Varie, 19 febbraio 2002
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Charles Ray
• (Ray Charles Robinson) Albany (Stati Uniti) 23 settembre 1930, Beverly Hills (Stati Uniti) 10 giugno 2004. Cantante. «L’ultima grande apparizione era stata a Seattle l’11 settembre del 2002, per commemorare l’attacco alle Torri. Concerto per voce, pianoforte e orchestra sinfonica. Alla fine dell’esecuzione di America the beautiful il pubblico era in piedi, in lacrime, a ringraziare Ray Charles per quell’inno trasformato in preghiera. E lui se ne stava lì appoggiato al piano e si dondolava felice con quel suo tipico modo di fare tra il timido e lo spavaldo. Ray Charles, The Genius come lo chiamavano dagli anni Cinquanta, aveva un potere straordinario, quello di trasformare una canzone a modo suo e di legarci per sempre il suo nome, anche se si trattava di Yesterday dei Beatles. Seattle era la città dove Ray Charles aveva mosso i primi passi come musicista, nel 1947. Era cresciuto con il mito di Nat King Cole, del blues di Lowell Fulson e dei gospel di Mahalia Jackson. E con un amore sconfinato per il repertorio americano della prima metà del Novecento. Quello dei Gershwin, di Hoagy Carmichael e di Cole Porter. ”Sono nato con la musica dentro di me, è la sola cosa che conosco”, diceva. La sua innata capacità di metabolizzare la banalità della canzone pop in una sorta di opera monumentale di pochi minuti, l’hanno trasformato fin dalla fine degli anni Cinquanta in uno dei giganti della cultura afroamericana, a cavallo tra jazz, rhythm’n’blues e soul music, un genere di cui, insieme a Aretha Franklin, è rimasto sovrano fino alla morte. Nel 1960, il suo album Genius Of Ray Charles, quello che conteneva la rivoluzionaria versione di Georgia on my mind (scritta da Carmichael nel ”30), fu premiato con quattro Grammy Awards. Nei due anni successivi ne guadagnò un altro paio con le clamorose Hit the road Jack e I can’t stop loving you, una canzone country che trasformò in un torrido brano soul. Con il gruppo vocale delle Raelets, inventò una formula irresistibile a-domanda-e-risposta che aveva ereditato dalla tradizione gospel e che culminò in una straordinaria riedizione di Ol’ man river (dal musical Show boat). Era musica di straordinaria qualità che riusciva a sedurre anche il grande pubblico. Tra album e singoli, i numeri uno in classifica non si contano: I’ve got a woman (1955), Drown in my own tears (1956), One Mint Julep (1961), Unchain my heart (1962), Modern sounds in country and western (1962), Ray’s moods (1966). Anche negli anni terribili, quando era schiavo dell’eroina, gli spacciatori lo pedinavano attraverso tutti gli Stati Uniti e l’Fbi lo perseguitava con un nutrito file zeppo di capi d’imputazione, ”il genio” non perse smalto e creatività. Riusciva a incidere per tre etichette contemporaneamente (la Atlantic, la Abc Paramount e la Tangerine, fondata da lui stesso). La sua opera è monumentale: oltre cento album di cui molti mai ristampati in cd e una serie infinita di collaborazioni. Alcune eccellenti, come Every time we say goodbye con Betty Carter, Spirit in the dark con Aretha Franklin. Memorabile la sua partecipazione a The Blues Brothers il film del 1980 di Landis con Belushi”» (Giuseppe Videtti, ”la Repubblica” 11/6/2004) • «Protetto da spessi occhiali da sole, che mascheravano con pudore la sua cecità, Ray Charles aveva entusiasmato e commosso un paio di generazioni di appassionati di jazz, di blues, country e gospel. Lo chiamavano il ”genio del soul”. [...] Nato in un paesino della Georgia nel 1930, quando ancora il sud degli Stati Uniti era ostaggio della segregazione razziale, Ray Charles ebbe un’infanzia difficile. Rimase cieco a 6 anni, orfano a 15. In seguito dovette combattere contro l’eroina. Ma un talento naturale e un’immensa forza di volontà gli consentirono di sfidare la sfortuna, affermandosi come pianista, sassofonista e cantante sui palcoscenici di tutto il mondo. Vinse 12 Grammy Awards tra il 1960 e il 1966. Tra i suoi brani più famosi, Georgia on my mind e Hit the road Jack» (Arturo Zampaglione, ”la Repubblica” 11/6/2004) • « stato un grande come cantante, compositore, arrangiatore e pianista. Fu il vero apripista della musica soul, con canzoni come I Got the Woman nelle quali trasformò