Varie, 20 febbraio 2002
CRAGNOTTI Sergio
CRAGNOTTI Sergio Roma 9 gennaio 1940. Manager. Ex patron della Cirio, ex presidente della Lazio. Arrestato nel febbraio 2004, nel luglio 2011 fu condannato in primo grado a nove anni per il crac Cirio • «La sua carriera è stata abbastanza straordinaria, ma niente all’inizio faceva pensare che quel ragazzo romano avrebbe poi fatto così tanta strada. E, cosa curiosa, lui comincia a correre davvero quando intorno a lui tutto crolla in un mondo di macerie e di rovine. Cioè negli anni del crac Ferruzzi, dove lui lavorava e era diventato uno dei maggiori responsabili, e negli anni di Tangentopoli. Anzi, probabilmente è proprio in quell’occasione che lui pensa di essere diventato invincibile e che molti uomini della finanza cominciano a guardarlo non più come un numero due (come era sempre stato, alle spalle di Serafino Ferruzzi prima e di Raul Gardini dopo) ma come un numero uno. In realtà, all’inizio la carriera di Cragnotti è molto banale e persino un po’ triste. Nato a Roma nel 1940, laureato in Economia e Commercio, comincia a lavorare come contabile nella Calce e Cementi Segni, una società del gruppo Bpd, da cui passeranno anche altri manager destinati a diventare famosi, come Mario Schimberni, che diventerà presidente “ribelle” della Montedison, e Cesare Romiti, amministratore delegato e presidente della Fiat. Dalla Calce e Cementi Segni, emigra e va a lavorare alla Cimento Santa Rita, in Brasile, paese che è all’origine della sua fortuna successiva e in cui passerà talmente tanti anni da essere soprannominato Serginho. La società brasiliana viene infatti comprata dai Ferruzzi e Cragnotti incontra il capo della famiglia ravennate, Serafino. Al vecchio Serafino questo giovane magro con una faccia molto furba e due occhi molto svelti, piace subito. E infatti nel giro di pochissimo tempo viene nominato responsabile di tutte le attività Ferruzzi in Brasile. Lì viene trovato dal nuovo capo della casa di Ravenna, e cioè Raul Gardini. E anche a Gardini il giovanotto piace. E c’è una spiegazione: quelli di Ravenna sono soprattutto commercianti, grandi commercianti, e Cragnotti si dimostra un vero talento nel comprare e vendere società. Gardini era solito dire: “Se hai una cosa da vendere e vuoi farti pagare bene, chiama Cragnotti, lui sa come si fa a spuntare il prezzo migliore”.E è proprio sotto Gardini che Cragnotti fa quasi tutta la sua strada. Prima viene nominato responsabile delle attività in Francia, poi rientra in Italia e fa una carriera straordinaria. Prima vice-presidente della Montedison e, poi, durante la guerra per il controllo dell’Enimont, diventa presidente di quest’ultima società. In quegli anni è ritenuto a Ravenna l’uomo più forte (e più abile) del gruppo, membri della famiglia a parte, ovviamente. Quando l’impero di Ravenna scricchiola, Cragnotti esce, fonda la Cragnotti & Partners Capital, di cui è il principale azionista e il presidente, e si mette in affari in proprio. In pratica ha fondato una banca d’affari. Vende e compra aziende (sua grandissima specialità), ma realizza anche quello che probabilmente era un suo sogno giovanile: decide, infatti, di diventare imprenditore. Compra in Brasile la Bombril (detergenti) e in Italia dà vita a un impero alimentare di una certa consistenza che ruota intorno alla Cirio. Cirio che poi alla fine andrà male (non riesce a rimborsare dei bond) e che farà precipitare l’impero (a cui si era aggiunta anche la squadra di calcio della Lazio, subito quotata in Borsa). In realtà, le imprese imprenditoriali di Cragnotti non sono mai state di rilievo, non è mai andato al di là delle conserve in scatola e non si è mai segnalato per guadagni importanti. Era bravo, anche verso la fine, a muovere le società, a vendere e comprare, a fare confusione, in una parola. Però aveva affascinato (o trascinato dalla sua parte) banchieri e aziende importanti. La cosa curiosa è che poi il curriculum di Cragnotti non era proprio più bianco del bianco. Anzi, la Consob canadese lo aveva inquisito per insider