varie, 20 febbraio 2002
CONTE
CONTE Paolo Asti 6 gennaio 1937. Cantante. Autore • «Grande appassionato di jazz fin dall’adolescenza, nei primi anni Sessanta prende parte come pianista e vibrafonista ad alcune piccole formazioni locali. Ben presto però comincia a scrivere la musica di canzoni che vengono interpretate dai cantanti più disparati, primo fra tutti Adriano Celentano (Chi era lui, 1966; Siamo la coppia più della del mondo, 1967; Azzurro, 1968), ma anche Caterina Caselli (Insieme a te non ci sto più e Il doppio volo, 1968), Patty Pravo (Tripoli 69, 1969), Enzo Jannacci (Mexico e nuvole, 1969), Bruno Lauzi (Onda su onda, Genova per noi e Argentina), Equipe 84 (Pullman, 1972) e tanti altri ancora. solo nel 1974, quando ormai è sul punto di abbandonare la musica e di dedicarsi alla sua professione di avvocato, che si convince a presentare lui stesso le proprie canzoni, incidendo prima un album (contenente fra le altre Onda su onda e La fisarmonica di Stradella), quindi un altro nel 1975 (Genova per noi, La topolino amaranto, La ricostruzione del Mocambo). Attraverso questi lavori anche il grande pubblico comincia a conoscere un autore e un interprete originalissimo per il panorama italiano, che riesce a coniugare la passione inestinguibile per il jazz con influssi legati agli chansonniers d’Oltralpe, il tutto tenuto insieme da una disincantata e vigile ironia. La voce, dal timbro rauco e dimesso, fa poi il resto, con quel suo procedere svogliato, quasi domestico e apparentemente casuale. Che finisce per comprimere o stirare sillabe e versi. Questi ultimi, fatti di immagini nuove e inusuali, ci fanno balenare davanti mondi esotici che celano però sonnacchiose province, sovrapponendo sfavillanti miti d’oltreoceano con più caserecci miti nostrani. Il jazz, sempre presente almeno come atteggiamento e riferimento, si materializza nell’uso preponderante del pianoforte, suo vero alter ego, ma anche nel piacere costante di mescolare fragranze e ritmi diversi. A quarant’anni, si ritrova in breve stimatissimo da un pubblico colto e raffinato, che vede in lui un cantore dei propri ricordi e delle proprie nevrosi quotidiane. Nel 1976 vengono le prime esibizioni in concerto, dimensione questa che subito si dimostra ben congeniale all’artista, le cui canzoni traggono certamente giovamento da un contesto più libero e con maggiori margini improvvisativi» (Augusto Pasquali, Dizionario della Musica Italiana - La canzone, Newton&Compton 1997). «Il suo colore è il grigio scuro, tra l’antracite e il fumo di Londra, una mise sempre elegante e severa che ora si impasta bene col colore bianco dei grandi baffi. A sprigionare ironia ci pensa il volto, il grande naso, lo sguardo candido e sornione [...] ”Sono laureato, in giurisprudenza, ma all’epoca, per vari motivi, un po’ perché non avevo punteggi stratosferici, poi perché già pensavo ad altro, fu una cosa sbrigativa, mi ricordo: era un freddo mattino di nebbia, senza nessuno che mi festeggiava [...] Come chiunque abbia una discoteca fornita in casa, mi concentro sulle quattro cinque cose che mi piacciono molto, vado a sentire il jazz, soprattutto i ’primitivi’, gli anni Venti, Jelly Roll Morton, Armstrong, Earl Hines e Sidney Bechet, ma anche Art Tatum e Duke Ellington”.Tornano sempre gli anni Venti. Sembra la sua epoca d’oro, una sorta di mito delle origini. [...] ”Come tanti compositori che scrivono prima le musiche e poi le parole, in genere scrivo con un finto inglese, che è elastico, ti fa sognare molto di più, i pezzi rimangono più astratti, poi