Varie, 20 febbraio 2002
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Corini Eugenio
• Bagnolo Mella (Brescia) 30 luglio 1970. Ex calciatore. Giocò in serie A con Juventus, Sampdoria, Napoli, Brescia, Piacenza, Verona, Chievo, Palermo, Torino. Con l’under 21 vinse nel 1992 il titolo europeo. Nel 2010/2011 allenatore del Portogruaro • «La sua laurea di calciatore vero, Corini l’ha conquistata presto, forse troppo per coronare una carriera con i riconoscimenti e le medaglie che avrebbe meritato. Non che non li abbia ottenuti, compreso quella Nazionale guadagnata, persa e poi riconquistata alla boa dei trent’anni; ma le premesse sembravano ancora più auree. ”Il mio ruolo era di assoluta responsabilità, una posizione delicata che richiedeva probabilmente maggiore esperienza. Non so quanti, però, possano vantare 47 presenze in bianconero fra i 20 e i 21 anni. E nel primo campionato 21 furono le partite da titolare”.Poi, il filo del suo destino l’ha portato altrove: Sampdoria, Napoli, Brescia, Piacenza, Verona, Chievo e da avversario tante volte è tornato sul luogo del suo primo amore. [...] ”Facevo il militare, nella compagnia atleti di Napoli e giocavo nel Brescia in B. Stavo per rientrare a casa mia, Bagnolo Mella, nel bresciano, dove vivevo assieme alla mia famiglia. Mi chiamò il procuratore e mi disse di fermarmi a Milano perché doveva parlarmi. Ci vedemmo all’aeroporto di Linate, andammo a cena e mi comunicò che c’erano diverse squadre che mi volevano. Squadre di A. Mi sentivo già emozionato e non sapevo ancora il nome dei pretendenti. Me li comunicò di seguito: l’Inter, il Napoli che stava per vincere lo scudetto, il Torino di Borsano che aveva progetti importanti e la Juventus. Il massimo che un giovane calciatore potesse sperare. E tutte erano disposte a pagare i soldi che chiedeva il Brescia per il mio cartellino: 5 miliardi e mezzo di lire, una bella cifra per il 1990. Ero pur sempre un Under 21, avevo fatto 9 gol in B, tanti per uno del mio ruolo. La società bianconera stava per avviare un nuovo ciclo, andava via Boniperti, arrivava Montezemolo e l’allenatore sarebbe stato Maifredi, uno degli emergenti. Benché fossi interista sin da quand’ero bambino, scelsi la Juve proprio per quest’aria di rinnovamento. E comunicai a Branchini la mia decisione quella sera stessa, a fine cena, provando un’emozione che non riesco a descrivere”. Nulla, però, in confronto a quello che sarebbe accaduto di lì a poco: ”I telefonini non erano ancora così diffusi e da una cabina chiamai i miei per avvertirli di aspettarmi in piedi. Non vi dico mia mamma, che già cominciava a preoccuparsi perché pensava a qualche brutta notizia. Cercai di rassicurarli e li salutai. Arrivato a casa, quasi ancora sull’uscio dissi subito ”vado a giocare alla Juventus’... [...] mi sembra di stare nuovamente dentro quella stanza con i miei che si guardano e poi si stringono a me commossi. Mamma Giuditta si mise a piangere. Mio padre no, però nei suoi occhi c’era la fierezza dell’uomo di campagna che stava per fare il più bel raccolto della sua vita. Aveva seminato bene. La felicità dei miei genitori rappresenta la vittoria più bella di tutta una carriera. Emozioni allo stato puro che non si dimenticano più”. Poi, arrivò il giorno dell’esordio: ”Non subito, ma dopo 3 o 4 giornate, eravamo d’ottobre, e fu Governato il mercoledì a dirmi di tenermi pronto. Titolare in un centrocampo a 3 con Fortunato e Marocchi: Juventus-Lazio 0 a 0. Non uscii più. Ma l’esordio più bello fu quello di coppa Uefa, contro una squadra bulgara. Era la gara di ritorno e segnai su assist di Baggio. L’anno dopo con Trapattoni giocai solo 7-8 gare dal primo minuto. Era tornato Boniperti, che ogni tanto mi chiamava nel suo ufficio e mi diceva di non avere fretta, di aspettare il mio turno. Invece io ebbi fretta