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 2002  febbraio 19 Martedì calendario

Charles John

• Swansea (Gran Bretagna) 24 dicembre 1931, Wakefield (Gran Bretagna) 21 gennaio 2004. Calciatore. Terzo, dietro Di Stefano e Kopa, nella classifica del pallone d’Oro 1959. Ha passato gli anni migliori alla Juventus, in squadra con Sivori e Boniperti (tre scudetti in quattro anni). «Proviene dal Leeds, diventerà il gigante buono. un gladiatore d’area, un marcantonio di quasi un metro e novanta per novanta chili, formidabile di testa ma ferratissimo anche di piede. Lo acquista nel 1957 Umberto Agnelli, allora giovane presidente della Juventus. Boniperti, Charles, Sivori: un trio leggendario. John e Omar sono perfettamente complementari nel gioco e, soprattutto, nel carattere. Alla fantasia dell’argentino, il gallese aggiunge la capacità di spaventare fisicamente le difese avversarie. In un’epica sfida di coppa con il Real, a Madrid, viene impiegato come stopper e se la cava egregiamente. Una torre. Un martello. Una volta colpisce il palo di una porta con la testa: sviene, non prima che il legno abbia tremato. Il soprannome di ”gigante buono” lo deve a un episodio di un derby: lanciato a rete, stende involontariamente con una gomitata Brancaleoni. Invece di continuare la corsa, si ferma a soccorrerlo. In campionato, dal 1957 al 1962, raccoglie 150 presenze e semina 93 gol. Tre scudetti (1958, 1960, 1961), due Coppe Italia (1959, 1960). Uno dei più forti centravanti di sempre, ma il viale del tramonto sarà un inno alla malinconico» (’La Stampa” 2/2/2004). «C´è chi vive e gioca pallone a gomiti bassi, c´è chi non è nessuno se non li alza, se non li mola come lame assassine. John William Charles era della prima specie. ”Se tu aprissi quelle benedette braccia mentre salti, faremmo gol ogni volta che entriamo in area!” provava a dirgli Boniperti, ma quell´altro niente. Sull´attenti. Colpiva la palla di testa con la forza tremenda di un maglio volante, e sempre le lunghe braccia aderenti al corpo come un granatiere. Erano le sue ali immobili. John Charles sapeva volare anche senza. Aveva cominciato da stopper, nel Leeds, eppure gli obblighi del difendere non gli avevano sporcato lo stile né l´anima. Umberto Agnelli lo portò a Torino nel ´57 spendendo un bel po´ di soldi, e quando Gigi Peronace lo traghettò a casa di Giampiero Boniperti il capitano lo fece alzare in piedi, gli girò attorno, lo misurò con quei suoi occhi celesti da furbissimo geometra e alla fine della circumnavigazione disse: ”Con questo colosso vinceremo tutto”. Siccome è tutta una questione d´incastri, è sempre un fragilissimo gioco d´equilibrio, Charles fu nella Juventus della ”stella” (cioè il decimo scudetto, cui sarebbero seguiti - con lui centrattacco - l´undicesimo e il dodicesimo), il magnifico pezzo mancante da incastrare negli altri due: Boniperti, appunto, che dopo una vita di botte in area si stava per spostare più indietro, alla mezz´ala, e Omar Sivori. Proprio il rapporto perfetto tra il gallese dolce e l´argentino velenoso formò una coppia dalla poderosa carica simbolica, il grande e il piccolino, il toro e la farfalla, i muscoli e la fantasia, la forza e l´arte. E non funzionava solo in area, perché Charles e Sivori erano davvero amici inseparabili oltreché insuperabili. Nessuno al mondo, se non il ”gigante buono” (era quella un´epoca di ingenua fantasia anche nell´inventare i soprannomi), avrebbe potuto prendere a ceffoni Sivori in mezzo al campo, davanti a migliaia di persone e all´arbitro, solo perché il piccoletto aveva perso la testa e stava per essere risucchiato nella solita crisi isterica. Invece accadde. E nel filmato d´epoca si vede Charles con quella enorme maglia bianconera a righe larghe, come usava allora, avvicinarsi a Sivori che gli sta di fronte, mentre il gallese è di schiena, avvicinarsi e