Varie, 19 febbraio 2002
CHIA
CHIA Sandro (Sandro Cecconi) Firenze 20 aprile 1946. Pittore • «Pittore toscano già elevato negli Stati Uniti ad astro di prima grandezza ma poi riportato sulla terra e ora operante fra New York, Montalcino e Roma» (Costanzo Costantini, ”Il Messaggero” 2/1/2002) • «Probabilmente il pittore più modesto del panorama artistico italiano, che di immodesti ne annovera a iosa: ”Ho il timore dell’arte, ma anche l’arroganza dell’arte. Vivo una sfida con la coscienza di quanto sia terribile questa bestia, ma nello stesso tempo mi sento di affrontare il mostro, non tanto per sconfiggerlo quanto per rendermi un po’ simpatico a lui. Mentre dipingo, qualche volta penso a problemi tecnici, altre volte alla vita, a me che dipingo, agli antichi che dipingevano, a quanto sia strano che io sia qui a fare questo lavoro, a realizzare un’utopia di sogno. Io sono di Firenze, una città piena d’arte, e sono stato a lungo in America. A volte penso: o io non mi sono mai mosso da Firenze oppure sono stato in America e ho sempre sognato Firenze. Tutto conta e niente conta: si muore in America come si muore a Firenze. Io non sono mai stato legato in senso fisico ai luoghi: da Firenze sono andato a Roma e il viaggio è stato in un certo senso più inquietante che quello da Roma a New York. Non sono legato ai luoghi e neanche agli oggetti e forse neanche alle persone, se non in maniera ideale: amo la nostalgia e la memoria più che la realtà” [...] Chia, si parva licet, tenta di rifarsi [...] a De Chirico, nel cinismo così come nello stile (o negli stili) e in un ostentato cosmopolitismo (Firenze, l’America; l’America, Firenze...). molto dechirichiano (nel meglio? nel peggio?) Chia lo è soprattutto quando dice: ”Le migliori discussioni sull’arte le ho avute con i collezionisti, che sono oggi i veri critici nel senso più profondo. Il collezionista è uno che quando afferma ”mi piace’ fa seguire un’azione, cioè è pronto a pagare il prezzo del suo giudizio. come giocare a poker, quando si dice ”vedo’ bisogna mettere i soldi sul tavolo. I soldi sono molto importanti per gli artisti, non perché gli artisti siano particolarmente avidi, ma perché il denaro ha un significato interno, alchemico. Se si leggono le lettere degli artisti, da Michelangelo a Raffaello, da Tiziano a De Chirico, parlano sempre di soldi”» (Mario Perazzi, ”Sette” n. 30/1997) • «Sono nato a Firenze nel 1946 e sono cresciuto lì. Ho frequentato prima l’Istituto d’arte e poi le Belle Arti. A Firenze l’arte è una consuetudine quotidiana, e io per anni ho pensato che tutto il mondo fosse così. L’Istituto d’Arte a Firenze, prima del 1968, era la scuola più formidabile del mondo, piena di vecchi artigiani coltissimi. Mentre si lavorava si parlava di Leopardi, di Marx, di Nietzsche. Era una scuola basata sulla necessità di discutere e di approfondire: le arti non erano slegate tra loro. C’erano anche molte ragazze e, in quei giardini di una bellezza incredibile, si scopriva l’erotismo. Quando passai all’Accademia delle Belle Arti, trovai gente più borghese: c’erano soltanto snob che aspettavano l’eredità, non c’erano più gli artigiani di San Frediano, e io mi sentivo tra persone senza cuore. Poi arrivo il ”68 con la sua ondata di caos. Viaggiai in tutta Europa, andai in India e in Turchia, e quando tornai mi trasferii a Roma. Era il momento dell’arte minimale e concettuale, l’arte povera. Frequentavo un ambiente assai composito: il ladruncolo di Trastevere si mischiava con l’americano, il figlio del ricco con il sottoproletario. La coesione era l’avventura politica e psichedelica, e l’arte era il collante di tutto. All’epoca, l’idea di successo era diversa. Aveva successo una mostra dove venivano cinquanta persone e qualcuno magari scriveva una recensione. Era ritenuto scorretto parlare di denaro. Vendevo un disegno ogni tanto. Ma negli anni Settanta ci si incontrava al bar, da Rosati. Si ricevevano molti inviti, la vita costava pochissimo. Io d’affitto pagavo trecentomila lire al mese, e per allora era moltissimo. Poi, nel 1975, Gian Enzo Sperone cominciò a interessarsi ai miei lavori, in America si cominciò a guardare alla giovane arte italiana. In quel momento l’arte era per definizione americana. Ci fu una crisi. Tutto ridiventò possibile, il clima era più erotico, la pittura era ciò da cui bisognava astenersi […] Per i nostri quadri c’era un’impressionante lista d’attesa.Era la follia. […] I miei quadri erano a Hong Kong, a Tokyo, in Messico, in Germania, a Parigi. In Italia meno […] Mi piacciono le moto come oggetti parcheggiati, e poi mi fanno volare intorno alle colline toscane. Si va nell’aria, senza protezione. Si ha l’impressione di penetrare la materia. […] Ritengo il lavoro la maggiore consolazione dai dolori della vita» (Alain Elkann, ”Amica” 3/10/1994).