trading e quella brasiliana lo aveva multato per varie irregolarità legate alla Bombril. In Italia era finito sotto i fari dei giudici milanesi all’epoca di Tangentopoli, ma aveva prontamente ammesso di aver dato 10 miliardi ai politici per conto di Gardini e l’aveva scampata. Al punto che poi, mentre tutto crollava, mentre Gardini e Cagliari, i due grandi protagonisti dello scontro Enimont si uccidevano, e mentre l’impero Ferruzzi, dentro il quale aveva fatto carriera e fortuna, si dissolveva, lui cominciava la sua ascesa come grande uomo di finanza e come imprenditore in proprio. Fino alla crisi del 2002, ai bond non rimborsati, alle inchieste della magistratura e all’arresto di ieri. In sostanza, tirando le somme oggi che la sua carriera è finita, certamente più un affarista che un uomo d’affari, più un acrobata dei pacchi azionari che un finanziere di vaglia. Una specie di giocoliere» (Giuseppe Turani, “la Repubblica” 12/2/2004). «“Lei crede in Dio?”, gli chiese un giorno Maria Latella. Sergio Cragnotti, gli occhi liquorosi come santa Teresa del Bambin Gesù, rispose: “Sì. E la domenica vado a messa, con mia moglie e i miei ragazzi. Io vivo in un mondo spietato e molto materialistico, se ogni tanto non trovo un momento per rinchiudermi in me stesso... Stare in chiesa è un conforto”.[...] Mai piaciuto chiedere scusa al “Kragno”, come lo chiamavano ai tempi in cui, capelli pettinatissimi e bottoni stretti in vita come un manichino deluxe, dava la scalata a tutto. Troppo sicuro di se stesso, troppo altezzoso, troppo freddo: “Nelle mie scelte il cuore conta meno del venti per cento. Per avere successo bisogna stare fuori dalle passioni. L’emotività porta al disequilibrio. Sogno poco. Sognare ruba energie”.[...] Diplomato in ragioneria, figlio della piccola borghesia romana di Porta Metronia, il finanziere che nei giorni di splendore arrivò a dire che Berlusconi è un esponente del “vecchio mondo del calcio”, cominciò come contabile alla Bomprini Parodi Delfino negli anni in cui ci lavoravano, a livelli più alti, Cesare Romiti e Mario Schimberni. Era sveglio, ambizioso, deciso: breve gavetta e nel 1969 già decidevano di puntare su di lui mandandolo a seguire gli affari della Cimento Santa Rita, in Brasile. Tappa fondamentale. Non solo ne ricavò il soprannome di “Sergino”, ma si mise in luce al punto di essere adocchiato da Serafino Ferruzzi, che gli affidò l’Agro Pecuaria Magno, una società che aveva tanta terra quanta uno Stato: 350 mila ettari. Pochi anni di lavoro forsennato e fatturati sempre più alti, e già il nostro era a Parigi a trattare per conto del mitico Serafino l’acquisto della multinazionale alimentare Beghin Say. Portò a termine l’incarico, dicevano le agiografie ai tempi dei trionfi, scambiando le targhette dei posti a tavola per stare accanto al banchiere Jean Marc Vernes. Certo è che poco dopo veniva scelto da Raul Gardini come suo vicario: amministratore delegato del comparto agricolo, poi vicepresidente di Montedison, poi amministratore delegato Enimont. Una carriera spettacolare chiusa con l’uscita dal gruppo non molto prima che crollasse. Un’uscita serena, dirà lui elogiando per anni le virtù dell’“amico Raul” che “aveva capito per primo la globalizzazione”.Un’uscita segnata da ombre, diranno i nemici. Al punto che nel 2001, in un momento di tumulti, un’anonima mano laziale arriverà a scrivere sui muri di Roma: “A Cragno’, si te servono quattrini / puoi ammazza’ n’artro Gardini”.Certo è che, uscito dal gruppo di Ravenna dopo aver fatto sempre il dipendente e aver messo a segno qualche colpaccio come la vendita della Standa a Berlusconi per 881 miliardi di allora, “Sergino” si affacciò improvvisamente nel mondo dell’alta finanza con una banca d’affari, la “Cragnotti & Partners”, che rastrellava una società dietro l’altra. Ma dove aveva trovato tutti quei soldi: che fosse solo un prestanome? “I 600 miliardi con cui ho iniziato”, spiegò, “mi sono stati forniti dalla Banca di Roma, dal Banco di Napoli, dal Montepaschi, anche tramite la controllata