alzare la mano per una sberla sola, secca come una fucilata, imperativa come una scarica elettrica. E l´argentino, dopo, se ne sta lì, immobile e incredulo, perché sa (lo sente, dunque lo sa) che Charles ha fatto la cosa giusta, e che comunque lui può. In un calcio meno attorcigliato su se stesso, dove il numero due faceva il terzino destro, il numero cinque lo stopper e il numero nove il centravanti, il metro e novanta di John Charles era la calamita e insieme la catapulta di quasi tutti i palloni dell´attacco bianconero. Segnò 93 gol in 150 partite di campionato, neanche uno in dieci gare di Coppa, e proprio allora cominciò quella specie di maledizione internazionale juventina che non si è mai placata. La generosità morale e lo strapotere atletico permisero al gallese di farsi amare da tutti, o comunque ammirare. Non fu mai ammonito, non aveva nemici neppure negli stadi più ostili, perché la sua progressione accendeva l´entusiasmo di tutti, e il suo comportamento diede l´esatta misura di una definizione - lo stile Juve - usata spesso a sproposito, ma non certo immotivata. Lui era un giusto, e questo va diritto al cuore della gente. Ed era anche molto, molto forte. Non solo di testa. Charles usava entrambi i piedi con uguale maestria, e di sicuro non sfigurava accanto a due fuoriclasse come Sivori e Boniperti. In più, il ”gigante buono” aveva un´immagine da attore americano, era un uomo molto bello con due occhi luminosi, a un certo punto incise pure un quarantacinque giri che ebbe notevole successo. Quando lasciò la Juve tornò al Leeds, e dopo qualche mese accettò le offerte della Roma, però un infortunio al ginocchio gli chiuse la carriera: era il 1963. Eppure Charles continuò a giocare per divertimento ben oltre i quarant´anni, poi diventò povero ma non triste, e alla fine malato. Ancora sorrideva, quando le televisioni andavano a intervistarlo nel suo tinello, davanti a una credenza piena di tazzine da supermercato. E sempre bassi i gomiti, perché chi fa male agli altri ne fa di più a se stesso» (Maurizio Crosetti, ”la Repubblica” 22/2/2004). «Era una torre formidabile che dominava un campo di battaglia popolato da cavalieri e fantaccini. John Charles appartiene alla leggenda del calcio. Era il Gigante Buono. Mai espulso. Mai ammonito. The Gentle Giant, il Gigante Gentile. John era nato alla vigilia di Natale del 1931 a Swansea, la città di Dylan Thomas, il poeta, e di Catherine Zeta Jones, l’attrice. Da ragazzo si era temprato in miniera. Poi aveva tirato di boxe, come peso massimo, durante il servizio militare. La natura gli aveva dato un fisico scultoreo: 1.87 centimetri per 83 chili. All’inizio John giocava difensore. Potente e veloce, insuperabile di testa. A 16 anni il Leeds United lo acquistò per 10 sterline. A 17 John firmò il primo contratto professionista e debuttò in campionato. A 18 anni e 71 giorni divenne il più giovane giocatore della storia a vestire la maglia rossa dei Welsh Dragons. Anche il fratello minore Mel giocò con lui in nazionale. Mel ebbe poi il merito di scoprire su un campetto di Cardiff il giovane Giorgio Chinaglia. Lo portò a Swansea, che fu la sua rampa di lancio. John era uno stopper formidabile, ma, nella stagione 1952-53, l’allenatore Frank Buckley, per ovviare alla sterilità dell’attacco, gli propose di provare come centravanti. John accettò controvoglia, ma risolse il problema: fece 26 gol. Nel campionato successivo arrivò a 42: il Leeds United fu promosso in prima divisione. John ne fu subito il capocannoniere, con 38 gol. Divenne centravanti e capitano della nazionale. La sua fama varcò i confini dell’isola. Angelo Moratti arrivò per primo: gli strappò un’opzione per l’Inter. La Juve però mandò avanti Peronace, che il 6 aprile 1957 incontrò John a Highbury. Alla presidenza era appena arrivato Umberto Agnelli, studente del quarto anno di