19 febbraio 2002
Tags : Sergio Citti
Citti Sergio
• Roma 30 maggio 1933, Ostia (Roma) 11 ottobre 2005. Regista • «[...] il profilo artistico di Citti si mischia con il suo senso dell’amicizia e con il sodalizio che l’ha legato a Pasolini [...] Sottoproletario romano come l’inseparabile fratello Franco, Sergio era diventato stretto collaboratore di Pasolini sin dai romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta. Lo stesso Pasolini lo aveva introdotto nel cinema: come collaboratore di altri registi (Bolognini, Franco Rossi, Fellini per Le notti di Cabiria, Bertolucci), accanto a sé a partire da Accattone fino a Salò (cosceneggiato da lui e Pupi Avati), e infine come autore in proprio, dal ’70. Da Ostia fino a Fratella e sorello [...] Citti ha realizzato dieci film dove ricorrono l’elogio della coralità e dell’amicizia maschile: da Storie scellerate a Casotto, da Due pezzi di pane a Il minestrone, da Mortacci a I magi randagi, da Cartoni animati a Vipera. Più, per la tv, Sogni e Bisogni. Scritti con il giornalista David Grieco o con Vincenzo Cerami, i suoi film si sono distinti anche per la scelta degli attori: non solo i “suoi” Franco, Ninetto (Davoli) e Laura Betti, o il Lamberto Maggiorani di Ladri di biciclette, ma anche Gaber, Benigni, Fiorello. [...] aveva detto: “Un film è sempre qualcosa di disonesto: deve piacere. Io ho la fortuna di non avere un pubblico e posso raccontare le mie storie con sincerità”. [...]» (Paolo D’Agostini, “la Repubblica” 12/10/2005). «Il “poeta delle borgate”. La sua voce bassa e rauca, un po’ per via della sigaretta che gli pende sempre tra le labbra, un po’ perché – come diceva Pier Paolo Pasolini – le sue “parole sono soffi appesi tra parentesi di saggezza”» (Alessandro Fulloni, “Corriere della Sera” 19/1/2001). «Uno dei nostri registi più importanti. È difficile trovare oggi un autore che abbia l’innocenza di linguaggio e che persegua un suo disegno favolistico e coerente come lui. Nato dalla collaborazione con Pasolini, insegue uno stile diverso dal poeta friulano, ma altrettanto incisivo, è “l’uomo-che-racconta”, l’affabulatore, che, nella sua idea di gioco, introduce un mondo arcaico, naturale come un sogno ad occhi aperti, non nascosto da reticenze o da impacci letterari. Un cinema orale, raccontato a voce (e lui stesso, quando ti parla, ti immerge nell´universo infinito delle sue storie) che si materializza in immagini misteriose. “Sergio - ricordava Pasolini nella prefazione ad Accattone realizzato appunto con la sua collaborazione - come fa spesso, mi racconta un suo sogno (e un suo sogno è anche quello che fa il protagonista Accattone, alla fine del film). Si è sognato di essere dentro un cinema e di trovarsi tra le mani, o per terra, una catenina d’oro, intricata sotto una sedia o sotto i piedi degli spettatori. Allora il povero Sergio, pieno di lieta sorpresa, ha cominciato a tirare, tirare, tirare...”. Si ritrova in questa reiterazione, in questa metafisica di un gesto, il “cantare” di un cantastorie di situazioni che entrano nella spiaggia dell’immaginario, nel vento di un surreale atipico, e che esplodono in tutta la sua filmografia da Ostia a Storie scellerate a Due pezzi di pane, film poco noti al grande pubblico, per non parlare dei più recenti come Magi randagi e Vipera quasi non entrati in distribuzione» (Edoardo Bruno, “La Stampa” 26/10/2002). «Un film è sempre qualcosa di disonesto [...] Deve piacere. Io ho la fortuna di non avere un pubblico e posso raccontare le mie storie con sincerità. Sono convinto che avere un pubblico è l’esatta misura della stupidità umana [...] Di me posso però dire che se Sergio Citti fosse stato un regista venuto dal Terzo Mondo, sicuramente avrebbe avuto più successo» (Roberto Rombi, “la Repubblica” 1/6/2005). «Il suo penultimo film Vipera, girato nel 2001, passato