Centrofinanziaria, dalla Banca popolare di Milano, dalla Swiss bank corporation, dalla francese Credit Lyonnais, dai Ferruzzi, da Gardini e da vari investitori brasiliani”.Vero? Falso? Boh... Enrico Cuccia borbottò: “È una fattucchiera”.Fatto sta che gli anni ’90, per Cragnotti, sarebbero stati una spericolata scalata al cielo con l’acquisizione, dall’Italia al Sudafrica e al Brasile, di un mucchio di marchi: la Cirio, la De Rica, la Bompril, la Centrale del latte di Roma, la Royal Food, la Polenghi, l’Aia, la Del Monte... Una scalata accompagnata dall’investimento sui figli, promossi uno dopo l’altro in quel giocattolo di famiglia che era la Lazio: ed ecco Elisabetta vicepresidente, Massimo direttore area tecnica, Andrea manager... Unica esclusa dai “regalini” la moglie Flora: “Lei i regali se li fa da sola”.Peccato solo per le grane: il coinvolgimento nel crac Enimont (dal quale uscì parlando di dieci miliardi di tangenti al Caf e patteggiando pochi mesi di reclusione), l’accusa di “insider trading” da parte delle autorità canadesi che gli vietarono di assumere qualunque carica nell’Ontario, le polemiche sul trattamento barbarico degli operai della Del Monte in Kenia denunciato in televisione da Milena Gabanelli, la condanna patteggiata a un mese di carcere per irregolarità varie nella costruzione del centro sportivo di Formello, la bastonata dell’ente di controllo brasiliano (una multa di 30 milioni di euro: la più alta nella storia) e il rinvio a giudizio per il passaporto falso procurato al calciatore Juan Sebastian Veron. “All’estero chi ha fatto cose così è stato colpito in ciò che ha di più caro: la classifica”, disse allora Fabio Capello. “Kragno” lo bacchettò come un padrone delle ferriere: “L’allenatore della Roma è solo un dipendente del nostro circo. Si faccia gli affari suoi”.Un invito volgare al quale, stando alle inchieste, non si è mai sottratto lui: sempre fatti gli affari suoi. Basti ricordare ciò che era scritto nel prospetto che, spiegò quattro anni [...] “Espansione”, accompagnava il collocamento in Borsa della Lazio: “Cragnotti è coinvolto in diversi procedimenti giudiziari concernenti ipotesi di falso in bilancio, falso in comunicazioni sociali e irregolarità fiscali”.[.,..]» (Gian Antonio Stella, “Corriere della Sera” 12/1/2004). «Lo guardi, abbronzato; leggi della sua famigliona, pure inquisita (moglie, figli, figlia, genero); apprendi delle coppe vinte con la Lazio, dei castelli nobiliari bruscamente acquisiti e poi ipotecati, dei quadri di Picasso che chissà ora dove sono, della tenuta di Montepulciano, della busta nera dell’immondizia in cui erano nascosti i documenti contabili; e subito ti chiedi cosa c’è dietro Cragnotti. Che cosa è rimasto, se mai c’è stato qualcosa, oltre a quel coraggioso nulla che per vent’anni gli ha messo le ali ai piedi. E gli ha offerto la vittoria sulle gradinate dell’Olimpico, il successo in Borsa, l’ammirazione in tribuna Vip. [...] Dalla Ciociaria (Bpd) l’avevano catapultato direttamente in Brasile, dove Cragnotti conquistò il vecchio Ferruzzi. Fin da allora, in attesa di trattare con libici, americani e kenyoti saliva sugli aerei con la naturalezza del conquistatore. Di sé ha dato una volta la seguente, scultorea definizione: “Un uomo che vive nel futuro”.Ma quando acquistò la Cirio rivolse lo sguardo anche verso il passato annunciando: “Il nostro obiettivo è quello di far tornare la gente nei campi”.Vale giusto la pena di aggiungere che negli Anni 90 non era difficile trovare gente disposta a credergli. Il personaggio del resto ha sempre avuto una certa vocazione oracolare. L’“ipse dixit” di Cragnotti comprende una varietà di espressioni a loro modo rivelatorie: “È una sfida”, “è ora di smetterla”, “è il momento che le istituzioni si diano da fare”, “è vergognoso che”, “voglio continuare a credere”, “vorrei poter arrivare perfino”, “sono stufo”, “non intendo mettere in crisi il mio modello di vita”, “sogno poco. Sognare stanca e ruba energie”, “rifarei tutto”.Cragnotti, in realtà, aveva capito molti segreti di quell’entità