giurisprudenza, deciso a rilanciare la Juve dopo due stagioni mediocri. Il 10 Agnelli era al Windsor Park di Belfast, con Walter Mandelli, per Irlanda del Nord-Galles. Fu impressionato da quel giovane leone. La trattativa fu serrata. La casa di John, con la moglie Peggy incinta del terzo figlio, fu circondata da fotografi e giornalisti. L’assedio durò pochi giorni. Moratti, che aveva puntato sullo svizzero Vonlanthen, lasciò la strada libera ad Agnelli. Il 19 fu firmato il contratto: al Leeds United 65 mila sterline, 110 milioni di lire, altre 10 mila al giocatore. Il 12 maggio 1957 Charles arrivò a Torino. La Juve ingaggiò anche Sivori dal River Plate, prelevò Ferrario dalla Triestina, recuperò Mattrel, acquistò dal Padova Nicolè, 17 anni, sacrificando Hamrin. Sulla panchina si sedette Ljubisa Brocic, che allenava in Olanda: si era proposto con una lettera garbata ad Agnelli e questo bastò. Charles sfondò subito. Segnò all’esordio. Era potente e tecnico. Abile di destro e sinistro, invincibile di testa. Con tre colpi di testa schiantò l’Atalanta. Con tre gol annientò la Sampdoria. Quando lo vide, Bruno Roghi scrisse: ”Ha le fattezze di un Marlon Brando, la struttura di un mediomassimo, le gambe del ballerino classico, il fiato della tigre e il morso del cobra”. Nel primo derby segnò il gol decisivo. Quel giorno in un duello aereo fratturò il setto nasale a Brancaleoni: Charles lo rialzò e lo sorresse fino all’arrivo della barella. Il suo fair-play divenne proverbiale. Con il Milan colpì con una gomitata Bergamaschi, che crollò a terra: aveva spianata la strada verso la porta, ma buttò via la palla e si curvò sul rivale. [...] Quando giocò contro l’Inter, Benito Lorenzi, soprannominato ”Veleno”, cercò di provocarlo, rovesciando gli insulti più turpi sulla Regina d’Inghilterra. ”Penso lo stesso della Regina d’Olanda”, fu la sua replica arguta. Stupito ”Veleno” gli chiese: ”Che c’entra?”. ”C’entra come la Regina d’Inghilterra. Io sono gallese”, fu la risposta fiera. Lorenzi restò disarmato. Charles era forte come un bisonte. Un giorno a Vicenza, scivolando sul fango, cozzò con la testa contro il palo. Si sentì un colpo tremendo. La porta tremò. Tutti accorsero temendo per la sua vita. Ma Charles si rialzò e continuò a giocare. Solo a partita finita andò all’ospedale. Una volta, all’Olimpico, vinse un duello di forza con il laziale Eufemi, che gli si attaccò sul dorso, Charles lo trascinò per il campo come un purosangue fa con il fantino. Vinse lo scudetto nel primo campionato e fu capocannoniere con 28 gol in 34 partite. Era formidabile nel gioco di testa. Il più forte dei più grandi colpitori della storia del campionato italiano: John Hansen, Puricelli, Galli, Pruzzo, Hateley, Serena. Gianni Brera scrisse: ”Charles si rivela una ’torre’ unica al mondo. Basta rilanciare comunque lungo e alto su di lui per arrivare al gol e alla rifinitura acrobatica: nei pressi della torre incrocia sornionissimo Omar Sivori, la cui zampatina sinistra è rapida e arguta come quella di un gatto”. Charles restò per cinque anni alla Juve. Segnò 93 gol in 150 partite. Vinse tre scudetti e due coppe Italia. Nella triplice sfida di coppa dei Campioni con il Real Madrid gli toccò di tornare in difesa: marcò Puskas. Quando tornò a Leeds, fu vinto subito dalla nostalgia. ”Ormai il mio calcio è quello che si gioca in Italia”, disse e vestì la maglia della Roma. Giocò solo 10 partite, segnando 4 gol, poi il contratto biennale fu rescisso. Passò al Cardiff. Continuò la sua parabola nell’Hereford United e, poi, in una squadra dal nome gaelico, il Merthyr Tydfil. In nazionale giocò 37 partite - molte da difensore - segnando 15 gol. Il suo tramonto fu amaro. Si separò. Incominciò a bere. Si ridusse in miseria. Gestiva un piccolo pub. Dopo dieci ingiunzioni di pagamento, finì in carcere per non aver pagato le imposte dirette. ”Non