Varie, 19 febbraio 2002
CHRISTO
(Christo Javacheff) Gabrovo (Bulgaria) 13 giugno 1935. Artista • «Singolare destino quello di Christo, artista bulgaro-americano. Nel suo cammino, celando oggetti, città, natura e storia, ha fatto della vita e dell’opera un colossale ossimoro collettivo. Intanto nel tempo ha svelato in pubblico il prolungato sodalizio professionale con la moglie. [...] Il problema iniziale di Cristo, all’imbocco degli anni Sessanta, è stato quello di intercettare l’oggetto quotidiano e dirottarlo verso l’altrove, la zona dell’arte. Tutta la tradizione dadaista si è mossa su questa tangente, nel tentativo di sottrarre il dato dalla paralizzata funzione in cui esso vive per ricacciarlo nella zona del probabile e della trasformazione. L’arte assume il ruolo di massaggio (risveglio della struttura interna e segreta dell’oggetto) e di allarme (l’oggetto minacciosamente aperto verso nuove relazioni e funzioni arbitrarie). Spesso il titolo tende maggiormente a distanziare l’oggetto dalla propria origine e a creare nello spettatore una estraniata contemplazione. L’oggetto dunque acquista indeterminazione e libertà, attraverso lo statuto della propria presenza letterale che ne aumenta in concretezza il suo estraneamento. Se con Duchamp l’arte ha capito l’uso grammaticale del mondo, con Man Ray ha intuito che la scomparsa dell’oggetto (l’occultamento) ne fomenta l’esistenza, dà all’opera un alone, un’aura maggiore nel senso del mistero: l’enigma di Isidore Ducasse, omaggio a Lautremont e ai suoi canti di Maldoror. In questo caso la scomparsa dell’oggetto afferma lo statuto dell’arte, l’esperienza estetica diventa tattica dell’inclusione di tutta la realtà nella sfera dell’immaginario. Christo, artista dell’europeo Nouveau Realisme, ha esteso tale tattica, ribaltandola, in strategia dell’esclusione. Ha verificato che l’oggetto trasferito nell’altrove dell’arte riprende lo statuto di realtà, nel momento in cui il sistema lo ricaccia a merce (privilegiata) tra le merci. Egli ha constatato che non è sufficiente il suo intercettamento, ma è necessario procederne all’interdizione. Diversamente dalla pop art americana con la sua neutrale apologia del consumo. Così ha cominciato a realizzare una serie di lavori, in cui la valenza architettonica (l’ingombro) esprime una sottrazione di spazio quotidiano e una diversa utilizzazione dei rifiuti della produzione industriale: geometria di sbarramento di una strada di Parigi attraverso una barricata di fusti vuoti di benzina nei primi anni Sessanta: i barrages. Poi Christo ha allestito le vetrine, pure esse interdette allo sguardo dello spettatore, soglia visibile del diaframma che separa il linguaggio neutro ed opaco dell’arte dalla realtà. L’esclusione viene perpetrata mediante carta o tela che scende lungo il vetro, sbarrando la possibilità per l’occhio di sfondare all’interno. La vetrina cieca rispetta tautologicamente l’intervento dell’artista che in tal modo trasgredisce alcuni luoghi comuni dell’arte: la sua tesaurizzazione come bene culturale, la pubblica morale di un’arte come comunicazione, il concetto di lavoro artistico quale gestione di strumenti complessi e tecniche specifiche. La nozione viene dunque capovolta da attività produttiva di nuovi oggetti ad occlusione e paralisi (mediante individuazione e occultamento) di quelli esistenti. Anzi, paradossalmente, la realtà trova la propria omologazione ed il proprio riconoscimento nel momento in cui Christo la segnala sottraendola al suo tessuto connettivo, relegando il suo ruolo a un nuovo statuto: quello di natura morta. Qui s’intende il dato inerte, strappato alla sua rete di nessi e posto in uno stato di oggettualità ferma e separata. Poi ad essere aggrediti non sono più dati ed oggetti definibili solo attraverso il lavoro individuale dell´artista, ma luoghi urbani e naturali, secondo un intervento ecologico che richiede una partecipazione collettiva. Il coinvolgimento del sociale nel proprio spazio operativo diventa in Christo atteggiamento ideologico, in quanto tutti i problemi dell’organizzazione dell’arte subiscono un’amplificazione che meglio evidenzia il rapporto tra l’artista ed il contesto. Intorno agli interventi sul paesaggio si crea una fitta rete di presenze: collaboratori che aiutano Christo ad impaccare coste, valli, monumenti, palazzi, responsabili delle istituzioni pubbliche, produttori industriali dei materiali necessari (che vengono normalmente menzionati poi dall’artista per la loro partecipazione d’uso), persone che s’inseriscono con la propria attività economica ai margini di questi grandiosi impacchettamenti. Fino al pubblico che accorre numeroso, spaesato ed estasiato per uno spettacolo in scala reale: Porta Pinciana a Roma nel ’74, le coste australiane negli anni Ottanta e il Bundenstag tedesco a Berlino, all’imbocco degli anni Novanta. Tutti i partecipanti hanno un ruolo attivo: collaborare all’interdizione di questi spazi, stendere la tela, la necessità di spostarsi per poter osservare il fenomeno da ogni angolazione. Il macroimpaccaggio, che impegna una quantità di territorio molto vasta, produce inevitabilmente un’investigazione sui processi dell’arte ed una serie d’informazioni estetiche, economiche e sociali. L’intervento di Christo si dispiega secondo un progetto di accelerazione che tende a spostare il lavoro artistico nel senso dell’estensione spaziale (quantità sempre maggiori) e temporale (l’impaccaggio nella sua ripetitività è un atteggiamento uniforme che richiede continuità e durata corrispondenti al continuo controllo dell’artista). Tutti gli interventi, paesaggio urbano o naturale, presentano all’interno un principio di dialettica: l’appropriazione e l’interdizione di una quantità spaziale [...] e una serie di relazioni che danno concretezza, reale socialità a tale intervento. Perciò è possibile impacchettare anche il vuoto, mediante l’innalzamento di un grosso tubo riempito di gas (come a Kassel nel ’77), in quanto il gesto del circoscrivere evidenzia ancora maggiormente tutto quello che ne resta fuori. Alla fine rimane l’interdizione, l’interdetto, come gesto dell’interdire, occasione di suscitare, all’interno di una contemplazione ampiamente comunitaria, l’evidenza di un ossimoro collettivo, dello svelar celando la verità dell’arte» (Achille Bonito Oliva, ”la Repubblica” 14/6/2004).