fraudolenta e ghiotta di miti che per pigrizia si continua a chiamare società dell’immagine. Così, il piccolo borghese di Porta Metronia arrivò a rivendicare al suo cognome radici greche; e si compiacque che il suo personalissimo oroscopo (9 gennaio, tenace Capricorno) coincideva con quella della squadra che un giorno avrebbe presieduto, ovvero dominato, fino a farle ottenere lo scudetto, più due coppe Italia, due coppe di Lega, una supercoppa europea e una coppa delle coppe, insomma il Santo Graal per la tifoseria dell’aquila biancoceleste. [...] Era destino di Cragnotti infilarsi in quella fornace di potere primordiale, interessi miliardari e passioni al limite del delirio che è il calcio evoluto. Bilancio stilato prima del tempo, con la consueta umiltà: “Dopo Berlusconi sono stato il manager più innovativo. Quando bussai ho trovato un calcio che ondeggiava tra l’etico e il sociale. L’ho preso di petto, l’ho rivoltato come un guanto, ho introdotto il business. Prendevo e cedevo, cedevo e prendevo...”.Nella modernità opulenta e secolarizzata gli dei sono finiti nei Circenses, e i loro rituali si svolgono in prima serata nel recinto sacro degli stadi. Bene: Cragnotti non esitò un attimo a trasformarsi in un capo tribù post-moderno, qual è oggi il presidente di una società calcistica. Mestiere tra i più ingrati, se non altro perché occorre essere leone nelle curve, volpe nei consigli d’amministrazione, acrobata nei rapporti con le autorità e mercante di carne umana nelle compravendite dei vari Vieri, Nedved, Veron, Nesta, Crespo. Forse era troppo, anche per lui. Alla fine i tifosi gli facevano la posta sotto casa, al suono di trombe, lanci di petardi e muri imbrattati. Quando fu pizzicato per una tomba che si era fatto costruire in deroga, nell’affollatissimo camposanto capitolino, si limitò a rispondere: “Credo di essere il presidente di una società importante della capitale, abbiamo fatto tanto per la città. Possiamo anche riposare in pace”.Reduce dalle “lampados” com’era, sembrava una bugia pure quella. O forse no. Vatti a fidare di Cragnotti, e di tanti ormai come lui» (Filippo Ceccarelli, “La Stampa” 12/2/2004). «Un banchiere che lo conosce molto bene lo chiama “il piccolo Romiti”.Ed, effettivamente, la storia di Sergio Cragnotti ha molti punti in comune con quella dell’ex-amministratore delegato della Fiat. Entrambi romani, laureati in Scienze economiche, tifosi sfegatati, anche se su fronti opposti, delle squadre capitoline, manager diventati imprenditori grazie alle loro ricche liquidazioni, Cragnotti e Romiti hanno cominciato la loro attività lavorativa nello stesso settore (la chimica) e nello stesso gruppo (la Bomprini-Parodi-Delfino). Ma le somiglianze tra i due imprenditori non finiscono qui: oltre alla passione per il calcio i due presidenti sembrano essere anche destinati ad incrociare i libici nei momenti di maggior difficoltà finanziarie dei loro gruppi. Nel 1976, quando Cesare Romiti era appena diventato amministratore delegato della Fiat, il colonnello Gheddafi salvò i conti del gruppo torinese diventandone azionista con il 10%, poi salito al 15%. Nel 2002, il figlio di Gheddafi, Al Saadi, azionista della Juventus con il 7,5% del capitale, […] ha chiamato il patron della Lazio dicendosi disponibile a dargli una mano. Le somiglianze tra Cragnotti e Romiti si fermano qui. Il proprietario della Cirio e della Lazio, in Borsa, “vale” appena 160 milioni di euro, quasi la stessa cifra del prestito obbligazionario per il quale passerà alla storia come il primo caso di insolvenza di un grande gruppo quotato. […] Ma come ha fatto il patron della Lazio - alla guida di un gruppo da 1,2 miliardi di euro che Mediobanca classifica come il 72.mo in Italia - a scivolare in una situazione che molti hanno accostato alle recenti vicende di Vittorio Cecchi Gori e della sua Fiorentina? Quando comincia la sua ascesa nel firmamento imprenditoriale, sembra avere il vento in poppa. Delfino di Serafino Ferruzzi e di Raul Gardini che lo avevano messo al vertice di molte società