la musica gospel e religiosa in qualcosa di più laico e universale. Ecco perché la sua era chiamata ”la musica dell’anima”: tale diventava indipendentemente dallo stile blues, pop, o country. Da lui hanno preso spunto e coraggio tantissimi artisti. Al pianoforte era irresistibile e coinvolgente, uno degli artisti di colore più conosciuti e amati del mondo. [...] una famiglia poverissima. Colpito da glaucoma divenne cieco all’età di 6 anni. Ma i dolori non gli erano mancati anche quando ci vedeva, allorché un fratello annegò vicino a lui in un pozzo. Imparò a scuola, all’istituto per ciechi di St. Augustine in Florida, a leggere la musica in braille e le sue doti musicali non sfuggirono a chi gli stava vicino. Scomparsa la madre quando aveva 15 anni, fu allevato dalla prima moglie del padre (peraltro poco presente). Ben presto cominciò a suonare in locali della Florida e poi di Seattle. Nei night era apprezzato per il suo stile che ricordava quello di Nat King Cole. La sua attività discografica comincia nel 1949. Il suo compagno di avventura si chiama Guitar Slim. La voce di Ray impreziosisce un brano chiamato The Things That I Used to Do. Ma per un successo più ampio deve aspettare il 1954 con I Got a Woman, canzone nata dal suo fervore per la Chiesa battista, ma resa estremamente sensuale dallo stile particolarissimo dell’artista. Seguono altri successi: This Little Girl of Mine, Talking About You, What’d I Say (1959). Ma a conquistare il cuore dei fans furono le ballate lente melodiche come Drown in My Own Tears e I Believe to My Soul. La popolarità più grande arriva nel 1960 con Georgia on My Mind (diventata nel ”79 inno ufficiale della Georgia) scritta da Hoagy Carmichael e Stuart Gorrell, dove si conferma che la vocazione di Ray Charles è soprattutto quella di performer, capace di regalare sapori tutti speciali a qualsiasi composizione. Così trionfa nel 1962 I Can’t Stop Loving You e negli anni vincono le sue letture di canzoni come Yesterday, Unchain My Heart, Eleanor Rigby. Fino al 1966 l’artista è succube dell’eroina. Che comincia a combattere seriamente in quell’anno in concomitanza con la pubblicazione di Crying Time. Charles non era uno stinco di santo. I suoi scatti d’ira erano leggendari e così la sua passione per le donne. La voglia di liberarsi dalla morsa dell’eroina scattò dopo esser stato arrestato all’aeroporto di Boston. Ma sarà una lotta che durerà per molti anni e la battaglia non sarà mai vinta del tutto. Collabora negli anni Settanta con Stewie Wonder (Living in the City) e Randy Newman (Sails Away). Negli anni Ottanta crea soprattutto album country, anche se il vero cameo è la sua partecipazione nel film The Blues Brothers . Nel 1985 partecipa al movimento Usa for Africa. Nella sua carriera si era esibito in Italia molte volte. Aveva partecipato al Festival di Sanremo del 1990 eseguendo la versione inglese di Gli amori, una canzone di Toto Cutugno e nel 2000 si era esibito a Taormina in coppia con Lucio Dalla. Dal falsetto allo strappo il suo era sempre un canto spettacolare, un capriccio nervoso dall’intonazione perfetta con una voce che si colorava di dolore e speranza, tenerezza e disperazione. Citando Duke Ellington diceva: ”Siamo dei gladiatori, la musica è un combattimento”. Aveva vinto 12 Grammy Awards, nove dei quali tra 1960 e 1966. ”Sono nato con la musica dentro di me. la sola cosa che conosco” aveva più volte dichiarato. La sua discografia è sterminata e comprende almeno sessanta album» (Mario Luzzatto Fegiz, ”Corriere della Sera” 11/6/2004) • «[...] Ha sempre regalato sogni al pubblico. Lui di suo ne ha potuti avere davvero pochi, di sogni: per tutta la vita ha lottato contro i fantasmi della propria infanzia di bambino cieco a sei anni per un glaucoma, orfano a 15 di entrambi i genitori, che già si guadagnava da vivere uscendo dall’orfanatrofio per suonare uno dei sei strumenti che aveva imparato. Quei fantasmi lo hanno inseguito per tutta la vita, e a lungo Charles ha cercato il sollievo nella droga anche pesante, fino a provare la galera nel 1965 quando fu trovato in possesso di eroina, e confessò che di averla usata fin da quando aveva 16 anni. La sua arte, il suo feeling unico, nella voce come nel pianoforte come nel gusto degli arrangiamenti, erano figli