quasi inosservato al pubblico e alla critica, ebbe una scarsissima diffusione, come il precedente I magi randagi del 1996. D’altronde la maggior parte dell’opera di Sergio Citti [...] è poco nota: i suoi film non hanno suscitato grandi entusiasmi, sebbene spesso siano stati elogiati da alcuni critici. Soprattutto ha pesato sul suo cinema il fatto di essere “pasoliniano”, una sorta di derivato popolare, di minore raffinatezza formale, del cinema colto di Pasolini, a cui Citti collaborò sin da Accattone (1961), anzi da quando lo scrittore si cimentò con le sceneggiature di La notte brava e La giornata balorda di Mauro Bolognini, realizzate nel 1959 e 1960. Ed è un peccato, non solo perché i film diretti da Franco Citti sono opere di grande poesia, certamente discontinue e non prive di ingenuità e di qualche sciatteria, e tuttavia genuine nella loro autentica dimensione artistica, ma anche perché, a ben guardare, in esse non c’è molto di pasoliniano. Anzi, paradossalmente, è più facile trovare elementi della poetica di Citti nell’opera di Pasolini, tanto cinematografica quanto letteraria, che non il contrario. D’altronde Sergio Citti, nato in una famiglia proletaria nel 1933, senza istruzione, di professione imbianchino come il padre (anarchico e antifascista), quando nel 1950 conobbe Pasolini, che faceva il maestro a Ciampino, ne divenne ben presto collaboratore per i romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta, nel senso che molto del materiale narrativo e dialettale di quei libri nasce dalla frequentazione del poeta col giovane operaio, che gli racconta molte storie della sua vita, i suoi sogni, le sue speranze. In una sorta di simbiosi esistenziale che fa di Pasolini quasi il “trascrittore” dei racconti di Citti, colui che li mette “in bella copia” per la stampa. Ciò per dire che la materia stessa della poetica pasoliniana, come sarà rielaborata e arricchita da Citti nei suoi film, a partire da Ostia (1970), supervisionato dallo stesso Pasolini, è una materia che si forma come personale, autobiografica, legata alla propria esperienza, ai ricordi, all’ambiente familiare e sociale. E ciò è visibile in Accattone, primo film di Pasolini, ma anche primo ipotetico film di Citti, che vi profuse molto di sé (e di cui fu protagonista il fratello Franco). Di qui il presunto “pasolinismo” del cinema di Citti, che invece, già in Ostia, ma soprattutto in Storie scellerate (1974), Casotto (1977), realizzato dopo la morte di Pasolini, Due pezzi di pane (1979), Il minestrone (1981), Mortacci (1989), e naturalmente i citati I magi randagi e Vipera e il successivo Fratella e sorello (2004), sviluppa un proprio discorso poetico che dal sogno e dalla fantasia popolare, dalla fiaba e dal racconto morale attinge tutta una serie di personaggi, ambienti e situazioni, in cui gli elementi autobiografici (che ci sono) tendono ad annullarsi in una rappresentazione tanto intensa quanto fantasiosa, tanto libera quanto poco rigorosa sul piano formale. Ma è proprio questa apparente trascuratezza, questa presunta ingenuità, ovvero il carattere “naïf” che gli venne attribuito (ma giustamente Citti diceva: “Mi hanno spesso chiamato naïf, che io non sapevo neanche cosa voleva dire. Vuol dire ingenuo, però io so bene cosa voglio fare”) a trasferire su un piano di autentica poesia quel realismo anche greve che domina la materia dei suoi film. Nei quali si incontrano personaggi marginali, sfruttati, miserandi, reietti, prostitute e truffatori, ma li si incontra come fossero nostri vicini, quasi nostri amici. Perché lo sguardo di Citti, il suo delicato umorismo, la sua sottile ironia, ce li mostrano senza falsi moralismi, così come sono. E sono personaggi che non si dimenticano, nel panorama alquanto uniforme del cinema italiano d’oggi» (Gianni Rondolino, “La Stampa” 12/10/2005).