dell’impero agricolo di Ravenna prima della sua rovinosa avventura nella chimica, balza all’onore delle cronache alla fine degli anni ’80 quando viene nominato amministratore delegato di Enimont, la joint-venture chimica tra l’Eni e la Montedison. Cragnotti, che si dimise dopo 20 mesi al vertice di Enimont, era all’epoca il manager italiano più pagato in assoluto: con un miliardo e mezzo di lire di allora superava Paolo Fresco (a quei tempi responsabile europeo della General Electric) che ne guadagnava 1,2, e Marco Tronchetti Provera, amministratore delegato della Pirelli (un miliardo). Risale a quell’epoca il suo “colpo da maestro”: la vendita a Silvio Berlusconi, che ancora non pensava alla discesa in campo, della Standa. Come successe per Romiti dopo la sua uscita dalla Fiat, Cragnotti, grazie alla sua ricchissima liquidazione (si parlò di 80 miliardi di lire), cominciò la costruzione del suo impero che, ad un certo punto, sembrava ad un passo dal traguardo dei 4.000 miliardi di fatturato. Con la sua “Cragnotti and Partners” (nella quale entrano come soci i Ferruzzi e diverse banche) ed una complessa ragnatela di finanziarie olandesi e lussemburghesi, l’ex-manager comincia ad acquistare aziende su aziende: la Lawson Mordon canadese (che fatturava 1,1 miliardi di dollari); la Polenghi Lombardo (dalla Federconsorzi); la casa d’aste Semenzato; la brasiliana Bombril (origine di molti dei suoi attuali guai finanziari); la Centrofinanziaria (dal Monte dei Paschi); la Cirio-Bertolli-De Rica (dall’Iri, per oltre 500 miliardi); la Lazio (prima società calcistica ad essere quotata a Piazza Affari e da molti considerata come la “polizza assicurativa”della sua scalata nel mondo degli affari); le centrali del latte; e, infine, la sofferta acquisizione della Del Monte, il colosso della frutta tropicale. Una scalata senza soste che avviene con non pochi incidenti di percorso come l’arresto per il caso Enimont (vicenda che chiude, poi, versando 10 miliardi) e le accuse di frode lanciate da alcuni soci brasiliani. E che accrescono i suoi debiti: secondo Mediobanca, gli oneri finanziari della Cirio sfioravano nel 2001 i 190 milioni di euro. Secondo il banchiere che lo chiama il “piccolo Romiti”, “Cragnotti non si è accorto che i tempi sono cambiati. Finora la sua crescita, anche disordinata, è avvenuta con il pieno appoggio delle banche; dopo l’11 settembre e dopo la crisi della Fiat, sono finiti i tempi dei crediti erogati ad occhi semichiusi. Se non vuole finire come Cecchi Gori, deve mettersi nelle mani dei suoi creditori e saranno questi a decidere cosa vendere per sanare i conti prima che sia troppo tardi”» (Enrico Romagna-Manoja, “la Repubblica” 9/11/2002). «Quando Serginho il Ragioniere varcò il cancello del carcere di Opera in un brumoso pomeriggio novembrino del 1993 (loden blu, sciarpa gialla, valigetta in cuoio), tutti erano convinti che il signor Lazio fosse già al finale di partita, infilzato dal rigore del destino e da Mani Pulite. Tornava quel giorno dal Brasile, sua seconda patria (perciò lo chiamano Serginho, neanche fosse un terzino fluidificante), la terra in cui cominciò a comprare a pochissimo e vendere a moltissimo per conto di Serafino Ferruzzi e Raul Gardini, suoi scopritori, benefattori e sponsor. Era venuto “a consegnarsi” dopo il mandato di cattura per la faccenda delle tangenti Enimont, un gorgo che ne fece affogare tanti e morire qualcuno. Non lui. Prostrato dalla clausura, e forse dal’obiettiva difficoltà nel recuperare laggiù una lampada abbronzante, dopo tre giorni in galera parlò, ammise che dieci miliardi furono versati al Caf (Craxi-Andreotti-Forlani) in nome e per conto di Gardini, allo scopo di ottenere sgravi fiscali quando Eni e Montedison dovevano fondersi. Non fu reticente, spiegò il bianco e soprattutto il nero: aveva già intuito come uscire dal gorgo, e lo fece nel 1998 patteggiando un anno e cinque mesi di reclusione per falso in bilancio, appropriazione indebita e finanziamento illecito dei partiti. Fu così che Serginho, soprannome brasileiro ma