e l’anno dopo andai alla Samp, quello dopo ancora al Napoli e forse non fu la scelta giusta” [...]» (Francesco Caruso, ”La Gazzetta dello Sport” 25/9/2004) • «Ho sbagliato alcune valutazioni. Errori di gioventù, credo. La fretta di voler arrivare mi ha giocato un brutto scherzo. Se avessi saputo aspettare forse avrei vissuto un’altra carriera. Ma non lo dico con rammarico, perchè sono stato ugualmente fortunato ad arrivare fin qui. [...] Col senno di poi e con un po’ di maturità in più certi sbagli non li ripeterei. Soprattutto certi litigi. [...] Quand’ero alla Juve ebbi qualche discussione piuttosto animata con Trapattoni. Purtroppo sono un introverso e quando vedo qualcosa che non mi sembra giusta non riesco a digerirla. [...] Quando mi toccava tornare in panchina dopo una buona gara ci rimanevo male. E andavo a protestare. L’allenatore mi diceva che dovevo avere pazienza, che con lui persino Cabrini e Tardelli inizialmente avevano giocato poco. Morale: dopo due stagioni, mi ritrovai alla Samp [...] Problemi anche lì [...] con Erikson e con Mancini, per ragioni analoghe. Così decisi di cambiare di nuovo aria. Ma sbagliai valutazione andando a Napoli in condizioni fisiche non buone. Avevo una pubalgia che mi costrinse a giocare pochissimo. Quello fu il colpo di grazia, mi ero bruciato l’ultima chance per giocare nelle grandi squadre. [...] Poi ci fu anche il brutto infortunio alla gamba. ”In un anno e mezzo ben due rotture dei legamenti del ginocchio destro. Rimasi fermo in totale 12 mesi. A 28 anni però ho saputo rialzarmi, riuscendo a vivere una seconda giovinezza col Chievo, richiamato persino in nazionale. Per fortuna da quel momento mi ha aiutato la salute» (Francesco Caruso, ”La Gazzetta dello Sport” 9/3/2004) • «Un altro giocatore, parlando di come Zico batteva le punizioni, avrebbe detto che toccava col culo per terra. Corini no: ”S’abbassava col piede portante e il gluteo quasi toccava il tallone”. Corini ha studiato Zico, aveva il suo poster in camera. Corini osserva molto, ascolta molto. Ha del grigio nei capelli corti, le foto d’archivio di quand’era alla Juve lo mostrano con una pettinatura alla James Dean. Allora era considerato un ragazzo prodigio. E poi? ”Poi un piantagrane, poi un fallito, poi un ferrovecchio […] Se avevo una possibilità di andare in Nazionale, era in Corea. Ma siccome il ct era Trapattoni, non ci ho mai pensato seriamente. Mi ero beccato con lui da giovane, sapevo perfettamente che nella sua squadra ideale per me non c’era posto. Sacchi mi ha convocato qualche volta, ma senza farmi giocare. In compenso ho buoni ricordi dell’Under di Maldini, qualcosa s’è vinto […] Io mi definisco centromediano metodista. Il 5 l’ho scelto in omaggio a Falcao. Lo vedevo già prima che arrivasse in Italia. Su una tv veneta trasmettevano le partite del campionato brasiliano, si vedeva male, a strisce, e mia madre diceva che mi rovinavo gli occhi. Invece me li riempivo di Falcao […] umanamente sento più vicino Ancelotti perché ha avuto un sacco di brutti incidenti, come me, e ha sempre saputo superarli, con molto coraggio. E con che classe ha accettato il cattivo trattamento dalla Juve. Mi piace anche come tecnico, perché ama lo spettacolo. Come mi piace Zeman, garantisco che è dura giocare contro il Lecce. Invece non mi piace Mourinho […] Fin dai tempi della Fionda, la squadra dell’oratorio, a Bagnolo Mella, tutti a dirmi quant’ero bravo tecnicamente, ma gracilino. Questa storia del fisico mi ha ossessionato. A 11 anni prendevo il treno per Brescia e cercavo di irrobustirmi nuotando […] Mio padre Carlo era operaio alle ferriere, ha sgobbato tutta la vita e anche lui non aveva un gran fisico. […] Mia madre Giuditta stava in casa, è lei che ha tenuto bene insieme tutta la famiglia. I primi anni stavamo in una cascina fuori paese, col