un professionista serio”. Ecco, serio proprio no. stato uno dei calciatori più simpatici del calcio italiano. Raccontava barzellette, aveva la battuta sempre in canna. Il bersaglio preferito era Emidio Oddi: ”Lui, lui, il comunista. Era abbonato all’Unità e lo prendevo in giro quando c’era da dividere i premi”. Anche in campo faceva il clown. Con Ciccio Graziani, per esempio: ”Graziani era sempre di buon umore. In allenamento quando correvamo urlava il ritmo dei passi ’uno-due-tre’. Lo faceva anche durante le partite e io non riuscivo a non ridere”. Toninho rise anche il 30 maggio del 1984. Rise per non piangere, stavolta. Perché quella fu la notte dell’Olimpico, di Roma-Liverpool, di Grobbelaar molleggiato, di Conti ipnotizzato e di Graziani stralunato. La notte dell’oblìo di Roma e del concerto strappa lacrime di Venditti al Circo Massimo. Una tragedia. Lui se ne uscì così: ”Vabbè, abbiamo perso. Cazzarola. Però siamo arrivati qui. Siamo felici”. Felici? A modo suo lui lo era. Aveva passato momenti peggiori: le incomprensioni con Falcao che aveva paura di perdere il posto, la moglie incinta di due gemelli con una gravidanza complicata, i rimproveri di Liedholm. Ci si misero anche le scarpe: ”In Italia i miei compagni usavano tutti quelle con sei tacchetti di ferro. Io non ero abituato. Le provai, ma avevo dolore. La soluzione arrivò quando un amico dal Brasile mi cominciò a portare le mie scarpe. Speciali: in tessuto jeans, con i tacchetti di gomma. Leggerissime. Me ne portava un paio ogni settimana. Alla fine potevo aprirmi un negozio”. Un’altra battuta. Cerezo non ha mai smesso di farne. Quando cominciò a giocare bene erano una via l’altra. Rideva pure Liedholm che aveva cambiato opinione: ”Toninho è braaaavoo”. A Roma era amato al punto che nessuno per due anni ebbe il coraggio di criticarlo. Neppure quando fece schifo, come nel Roma-Inter del 1985. Rigore: sbagliato. Altro rigore: sbagliato. Dalla curva sud riuscirono persino a omaggiarlo con il coro Ce-re-zo, Ce-re-zo: ”In nessun altro stadio sarebbe successo. Sarei stato fischiato, qui invece no. Cantavano. Cantano sempre e a me quando li ascolto mi piace alzare il dito e fare il direttore d’orchestra. Lo faccio anche durante la partita”. I tifosi. Lo rincorrevano ogni giorno sulla strada per Trigoria: Toninho andava al campo d’allenamento con la bicicletta, allora era facile raggiungerlo per un saluto, per una foto, ”Oh a Tonì, che me fai n’autografo?”. Dietro lo seguiva sempre una macchina: a bordo la moglie che lo scortava per paura che qualcuno lo investisse. Magari un laziale. La bici la portò anche a Genova. L’avrebbe fatto anche a Milano. Doveva andare lì, dopo Roma: aveva firmato un precontratto con Adriano Galliani, ma il club ebbe paura perché nel Mondiale messicano del 1986 Cerezo s’infortunò al ginocchio. Lo prese Mantovani alla Sampdoria. Era già un giocatore di trentuno anni con molto passato e poco futuro. Solo che era perfetto. Perfetto per quella squadra, per Boskov, per Mancini, per Vialli, per Vierchowood che per caricarlo lo insultava: ”Ehi, negro di merda, sporco negro. Allora io gli dicevo ’sporco bianco, va bene. Sei proprio un bianco di merda’. E cominciavamo a ridere”. Pure qui. Anzi, qui di più. In quella Sampdoria le risate valevano più di un gol. C’era Attilio Lombardo che ne raccontava sempre e poi lui, Toninho il pagliaccio, quello che la sparava con la faccia seria convinto che gli altri gli credessero. Una la disse il giorno dopo una partita a Pisa. Stefano Cuoghi lo marcava, gli fece fallo, caddero insieme, uno sull’altro. Allora Cuoghi gli diede un morso sulla coscia. Prese un calcio, perché Toninho reagì. Tutti e due espulsi: ”Quando il Pisa verrà a Genova, mi porterò un panino e lo offrirò a Cuoghi, così sarà sazio e magari avrà meno voglia di fare il cannibale e di mangiare gli esseri umani”. In quella Sampdoria Cerezo era un mago: segnava, faceva segnare, si divertiva, correva con i calzettoni bassi per tutto il campo. Al gol andava sotto la gradinata e metteva la mano dietro l’orecchio sinistro: ”Non vi sento”. Allora arrivava l’urlo: ”CE-RE-ZO”. La gag è rimasta nella storia della Samp, l’ha ripresa Francesco Flachi [...]