ho i soldi. Ho solo 100 sterline”, disse candido al giudice, che lo condannò a due mesi. La seconda moglie Glenda riuscì a tirarlo fuori con una colletta. La sua caduta fu in singolare contrasto col titolo scintillante dell’autobiografia: King John. Il declino di Charles fu reso più duro da problemi di salute: un tumore, il morbo di Alzheimer, il cuore ballerino. Ma è la parte minore che questo grande attore ha recitato sul palcoscenico duro della vita. A noi piace ricordarlo sfolgorante di forza. Quando travolgeva gli avversari. Quando incantava con la sua bontà. stato il più forte giocatore anglosassone che abbia mai calcato i campi d’Italia. Grande. Leale. Indimenticabile. Era il Gigante Gentile» (Claudio Gregori, ”La Gazzetta dello Sport” 22/2/2004). «Voleva essere chiamato John. E noi lo chiamavamo John. William: e chi era, in fondo?... Charles: d’accordo, il cognome dovuto... Però John era un ragazzo ormai maturo che non viveva né si nutriva di fronzoli e di formalismi. Ci disse un giorno, dopo la partitella del mercoledì, masticando quel suo faticoso italiano a infiniti e dintorni, che ”John non andare bene così. Soltanto 3 gol. Potere essere 7. Non essere bello giustificare con soltanto galoppo in famiglia. Quando gol da fare, fare gol un dovere. Non importare contro chi, se in mezzo settimana o domenica”. Erano quelli i tempi d’una prima televisione, di un calcio che già conosceva e praticava certi giochi di potere e intuiva i rischi finanziari connessi a un montante professionismo e che, tuttavia, aveva una faccia decentemente pulita e un apparato scheletrico sostanzialmente sano. Le stagioni delle piogge sporche, sempre più sporche, sarebbero arrivate in un dopo ancora lontano. Quando allora vedevi una partita, grosso modo la vedevi, perché lo era, fondamentalmente onesta. E di quel teatro, che non aveva sponsor né ultrà, John era un gigantesco signore. Forse lui stesso lo supponeva, ma lo apprendeva con un minimo di certezza soltanto nei momenti in cui, non per piaggeria né per altri fini reconditi, qualcuno glielo ricordava: chiamando ”imprese calcistiche” quelle che, a seguito della fortissima lealtà sottesa ai suo gesti agonistici e del disprezzo istintivo che avvertiva per il vezzo dell’esibizione personale, egli considerava appena ”cose normali”. Eppure c’era in lui qualcosa di fragorosamente anormale. Fisico turbodotato, il suo metro e 93 e i suoi 88 chili (massa grassa prossima allo zero) si abbattevano sui difensori avversari come la boccia del bowling sui birilli. In qualche modo la sola storica figura di Gunnar Nordahl, l’incendiario pompiere svedese del Milan, poteva essergli accostata nella galleria dei più travolgenti centravanti di sfondamento del dopoguerra. Ma a John, in più, la natura aveva dato una testa che serviva per qualunque variazione tecnica: dalla cosiddetta ”incornata” potente come un calcio alla più raffinata delle smorzate per il compagno da mandare in porta. Sivori, dapprincipio, aveva indirizzato al monumento gallese qualche perfida ironia. Prese atto di quanto valeva John dal giorno in cui John, afferrandolo per la maglia negli spogliatoi e intimandogli di non insistere, divenne sul campo la torre suprema che dispensava sublimi rifiniture per il gol al suo magico sinistro. E quando adesso Omar segnava, John lo abbracciava, soffocandolo come fosse un bambolotto. Il gigante buono era troppo buono. Al punto che talvolta Boniperti, cinico e ducesco condottiero di quella legione bianconera, interveniva per difenderlo dal branco dei botoli rivali incattiviti dalla manifesta inferiorità. John, valanga umana da football americano più che da ”gioco per signorine” come il calcio, non aveva paura di nessuno e di nulla se non, forse, di quelle che considerava le proprie debolezze: le poche virgole mal poste nel discorso di un rendimento che pretendeva