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 2002  febbraio 20 Mercoledì calendario

CORDOVA

CORDOVA Agostino Reggio Calabria 5 maggio 1936. Magistrato. Ha cominciato la sua carriera proprio a Reggio Calabria nel ”63, diventando pretore, giudice a latere della sezione penale e poi giudice istruttore. Nel 1978 firma 60 rinvii a giudizio contro boss dei clan De Stefano, Mammoliti e Piromalli. Sarà il primo maxiprocesso contro la ”ndrangheta calabrese. Nell’87 diventa il capo della Procura di Palmi. Conduce inchieste contro la costa dei Pesce, contro le Usl di Taurianova e Gioia Tauro. Denuncia la scarsità dei mezzi, ma viene a sua volta denunciato al Csm per ”incompatibilità ambientale”. Il Csm archivierà il caso. Indaga anche su massoneria e P2. Nel luglio del 1993 diventa procuratore di Napoli. La sua opera di coordinamento è contestata da un gruppo di 60 sostituti. Il Csm si spacca, la destra lo sostiene e le divisioni in Procura diventano anche politiche. «Dalla massoneria internazionale al malaffare delle istituzioni, passando per le corruzioni (solo presunte) di altissimi funzionari del Viminale. La sua carriera professionale è costellata da battaglie giudiziarie altisonanti. Chiuse talvolta con sconfitte sonore. Quando era a procuratore a Palmi, in Calabria, arrivò a mettere sotto inchiesta la massoneria di Trento. Da Napoli ha accorciato la mira, puntando al Viminale, che si trova a Roma. Le prime avvisaglie partirono nel 1995, quando avviò un procedimento penale nei confronti del prefetto di Napoli, Umberto Improta, uno degli uomini più rappresentativi del Viminale. Quella volta scese in campo persino Berlusconi, per difendere il prefetto; e intorno a Cordova fecero quadrato alcuni esponenti della sinistra. Improta fu poi assolto da ogni accusa, completamente. La battaglia con il Viminale riprese [...] quando fece arrestare due prefetti di prima classe, uno dei quali era in carica nella Capitale. Li accusò nientedimeno che di un traffico di auto rubate. Finirono nella polvere, professionalmente parlando. Ma anche loro furono poi completamente scagionati. Per questa inchiesta contro i prefetti, finì sotto procedimento disciplinare al Csm, per un esposto firmato dai suoi stessi colleghi della Procura. Il Consiglio Superiore avviò la pratica di trasferimento e da Napoli, puntuale, arrivò una bordata contro il vicepresidente del Consiglio stesso, Filippo Verde. Cordova gli notificò un avviso di fine indagini di un’inchiesta che lo riguardava. Il tutto, alla vigilia di un Plenum che Verde si apprestava a presiedere insieme al Capo dello Stato. La cosa si risolse con un bolla di sapone, ma Verde arrivò ad un passo dalle dimissioni. Anche se un illustre penalista, Pasquale Alinante, chiamato a dare un parere sulla mossa della procura di Napoli, disse: ”Il vicepresidente Verde, nella mia qualità di avvocato penalista, mi ha chiesto di verificare la serietà delle imputazioni della procura della Repubblica di Napoli. Ho riscontrato che le accuse non stanno né in cielo né in terra. Al dottor Verde non viene contestato alcun dolo per reati che senza l’origine dolosa non hanno senso. Ritengo che le accuse contestate siano una bestialità a livello giuridico”. Infine, l’ultima inchiesta contro la Questura per le violenze ai No-Global. Anche in questo caso, aveva puntato al bersaglio grosso, interrogando lo stesso Questore di Napoli, Nicola Izzo, nell’agosto del 2001. Ma per una volta decise di essere prudente, il ruvido procuratore» (M. Mart., ”il Messaggero” 27/4/2002). «Furbissimo e scaltro, - anche se ama rappresentare se stesso come un indomito cavaliere che affronta solitario il mondo della corruzione - preferisce che la politica gli tenga la mano sulla spalla. Ieri, fu la sinistra (politica e togata) che lo appoggiò contro Giovanni Falcone nella candidatura alla Procura nazionale antimafia e nel contentino della Procura di Napoli. Giunto alla falde del corrotto Vesuvio, la mano cambiò. Divenne quella della destra. Tormentava, senza costrutto (purtroppo per lui) l’amministrazione di Bassolino ”il rosso”, e tanto bastava al centro-destra per non vedere le sconfitte incassate dal procuratore. Che intanto si circondava di toghe che avrebbero poi guadagnato uno scranno parlamentare nelle liste di An (Nicola Miraglia Del Giudice, Paolo Ambrosio, Luigi Bobbio), una responsabilità nel ministero di Giustizia di Roberto Castelli (Alfonso Papa, Arcibaldo Miller, Alfonso Barbarano, Luciano D’Angelo, Ugo Riccardi), in decisive commissioni parlamentari come l’Antimafia (Giovanni Russo). Naturalmente la passione discreta per l’attenzione politica, alla bisogna trasmutabile, impone una terza passione o virtù, chiamatela come volete: l’ambiguità. Mai scandire una parola nitida o inequivoca. Mai lasciarsi definire o imprigionare in una responsabilità diretta. Molti ritengono che la distanza che Cordova scava tra sé e i suoi pubblici ministeri sia conseguenza di un carattere scontroso e di una diffidenza cromosomica. Può essere, ma c’è un’altra spiegazione possibile: quella distanza gli consente di non assumere in pieno le responsabilità dirette. Se necessario, di muovere un passo laterale e conservare libere le sue mosse. […] Non ha mai firmato nessun ordine d’arresto, nemmeno quello che cacciò in galera senza alcun fondamento il prefetto di Roma Giuseppe Romano» (Giuseppe D’Avanzo, ”la Repubblica” 30/4/2002). «Si definisce un ”apolitico, poco diplomatico e senza collateralismi partitici”, la cui colpa è stata quella di toccare ”i Santuari del Potere”. Rivendica la sua autonomia da ”tutte le correnti” della magistratura, e attacca il Consiglio Superiore che oggi lo condanna ma in tempi non lontani non gli lesinava elogi. [...] ” vero che sono apolitico, non ho collateralismi partitici e non appartengo a cordate. anche vero che ogni volta che si sono toccati i Templi e i Santuari del Potere, palesi od occulti, si sono verificate insofferenze, reazioni e attacchi di genere e provenienza vari [...] Ho un brutto carattere e non sono un diplomatico. Ma la diplomazia è come una bellissima dama che suole avere intimi rapporti con il compromesso e generare brutti figli che si chiamano condizionamenti, ”apparamenti” (aggiustamenti, ndr) come si dice in dialetto napoletano, o ricatti. [...] Lo dico sempre ai miei colleghi: prima che magistrati bisogna essere uomini”» (’La Stampa” 27/9/2003).