Varie, 20 febbraio 2002
CONTRADA
CONTRADA Bruno Napoli 2 settembre 1931. Ex numero tre del Sisde, ex capo della Mobile di Palermo, ex capo della Criminalpol. Arrestato per mafia all’antivigilia di Natale del 1992, fu scarcerato nel 1995 dopo 31 mesi di detenzione. Il 5 aprile 1999, nel processo di primo grado, fu condannato a dieci anni di reclusione. Il 4 maggio 2001 la seconda sezione della Corte d’appello di Palermo lo assolse con formula piena ”perché il fatto non sussiste”: a fine 2002 la sentenza è stata annullata dalla Cassazione per un vizio di forma. Nuova condanna nell’appello bis (febbraio 2006) • «[...] Ho trascorso la mia infanzia (dai due ai nove anni) in Libia: Derna, Misurata, Bengasi, Tripoli. Mio padre era ufficiale nella Colonia. Ho trascorso la mia adolescenza (dai nove ai dodici anni), in periodo bellico, a Napoli, Roma; quindi, nella R.S.I., a Como. Poi, gli anni della giovinezza, non molto spensierata, a Napoli, la Napoli del dopoguerra, la Napoli piegata e piagata. Il ginnasio, il liceo, l’università. Poi, a vent’anni, l’Esercito: l’orgoglio di indossare l’uniforme di ufficiale dei Bersaglieri. Dagli anni Cinquanta agli anni Novanta: Polizia e S.I.S.D.E. Ventiquattro anni a Palermo: Capo della Squadre Mobile, Capo della Criminalpol della Sicilia occidentale, Capo di Gabinetto dell’Alto Commissario. Dal 1985 al 1992 a Roma: Direzione S.I.S.D.E. Una vita per le Istituzioni. Una carriera, grado dopo grado, sino a quello ultimo di Dirigente Generale della Polizia di Stato. Infine, quindici anni (dal 1992 al 2007) di calvario giudiziario: arrestato, incarcerato per 31 mesi, processato, condannato, assolto, condannato di nuovo, incarcerato ancora. Ora sono nel Carcere Militare di S. Maria Capua Vetere per ”espiare” la pena di dieci anni di reclusione (dall’11 maggio scorso) meno i due e mezzo già fatti in custodia cautelare. Dovrei uscire nel 2014, fra sette anni, quando ne avrò ottantatré. A meno che non abbia prima, come probabile, un’altra ”chiamata”. Tutto ciò, senza aver mai commesso nulla di delittuoso, di illecito, di illegale (forse qualche lieve infrazione del Codice della strada...). Sono innocente. Sembra strano, impossibile, inverosimile, incredibile. Eppure, è così. [...]» (lettera a Roberto Gervaso sul ”Messaggero” dell’1 agosto 2007) •«Lo sceriffo di confine, la guardia che si fa ladro per fare meglio la guardia, il poliziotto che si contamina come i pirati di sua maestà, il corsaro che naviga tra due mari, quello della legalità e quello dell’illecito, il servitore fedele di una istituzione ambigua, il funzionario che discolpa la ragion di Stato addossandosene la filosofia spregiudicata, su questo enigma del grande Meridione d’Italia che è Bruno Contrada non si sono avventate e non si sono accanite solo la politica e la magistratura, ma anche, e forse più di tutti, quelli di noi che cercano l’univocità nel senso della storia italiana. Nel Sud si è combattuta una guerra non convenzionale dove la forza era data dagli infiltrati: dai mafiosi che si infiltravano nelle istituzioni e dalle istituzioni che si infiltravano tra i mafiosi. ovvio che facciano scena, in queste guerre, le sfumature tragiche, i mezzi colori inquietanti, i personaggi alla Lawrence d’Arabia, i questurini alla Bruno Contrada. dunque la nostra voglia manichea di vedere il nero senza bianco e il bianco senza nero che ha torturato Contrada per dieci anni. Forse non bisognava processarlo, perché non si processano le ombre, perché non si espone alla luce chi viene delegato ad operare nell’ombra. […] Un uomo che si è esposto con la malavita non può stupirsi di essere confuso con la malavita, come un patologo, affondando le mani nei tessuti malati, rischia di infettarsi di un male, ma non è il male» (Francesco Merlo, ”Corriere della Sera” 13/12/2002). «Sembrava un poliziotto americano, uno di quei detective che si vedevano solo nei telefilm. I piedi incrociati sulla scrivania, la