quando devi fare i conti con l’italiano cambia tutto”» (Gino Castaldo, ”la Repubblica” 10/4/2003). «Se mia moglie è in platea la cerco con gli occhi, perché lei è la quintessenza del mio pubblico [...] La grande musica mi è sempre sempre sembrata come una galoppata incontro alla bellezza. Se abbia mai avuto dei ruoli nella società, non lo so [...] Disegno, dipingo» (Alain Elkann, ”La Stampa” 25/1/1998). «Ha più volte dichiarato che l’impulso primario di ogni sua canzone è sempre musicale; è un gruppo di note, un tema, un motivo, chiamatelo come volete, a proporsi prima come grumo sonoro e quindi via via a definirsi, ordinarsi, compiutamente comporsi. In altri termini, in principio per lui è la Musica, appresso viene il Verbo. [...] In lui le parole scaturite dalla musica hanno contemporaneamente una totale autonomia poetica e una totale intrinsecità con la musica stessa. Le parole sono figlie della musica, portate nel ventre della musica, il loro Dna è lo stesso. Non sono un vestito di stoffa, ma pelle viva. ”Dicono che quei cieli siano adatti / ai cavalli e che le strade / siano polvere di palcoscenico”: questo folgorante attacco della canzone intitolata Novecento uno se lo può godere come poesia in sé, ma se lo gode meglio, e meglio lo capisce, se lo sente cantato dalla voce di Conte. Ora provatevi a fare il giochetto della sostituzione: non vi riesce, è praticamente impossibile. Le parole di Conte, di volta in volta ironiche, malinconiche, insinuanti, sorprendenti, inattese o volutamente consuete, e sempre governate da un gusto sapiente, sorvegliato e colto, costituiscono un corpo unico e inscindibile dalla sua musica. E il fatto che all’inizio ci sia il Verbo o la Musica, nel caso di Paolo Conte, finisce con l’essere semplicemente una curiosità, che è quella di conoscere come lavora un Artista (Andrea Camilleri, Si sbagliava da professionisti, Einaudi). «Nelle sue canzoni Non usa mai l’"io”.Non ha mai avuto la tentazione di non farsi mediare dai personaggi? ”Non mi piace chi si racconta in prima persona, è un fatto di gusto, e poi lo slancio artistico mi viene meglio se sto sul fantastico”.Preferisce lavorare sul mistero? ’Sì, perché l’enigma è più dinamico. Desidero sempre lasciar sognare gli ascoltatori, non violentarli con un pensiero mio a cui devono sottostare. Diciamo che un aspetto confessorio non lo vorrei mai rintracciare in quello che scrivo, un po’ di vita vissuta c’è ma non in modo diretto perché mi turberebbe, mi toglierebbe quel fantastico che è la molla che fa muovere i personaggi”.[...] Ero partito in modo solitario, quindi dovevo esprimere tutto con quel poco che avevo, col pianoforte e quella minima voce di cui dispongo, sceneggiare tutto lì sul momento, e questo forse mi incitava un po’ di più, mi obbligava forse. Dopo, l’aver avuto a disposizione mezzi, orchestre, mi ha forse tolto quel disperato sceneggiare da teatrante saltimbanco che avevo all’inizio. [...] Mi ritengo già fin troppo fortunato per quello che sono riuscito a ottenere perché all’inizio mai mi sarei aspettato un favore di questo tipo. Sono sempre stato parco nelle richieste verso me stesso, ho sempre continuato a sperare di scrivere una bella canzone, magari migliore di altre, niente di più. Forse avrei potuto osare di più, musicalmente, chissà... un modo più anarchico. [...] Ancora oggi quando scrivo qualcosa che mi piace sogno che potrebbero cantarla Aznavour, Stevie Wonder, Ray Charles, l’abitudine mi è rimasta, poi mi adatto a farle io”» (Gino Castaldo, ”la Repubblica” 6/12/2003).