perfetto. Lì, nei confronti di sé, era assolutamente intollerante. La volta in cui, nell’arco della sua parentesi italiana (Juventus e Roma) fu costretto per motivi di emergenza tattica ad arretrare nel ruolo di stopper, un attaccante avversario riuscì a soffiargli una palla aerea (poi, forse per la straordinaria emozione, sbagliò la conclusione). Più tardi incontrammo John. Disse lui con voce dura: ”Io ricordare per sempre quel mio errore. Non perdonare me”. Se John potesse oggi frequentare da centravanti in piena attività gli stadi di tante meschinerie, di tanti squallidi litigi e percorsi sovente da campioni più bizzosi, supposti e montati che autentici, annichilirebbe la concorrenza. Ma lui è vissuto ed esploso negli anni paradossalmente sbagliati, negati alle norme del divismo, del piagnisteo e dell’avidità che sta arricchendo indebitamente persino le mezze calzette. Se n’è andato troppo presto, magari sconfitto da qualche vizio (il piacere della bottiglia, s’è anche raccontato) e da successive malattie. Ma è specialmente crudele il pensiero che sia morto dopo avere subito l’amputazione di un piede, proprio uno dei pilastri della sua grandezza» (Carlo Grandini, ”Corriere della Sera” 22/2/2004). «La favola del Gigante buono è stata tutta in salita, anche in campo, dove la rete, per lui, era sempre in cima a qualcosa, e ci volevano testa, cuore e fegato per arrampicarsi fin lassù. Il padre, Ned, ha piantato le tende fra le miniere di Swansea, Galles, quattro stanze senza cielo. John pesa un chilo e ottocentro grammi, la mamma, Lily, lo affida a un asilo per bambini bisognosi. Non ancora gigante, ma subito buono: i maestri, a scuola, lo elogiano per la condotta. Si arrangia: minatore e, pur di giocare, ciabattino e spazzino a disposizione dei titolari. A insegnargli la lealtà è il pugilato, che pratica durante il servizio militare, aggiudicandosi un sacco di incontri. Poi il calcio, solo quello. E sempre al centro: della difesa, agli esordi, e dell’attacco, nella maturità. La Juventus di Umberto Agnelli lo acquista dal Leeds United nell’estate del 1957 per 110 milioni di lire, una cifra che, all’epoca, fece scalpore. Alla famiglia, l’ha segnalato Gigi Peronace, pittoresco e tenace esploratore del mercato inglese. [...] A Bologna, la prima Juve di Boniperti, Charles e Sivori subì una memorabile stangata in amichevole (1-6). Tutto qui? si diedero di gomito i critici. Era la vigilia della stagione 1957-58: 51 punti e scudetto, Charles 28 gol e capo-cannoniere, Sivori 22, Boniperti 8. Tutto qui, serve altro? Boniperti c’era già, Sivori e Charles arrivarono insieme. Altra musica. Perché sì, John, pastosa voce da baritono, si diletta pure a cantare. Gli amici lo convincono a incidere un disco: su una facciata, Sixteen Tons, cavallo di battaglia dei leggendari Platters; sull’altra, Love in Portofino, un successo di Fred Buscaglione. Una sera, si esibisce alla mitica Capannina di Viareggio. I testimoni narrano che un paio di giovanotti un po’ brilli, tifosi della Fiorentina?, lo fischiano e lo sfottono. Morale: a un tavolo c’era Sivori, volarono cazzotti e bottiglie, toccò a Charles in persona placccare, e placare, Omar e la sua ira selvaggia. Formidabili quegli anni: gli italiani vanno in Vespa e scoprono la televisione, Federico Fellini gira La dolce vita, Roma ospita le Olimpiadi, il Paese fa boom. Boniperti, Charles e Sivori, tre scudetti e due coppe Italia dal 1957 al 1962, sequestrano le copertine. Sivori è il genio arrogante e capriccioso, il ”vizio” dell’Avvocato, Boniperti la bussola, Charles la torre, il traliccio, il colpo di testa e di martello. Quando finisce contro un palo, è il palo che invoca la spugna del massaggiatore. E se per caso gli scappa una gomitata, chiede scusa. Fatti, non parole. Dicono che in carriera abbia mollato solo una sberla (a Sivori, per calmarlo) e picchiato