di questa sofferenza. Cantante, compositore, pianista, Ray Charles ha virtualmente inventato la musica soul, mescolando l’accoratezza del gospel con i versi laici e narrativi del blues e del country, con gli arrangiamenti da big band, con i ritmi e le possibilità di improvvisazione del jazz. Ne uscì una mistura insieme sofisticata e spontanea, che attraversò senza rivali e senza paure almeno un ventennio ai massimi livelli della scena americana. Nato a Greensville in Florida come Ray Charles Robinson, aveva lasciato presto l’ultimo nome per evitare la confusione con il pugile Sugar Ray Robinson. A 17 anni, nel 1947, prese un gruzzolo di seicento dollari di risparmi, messi da parte lavorando in Florida con gruppi nei locali da ballo, e se ne andò a Seattle: era un ragazzino, ma la sua ambizione era già di imitare lo stile di Nat King Cole, che negli anni trasformò a proprio gusto allargandolo con un’impronta più varia e moderna. Fu poi in California che iniziò a frequentare i giri del blues, e ad arrangiare e cantare brani altrui, fino ad ottenere nel 1954 il primo contratto discografico con la Atlantic. Il primo hit nazionale fu I’ve got a Woman, con una sua band già di sette elementi, il pianoforte gospel e la voce che cominciava a sorprendere, vincendo anche grazie all’insofferenza giovanile per ogni tipo di musica tradizionale. What’d I Say, nel 1959, è un frizzante blues/gospel che sfora per la prima volta il milione di copie vendute, sempre ripetuto in ogni concerto; ma sarà Georgia, nel 1960, il passo vincente verso l’immenso mercato del pop; a un anno di distanza segue Hit The Road Jack, e sue versioni molto particolari del country di Hank Williams, che gli allargano ulteriormente l’uditorio anche presso il pubblico dei bianchi. L’arresto per eroina nel 1965, la sosta forzata per alcuni anni anche della sua carriera, fecero nascere un filone di nuovi interpreti soprattutto bianchi che si ispiravano a lui con evidenza, come Joe Cocker e Steve Winwood. Nel periodo successivo al ritorno alle scene dopo il carcere e il centro di rieducazione, si allontanò dalle atmosfere più vicine alla musica rock per inseguire più cocciutamente i propri gusti, ancora verso il gospel, il jazz, e i grandi standards pop; nel 1980, partecipò su invito di John Belushi a Blues Brothers, con un cameo che lo consegnava alla leggenda del pop tentato dal cinema. Nel 1985 prese parte al progetto Usa For Africa con We Are the World; nel 1990, vinse il decimo Grammy per una performance, grazie al duetto con Chaka Khan I’ll be Good For you. L’ultimo suo album a raggiungere la classifica dei dischi più venduti risale a metà degli Anni Novanta, ma ironicamente i più giovani cominciarono a conoscerlo proprio in quel periodo grazie a una serie pubblicitaria della Pepsi Cola che partì nel 1990 e andò avanti per anni. Da allora, ha continuato a girare il mondo con la sua musica e la sua big band, non rifiutando che poche scritture. Sempre misteriosissimo e avaro di interviste, sempre generoso di musica. Finché le forze gli sono rimaste» (Marinella Venegoni, ”La Stampa” 11/6/2004). «Suo padre, Bailey, era un meccanico, e sua madre, Aretha, accatastava tavole in una segheria. ”Quanto a povertà - raccontava lui - eravamo in fondo alla scala”. A cinque anni i medici gli dissero che sarebbe diventato cieco, forse per un glaucoma, e a sette aveva perso definitivamente la vista. A tre anni, però, aveva cominciato a giocare con la musica, grazie al proprietario di un caffé vicino casa che suonava il piano. Era l’epoca in cui i neri non potevano sedersi sugli autobus vicino ai bianchi, ma lui era andato alla St. Augustine School for the Deaf and the Blind, una scuola statale dove aveva imparato a comporre in Braille e a maneggiare la tromba, il clarinetto, l’organo, il sax, e naturalmente il piano. A 15 anni era rimasto orfano, ma ormai aveva scoperto il suo talento, e nel 1959 aveva inciso uno dei suoi primi grandi successi, What’d I Say. Da allora è stata una serie di conferme, marcate da 12 premi Grammy e mescolate a guai personali, come l’arresto per uso di eroina. Tutto con un solo sogno: ”La musica gira da parecchio tempo, e ci sarà anche dopo la mia morte. Io voglio solo lasciare il mio segno”» (Paolo Mastrolilli, ”La Stampa” 11/6/2004).