Varie, 19 febbraio 2002
CITATI
CITATI Pietro Firenze 20 febbraio 1930 • «Critico letterario. Considerato il pontefice massimo delle patrie lettere, si occupa rarissimamente di contemporanei, scrive quasi esclusivamente di classici e dirige la collana filologica della Fondazione Valla. Ciò che lo rende sublime, al di là della sovranità della forma, è l’invidia che provoca fra alcuni colleghi ancora impastati di marxismo e gramscismo, come Alberto Asor Rosa che lo accusa di ”proporre con piglio arrogante un’idea sublime della letteratura in realtà a uso delle masse”, o come Cesare Cases che gli rimprovera di ”trasformare l’aristocrazia del genio in un articolo di consumo”. Ammirato da Roberto Calasso per ”quella mescolanza di insolente drasticità e furiosa passione che in molti suscita irritazione”, guarda con sollievo la scomparsa degli interpreti dell’animo popolare che negli anni 50 diedero l’ostracismo ai suoi autori prediletti, Kafka, Proust, Musil e Nabokov. Inattuale, indifferente alle mode ha stroncato il Pendolo di Umberto Eco. Dice di vivere appeso ai libri come un pipistrello alla trave, ma ama anche il mare, le passeggiate a Villa Borghese e nutre una pacata nostalgia per la mediocrità democristiana. Non rilascia mai interviste, tranne per promuovere i propri libri [...]» (Pietrangelo Buttafuoco, ”Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini”, 10/10/1998). «[...] il dramma ma anche il fascino dei libri di Citati. Lui riscrive per noi Madame Bovary, Delitto e castigo, L’isola del Tesoro. Una situazione paradossale che è stata tradotta anni fa da Ruggero Guarini in una celebre battuta: ”A Citati accade spesso di cedere, non si sa se per troppo amore o troppa invidia, alla strana illusione di credersi l’autore di cui parla” [...] Credo che tra troppo amore o troppa invidia, la vera molla che spinge Citati a scrivere i suoi libri sia alla fine la disperazione. La disperazione che scrittori di quella forza non ce ne siano più, che romanzi di quella bellezza non ne vengano più. Non a caso Citati indugia, spesso splendidamente, sugli scrittore come persone, con una nostalgia quasi fisica [...]» (Antonio D’Orrico, ”Sette’ n. 44/2000). «[...] ”Da giovane, nel ”51, a Torino votai alle amministrative per Celeste Negarville del Pci. Lo considero, quel gesto, un peccato mortale: anche se non l’ho più commesso, potrei finire all’inferno per questo. Frequentavo la Normale di Pisa. Tutti i giovani erano comunisti. C’era una sorta di dittatura sotto il segno di Delio Cantimori, che pure era una dolce persona. L’atmosfera era irrespirabile. il buon senso comune del Pci intollerabile. Bandita l’ironia, i sentimenti raccomandati erano quelli che rendono la vita grigia, mediocre [...] Trascorrevo le estati in Liguria (dove Rousseau, Buffon, l’Enciclopedia furono le mie prime letture) ma vivevo a Torino, dove ho passato la mia infanzia. Scuole dai gesuiti, il Liceo D’Azeglio, poi non ressi più la pedanteria, l’ordine piemontese. Andai a Pisa, alla Normale, e dopo la laurea mi trasferii per tre anni all’estero, uno a Zurigo con una borsa di studio, due come lettore d’italiano all’Università di Monaco di Baviera, grazie a Gianfranco Contini. Quei due anni in Germania, mentre il Paese era impegnato nella ricostruzione, mi sono rimasti molto impressi”. Alla metà degli anni ”50 torna in Italia. ”A Roma. Dovevo insegnare alcuni anni nelle scuole per poter chiedere di nuovo di essere inviato all’estero. E invece sono rimasto. Io sono uno dei tanti italiani del Nord che ha tradito con gioia la sua terra d’origine e ama immensamente Roma [...] Ero un insegnante irregolare, trascuravo la storia e la geografia, leggevo in classe [...] Vivere con 49.500 lire al mese non era facile. E cominciai a collaborare sui giornali. Negli anni ”50, scrivevo su ”il Punto’, un settimanale nato per appoggiare il centrosinistra, una specie di ”Mondo’ per i poveri. Io facevo recensioni di narrativa, Pasolini di poesia. Più o meno in quel periodo, Livio Garzanti mi offrì una consulenza. Garzanti era un essere insopportabile [...] eppure era un grande editore. Anzi, il più grande editore italiano. Con molto più talento anche di Giulio Einaudi. La passione con cui ha pubblicato il Pasticciaccio di Gadda e con cui l’ha saputo imporre è una cosa straordinaria”. Poi venne ”Il Giorno”. ”Il direttore Italo Pietra aveva inaugurato la pagina letteraria. Usciva il mercoledì, e a settimane alterne ci scrivevamo io e Arbasino. Era circa il 1960, e avevamo trent’anni [...] io e Arbasino eravamo completamente diversi. Ci accomunava la passione per Gadda, questo sì. [...] avevo fama di cattivo, scrivevo pezzi molto feroci. Alcuni ingiusti, altri no, come la stroncatura dello Scialo di Pratolini. Oggi parlo solo dei libri che mi piacciono”. E il ”Corriere”? ”Arrivai nel ”73, ai tempi di Ottone. Il primo articolo fu un ritratto di Manzoni che prendeva tre pagine intere. [...] Provocò un grande scandalo, perché parlavo della passione edipica di Manzoni per la madre, dei suoi complessi rapporti con i figli: monsignor Cesare Angelini mi scagliò una maledizione. Ma io avevo carta bianca. Anche per la lunghezza dei miei articoli, che erano sterminati [...] A metà degli anni ”60, cominciò a crescere in me la voglia di scrivere libri. Mi misi a lavorare su Goethe, a cui ho dedicato molti anni” [...]» (Ranieri Polese, ”Sette” n. 30/1998).