solo un avversario, il fratello Mel, nel corso di un’amichevole fra Juve e Arsenal: Mel lo marcava, e John non voleva che la gente pensasse a un duello finto. Un infortunio lo ha privato di un aggancio storico: guardare negli occhi Pelè ai Mondiali del 1958. Brasile-Galles, quarti di finale: giocò Mel, quel giorno, non lui. Finì 1-0, gol di Pelé (e di chi, se no?). Il mestiere e la vita non sempre si prendono per mano. Peggy, la prima moglie, gli ha dato quattro figli - Peter, Terry, Melvyn, David - ma non la pace. Un donnone autoritario, una virago dai modi spicci e l’umore mobile qual piume al vento. Nel 1962, Umberto Agnelli invitò Boniperti, che si era appena ritirato, a prolungare il contratto di John. Non facesse il taccagno, per uno così questo e altro. Emozionato ed eternamente grato, il gallese firmò. Quel pezzo di carta e quello scarabocchio durarono una notte. Ancora fresco di rasatura, Charles si precipitò nell’ufficio di Boniperti e stracciò il foglio: ”Scusami, Giampiero, ma Peggy vuole tornare a casa”. Ci tornarono giusto il tempo per accettare, fra un litigio e l’altro, l’offerta della Roma. Giocò centromediano, dieci partite appena, fu un passo d’addio senza corona, lui che era stato il re, the King, il Gigante buono, lo sfondatore gentiluomo. Con Peggy è finita male: spiazzato e mollato, i figli con lei. John sapeva modulare la voce, non alzarla. Beveva (chi dice il giusto e chi troppo), fumava (tutti d’accordo: troppo), il fisico da toro si trasformò piano piano in un corpo debole, vulnerabile. A Torino, dalle parti della stazione di Porta Nuova, aveva aperto un ristorante, ”King’s restaurant”, in società con un suo compagno d’armi, Umberto Colombo. Non ebbe fortuna, e andò a rotoli anche il pub gestito a Leeds. Amava Peggy, John, e soffrì come un cane finché non incontrò e sposò Glenda. Gliel’avevano presentata amici comuni, alta, magra, capelli rossicci ben pettinati, il viso giovanile e abbronzato. Gli ha riempito il cuore ma non è riuscita ad arrestare l’agonia. Di sicuro, gliel’ha resa meno straziante. Non era ricco, John Charles. Da Torino Boniperti e gli amici d’antan (fra i quali Benito Boldi) lo tenevano costantemente sotto controllo, la Juve di Platini e Scirea gli dedicò l’incasso di un’amichevole organizzata ad hoc. Lontano, ma non solo: questo mai. Aveva tentato l’avventura del coach (in Canada, addirittura), si era inventato improbabili mestieri, capiva di essere un peso, l’orgoglio e la dignità gli impedivano di lanciare sos. Aspettava. Rispondeva. Spostava la gloria e la pena. Il 29 gennaio del 2003, eccolo al teatro comunale di Gubbio, ospite del programma Una squadra per amico, trasmesso in diretta tv su Rai Uno con il fine, nobile, di raccogliere fondi in favore dell’ospedale pediatrico Gaslini di Genova. Lo scortava Glenda, nessuno, purtroppo, parlava inglese, salvo Mike Bongiorno, che gli regalò il sorriso di un giocoso siparietto. ”Dare è molto più gratificante che ricevere”, dichiarò ai cronisti inglesi dopo aver regalato la 24ª macchina per le pulizie renali a un nosocomio dello Yorkshire. Il termine ”buono”, che adesso invade i ricordi e i necrologi, l’ha accompagnato da Leeds a Torino e da Torino a Leeds. Al San Carlo ha avuto il conforto di Glenda e dei figli. Un aereo affittato dalla Juventus ha riportato a casa, per l’ultimo viaggio, questo Ercole gentile e implacabile, mai feroce, però, neppure nei momenti in cui stritolava gli stopper pagati per saltargli alla gola. Era destino che le Signore, vecchie e giovani, figurate e no, segnassero di medaglie e cicatrici il suo petto e la sua anima. Glenda è stata, per lui, Penelope e Itaca. John Charles, per lei e per noi, un Ulisse che lascia una voragine, non solo una straordinaria e toccante Odissea» (Roberto Beccantini, ”La Stampa” 22/2/2004). «Era un extraterrestre, ha detto di lui con le