giacca buttata sulla sedia, la cravatta slacciata, la sigaretta in bocca, la pistola nella fondina di cuoio che a ogni piccolo movimento sgualciva la camicia bianchissima […] La notte tra il 4 e il 5 maggio del 1980 ci fu una grande retata, presero una quarantina di mafiosi. Tutti i funzionari di polizia furono contattati a uno a uno dal questore Vincenzo Immordino e rinchiusi in una caserma prima di irrompere nelle case dei boss, tutti tranne uno. Tutti tranne lui che venne tenuto all’oscuro dell’operazione, lui, il capo, il massimo esperto di cose di mafia. Le voci diventarono sempre più forti, mese dopo mese e anno dopo anno. Le diffidenze di Falcone. Certe prudenze investigative. Timori che paralizzavano inchieste. Voci che si inseguivano mentre si apriva una folgorante carriera per ”il dottore”» (Attilio Bolzoni, ”la Repubblica” 5/5/2001). «Fui preso a casa da un nugolo di uomini principalmente della Dia e trascinato in carcere dove sono rimasto per 31 mesi sulla base di esigenze cautelari inesistenti. Mi ero presentato il 17 novembre ai magistrati e mi ero messo a disposizione. Non c’era alcun pericolo di fuga, ero stato sollevato dall’incarico e non potevo reiterare il reato. Potevo forse minacciare uomini dello Stato o pentiti protetti sempre dallo Stato, sia in Italia che negli Usa? Diciotto di quei 31 mesi li ho trascorsi da unico detenuto a Forte Boccea. Dovevo restare solo. Doveva essermi inibita la possibilità di difendermi per smantellare prima e meglio le accuse [...] Erano tutti buttati sullo stesso osso: l’Antimafia che assicura anche carriere. Io avevo riconvertito il Sisde dall’Antiterrorismo all’eversione destabilizzante della criminalità organizzata. Nello stesso tempo nascevano i corpi speciali. Qualcuno era di troppo. Noi eravamo sulle tracce di Bernardo Provenzano, avevamo individuato il covo trapanese dove era stato latitante con la famiglia, avevamo i cellulari di uomini vicini a lui. Forse avremmo potuto catturarlo. Poco prima del mio arresto quella struttura venne smantellata [...] è un’opera a più mani. C’è chi andava a chiedere ai criminali massacrati a legnate trent’anni prima alla squadra mobile: ”Cosa mi dice di Bruno Contrada?”.E c’è chi ci ha inzuppato il pane» (’la Repubblica”, 6/5/2001). «Se io ho sempre e pervicacemente negato di aver avuto rapporti ”anomali” con i mafiosi Riccobono e Bontade – cosa di cui sono stato accusato – è perché in verità essi non ci sono mai stati. Sia l’uno che l’altro non sono stati miei ”confidenti”. Ambedue sono stati da me perseguiti, specie il Riccobono che più volte è stato oggetto delle mie investigazioni e denuncie per la sua attività criminale. Tra l’altro, in esito a mie personali indagini, riuscii a portarlo innanzi a una Corte di assise per rispondere, insieme con i suoi accoliti, tra cui il pentito mio accusatore Gaspare Mutolo, di gravi delitti. Egli, però, fu assolto con una sentenza stilata dallo stesso giudice che poi mi ha condannato con la motivazione, tra l’altro, che io ero stato amico del mafioso Riccobono. Analoghi sono stati i miei rapporti con Stefano Bontade: l’ho denunciato per associazione mafiosa (condannato a tre anni di carcere, in primo grado, assolto in appello con la solita formula di insufficienza di prove) e l’ho proposto per il soggiorno obbligato per cinque anni (misura in effetti irrogatagli e scontata). Tutto ciò non toglie che abbia avuto anche negli ambienti della criminalità mafiosa, dei ”confidenti” – come del resto tanti altri poliziotti degni di tale qualifica – non tra essi, di certo, né il Riccobono né il Bontade. Con questi soggetti i miei rapporti sono sempre stati quelli ”poliziotto-criminale” e mai ”sbirro-confidente”. Cioè prettamente ed esclusivamente istituzionali. Ciò ho dichiarato e ripetuto sia ai giudici che mi hanno condannato sia ai giudici che mi hanno assolto» (lettera al ”Foglio” del 30/11/2001). Vedi anche: Goffredo Buccini, ”Sette” n. 2/1999.