cesso in cortile. Quando ho smesso di studiare c’era da dare una mano, così mi alzavo tre volte la settimana alle 4,30 e scaricavo casse di verdura al mercato di Brescia. Un lavoraccio. Poi ho fatto l´aiuto-imbianchino e mi sentivo un signore, rispetto a prima. E lavoravo che ero già inserito nel Brescia […] Io interista ero militare al Napoli. Mi telefona Branchini: ti vogliono l’Inter, il Napoli e le due torinesi. Abbiamo scelto la Juve, era più facile per un giovane trovare posto. Era l’anno della svolta, di Montezemolo, di Maifredi. Abbiamo perso a Genova e non ce ne è più andata dritta una. Poi è arrivato il Trap e ho capito che per me non c’era spazio, così sono andato alla Samp. Ho litigato subito con Vierchowood, poi siamo diventati amici. Non erano rose e fiori neanche con Mancini, ricordo che col Milan eravamo 1-1, c’è un malinteso tra me e Jugovic, Rijkaard prende palla, Gullit segna. In spogliatoio Mancini ha alzato la voce: se a centrocampo qualcuno fosse più sveglio, sarebbe meglio. Io sono stato meno vago: se tu facessi meno colpi di tacco e qualche gol in più sarebbe meglio ancora. E lui: come ti permetti, io sono qui da tanti anni. Io solo da sei mesi, gli ho detto, ma ci tengo a vincere come voi […] quello che avevo sul gozzo lo dicevo. Oggi posso anche ammettere di avere ecceduto in qualche comportamento, ma con la testa di allora lo rifarei, mi sembrava di subire ingiustizie, o che molto se non tutto mi fosse dovuto. Cosa sbagliata, nel calcio e nella vita […] ho cominciato a mangiare merda, perché i treni di lusso erano alle spalle. Quando ho detto in casa che andavo alla Juve, per l’emozione mia madre s’è messa a piangere e mio padre le diceva: ”Non fare la stupida, è una bellissima notizia”. E intanto piangeva anche lui. A Torino questa scena mi è tornata in mente mille volte, loro due che per me si erano spaccati la schiena e io che non riuscivo a meritare tanti sacrifici, a dargli più soddisfazioni. Anche per questo ero caricato a molla. Ero giovane e avevo un bel caratterino. Se mi giudico con la testa di oggi, arriverei a dire che ero anche un po’ stronzo, ma un altro carattere non potevo averlo e mi resta la soddisfazione di aver sempre detto le cose in faccia a tutti, per potenti che fossero, mai alle spalle […] Sono andato al Napoli che soffrivo di pubalgia, ho reso pochissimo. Sono tornato al Brescia in un anno disgraziato, tre allenatori cambiati, retrocessione. E i tifosi mi hanno tirato uova marce, pomodori, mi hanno insultato a sangue, mi hanno sfasciato la Mercedes. Ho fatto il mio bel purgatorio […] A Piacenza mi hanno giudicato un fallito, ma ho giocato 32 partite. A Verona puntavano su Italiano. Il guaio è che in tre anni mi sono rotto due volte i legamenti del ginocchio destro. Il Verona mi aveva appena ceduto al Chievo, arrivo che sono penultimi in B. Si gioca con la Ternana, sento il dolore e la diagnosi me la faccio già sul campo. E dico a Campedelli: guardi, il contratto si può anche stracciare, non voglio fare l’invalido a carico. E lui m’ha detto di non pensarci nemmeno, di pensare a guarire. Queste sono cose che non si dimenticano. […] Si dice l’età, l’esperienza, la visione di gioco, ma io credo che mi rispettino perché se c’è da fare una corsa e tappare un buco io quella corsa la faccio. In mezzo al campo non si vive di rendita e di ricordi, bisogna anche correre e ragionare. E metterci il piede, quando serve. Agli inizi, mio padre mi diceva: ”Ti sei fatto ammonire anche ieri’. E lo diceva con un tono che mi faceva sentire un delinquente. […] gli allenatori li conosci bene quando sei alle loro dipendenze, ma li apprezzi da avversario. Quando dovevamo giocare con una squadra di Guidolin, io avversario pensavo: che palle, domenica si suda il doppio […]» (Gianni Mura, ”la Repubblica” 25/3/2005).