lacrime agli occhi Giampiero Boniperti, uno dal lessico discreto. Sì, John Charles era davvero un alieno non solo per le sue qualità di calciatore, ma anche e soprattutto per quelle di uomo di sport. Lo chiamavano ”il gigante buono” per via di un episodio di cui non esiste documentazione televisiva. Un derby con il Toro, pensate, un avversario dal nome singolare, Brancaleoni, che tenta di contrastarlo e finisce ko, forse colpito da una gomitata involontaria. Charles a quel punto ha la porta spalancata e i tifosi della Juve pregustano il gol, ma si ferma, lascia andare il pallone e soccorre il malcapitato difensore. Oggi forse l’avrebbero lapidato. Quella storia viene tramandata e serve ad accrescere il mito del figlio del minatore gallese di Swansea che a 17 anni si allenava con un pallone attaccato al soffitto per eccellere nel gioco di testa. Umberto Agnelli lo conosce a Leeds, dove John è una stella, e nel 1957 lo porta alla Juve per una cifra che scandalizza l’Italia ben pensante ma non i tantissimi spasimanti della Signora. Mentre l’Italia di Paola Bolognani sogna cinque milioni e centoventimila lire, la vincita massima di Lascia o Raddoppia, la Juve paga la bellezza di centodieci milioni per costituire la coppia più bizzarra e assortita della storia del calcio: Charles e Sivori, Sivori e Charles, sono le figurine più ricercate, la Juve vince subito lo scudetto e quei due fanno impazzire difese e tifosi: John è addirittura capocannoniere con 28 gol. Sono uno spettacolo a parte e sono, soprattutto, uno l’opposto dell’altro. Omar è argentino, piccolo, impunito, estroso e anche maligno con quel piede mancino capace di umiliare tutti quelli che lo affrontano allargando le gambe. John è gallese, alto, possente e generoso anche sotto l’aspetto tecnico: non è raro vederlo rientrare in difesa per dare una mano alla squadra se è in difficoltà. Boniperti è geloso di Sivori, che gli sottrae la maglia numero 10 oltre all’attenzione dei tifosi, ma ci mette poco a solidarizzare con il gigante, così schivo e diverso dall’angelo dalla faccia sporca. Mai ammonito e mai squalificato, al contrario del perfido Sivori, Charles segna l’epopea juventina di quei tempi: mai come in quegli anni la Signora acquista consensi e spasimanti. Quei due sono una promozione permanente e John segna come vuole: 105 gol in 178 partite, tre scudetti in cinque anni, sempre con il sorriso dell’uomo in pace con la propria coscienza. ”Gli italiani non sono troppo alti - racconta un giorno - e così mi è stato più facile segnare di testa senza nemmeno saltare troppo in alto”. A 31 anni decide di tornare a Leeds ma non resiste all’idea di riprovare quando la Roma, che a quei tempi era una Rometta, gli offre un contratto a gettone. Il suo esordio all’Olimpico avviene contro il Bologna: indossa una improbabile maglia arancione ma è accolto come un principe nonostante il suo passato juventino. Charles è comunque al di sopra delle parti, a nessuno verrebbe in mente di rinfacciargli i trascorsi. Gioca solo dieci partite e segna per altro quattro gol che non bastano a convincerlo di restare in un clima di assoluta precarietà. Sceglie così di tornare alle origini e gioca a Cardiff fino a 40 anni dimenticato dalle copertine, ma non da quelli che gli hanno voluto bene. Gli stessi che non lo abbandonano sul viale del tramonto e anzi lo aiutano quando le cose gli vanno male: il figlio del minatore non ha il bernoccolo degli affari e presto finisce sul lastrico con l’onta di una notte in gattabuia. Il destino ha voluto che cominciasse a morire in Italia, dove era tornato per una partecipazione televisiva. La sua seconda patria, la sua seconda famiglia. Onore a un campione di un calcio che non esiste più. Che una volta confessò: ”Alla Juve mi pagano 20 sterline a settimana, ma io gioco per divertirmi”» (Enrico Maida, ”Il Messaggero” 22/2/2004).