. Poi Toninho faceva l’altruista in mezzo ai due egoisti, Mancini e Vialli: ”Mi chiamavano sempre la palla. Prima l’uno, poi l’altro. Era un continuo fastidio. Io la passavo a chi in quel momento mi sembrava in una posizione migliore. Se l’azione andava bene, ok; se andava male, mi voltavo subito verso l’altro e gli dicevo ’scusa, non capisco tanto bene l’italiano’”. Poi magari non la dava a nessuno e andava a fare gol. Abbastanza in quegli anni. Uno sempre al Milan, come a fargli capire che s’erano sbagliati, che dopo il Mundial era tutto tornato come prima. A San Siro proprio contro i rossoneri mise dentro la palla decisiva per il campionato 1990/91. Dopo l’ultima giornata obbligò tutti a diventare biondo platino. Lui era ridicolo, un cappuccino dalla fronte in giù, un pulcino in testa: ”Oggi sono tornato a casa e mi è sembrato che mia moglie mi amasse di più”. Oggi era il giorno dello scudetto. A Genova fu una giornata incredibile: la vittoria di una squadra media e per giunta la più sfigata della città. Fu anche l’ultimo campionato con il sorteggio integrale degli arbitri. [...] Cerezo di quella Samp non era il giocatore simbolo. Prima di lui c’erano Mancini, Vialli, Pagliuca e Lombardo. Però fu quello che nessuno s’aspettava, perché aveva già trentasei anni, forse pure di più perché l’età vera resta un mistero solo parzialmente svelato. Dice che è nato nel 1955 e gli si crede sulla fiducia, anche se a un Tappetaro è difficile credere. Comunque quando avrebbe dovuto smettere, Toninho ha cominciato a vincere. Due anni dopo si prese la Coppa Intercontinentale. Contro il Milan. Gol suo, ovviamente. E premio come migliore in campo. Era già di nuovo in Brasile con il San Paolo. Il parcheggio diventato una capanna e poi una nuova casa. Prima era tornato a Belo Horizonte, a casa vera. C’era tutto: le miniere, una città povera che lavora, le alture. Niente mare, lontano migliaia di chilometri. La squadra che lo prese non era la sua ex, ma l’altra, molto più debole: il Cruzeiro. Il compito era uno: giocare e mettere insieme un centrocampo decente, in grado di salire e scendere, di attaccare e difendere. Lui stava in mezzo e aveva già in testa di allenare. Così, dopo l’allenamento, si fermava con i ragazzini delle giovanili. Il primo allievo fu un bambino con gli incisivi enormi. Bravissimo. Veloce, resistente, esplosivo, tecnico: Ronaldo. Il secondo era già tutto diverso. Erano i compagni di un’altra squadra, la prima: Atletico Mineiro. Il debutto il 2 settembre del 1999, dopo l’esonero del tecnico precedente. A quarantaquattro anni Toninho si è seduto per la prima volta. S’è dovuto alzare presto: ”Puoi andare”. stato il periodo senza sorrisi: il divorzio con la moglie, un contratto da mister con il Vitoria Bahia stracciato a metà campionato, una lite furibonda con la nuova fidanzata, troppo bella con i suoi ventiquattro anni. Cerezo ha vissuto il lato nero dei clown, che fanno impazzire dalle risate gli altri, ma ridono poco loro. durato poco, però. Un aereo l’ha riportato al sole, anche se doveva allenare un brocco, anzi dei brocchi: Kashima Antlers di Tokyo. Il Giappone di fine anni 90 e inizio 2000: in quella squadra Zico direttore sportivo, Cerezo allenatore: ”Bellissimo qui”. Bellissimi sono stati gli scudetti e le coppe vinte, il gioco che non esisteva e adesso c’è e riempie gli stadi: ”Espectaculare”. Solo che non era l’arrivo: l’idea era Genova, oppure l’Italia. Anche il Brasile, ma come terza scelta. Invece è stata la prima, perché Mantovani non c’è più e il calcio italiano è diventato un’altra cosa. Allora Guaranì, che non è il massimo, ma è un buon posto: negli spogliatoi a fine partita o dopo gli allenamenti le battute le fa l’allenatore, racconta la storiella del portiere senza gambe che vive sulla traversa. Si ride. Si vince. [...]» (Beppe Di Corrado, ”Il Foglio” 18/3/2006).