lucida freddezza giapponese, saltò Tangentopoli in dribbling. Oggi, certo, la sua Lazio ha le pezze ai pantaloncini, però lui continua a fare quello che ha sempre fatto: comprare quando può e vendere quando deve. Così ha ceduto Crespo e Nesta, con la polizia sotto casa per scongiurare agguati degli ultrà, ma non gli restavano altre carte. Perché la prima società calcistica italiana quotata in Borsa (4 maggio 1998) presentava un indebitamento di 137,3 milioni di euro, superiore al valore della sua produzione, ed è in arrivo la Consob con la lente d’ingrandimento. In dieci anni, sono stati spesi sul mercato oltre ottocento miliardi di vecchie lire. Adesso il gruppo Cragnotti ha un po’ il latte alle ginocchia: le azioni della Bombril, controllata brasiliana della Cirio di cui è il padrone, sono state oggetto di una richiesta di pignoramento. E l’agenzia delle entrate della regione Lazio ha contestato al club biancazzurro l’omesso versamento di imposte sui redditi da lavoro dipendente per 8,9 milioni di euro. Dietro la cessione di uno stopper e di un centravanti si agitano a volte lugubri fantasmi. Eppure è sicuro di cavarsela anche stavolta, lui così abile nel comprare gelati, pelati e attaccanti croati. Anche se non ha mai spiegato davvero da dove arrivassero gli ottanta miliardi di liquidazione Enimont che gli permisero di mettersi in proprio nel ’91: ma con quel filo, la ragnatela si è allargata. Beppe Signori, Winter, Gascoigne, Fuser, Marchegiani (pagato in parte in nero, come Cravero), Boksic e Casiraghi, Mancini e Salas, Nedved e Vieri, Veron e Crespo. Una lunga rincorsa, parecchie grane collaterali (patteggiò un mese di reclusione per irregolarità contabili nella costruzione del centro sportivo di Formello) e l’apoteosi nel 2000, anno del centenario e del giubileo, quando arrivarono scudetto, Coppa Italia e Supercoppa europea. Disse l’avvocato Agnelli: “Cragnotti può spendere cifre che noi non possiamo permetterci”.Veramente non poteva permettersele neanche lui, solo che faceva finta di non saperlo. E poi c’è sempre un angelo custode, si chiama Cesare Geronzi, cioè Banca di Roma: quando la Lazio becca un contropiede, è lui a mettere la palla in corner. Gran trapezista della finanza e dell’alimentazione mondiale, Cragnotti ha un sacco di marchi stampigliati sulla pelle abbronzata, alcuni passati, altri ancora presenti: Cirio, Del Monte, Ala, Polenghi, Bertolli, De Rica, Centrale del Latte, Lazio. Quando decise di aumentare il latte romano di cento lire il litro, ci fu una mezza rivolta dell’associazione “Bar, latterie e gelaterie” della capitale: “Presidente, Vieri non possiamo mica pagarlo noi!”.Poco meno di una macchiolina nella storia di un personaggio sul quale erano calati i sospetti dell’Antitrust proprio nell’acquisto della Centrale del Latte, per non parlare dell’ipotesi di bancarotta fraudolenta (1999) partita da una denuncia collegata al fallimento di una società edile, la Ross Immobiliare, oppure per tacere del crack Federconsorzi, o della vendita della Lawson Murdon per cui la Consob canadese lo accusò di “insider trading”.Neppure sembrano pesargli più di tanto il rinvio a giudizio per il passaporto falso di Veron o la vecchia denuncia sulle condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti kenyani della “Del Monte Royal”: salari troppo bassi, misure igieniche insufficienti, nessuna tutela sindacale, licenziamenti facili. Gli arrivarono dal’Africa settemila cartoline di protesta, ma lui si è sempre difeso, a volte facendo un po’ di confusione, e non dicendo sempre la verità. […] Alcuni suoi motti: “Con il pallone non ci si rimette, è una gallina dalle uova d’oro, bisogna solo che covi bene”.“Vorrei poter arrivare per primo sul meglio del meglio”.“Io ci credo”.“Vince chi si muove”.Enrico Cuccia lo definì “una fattucchiera”. Berlusconi, al quale piazzò la Standa per conto dei Ferruzzi, disse che “è un mercante di granaglie”.Serginho lascia parlare e intanto teorizza “un calcio sempre più professionistico, simile alla Formula Uno”.Come per molti suoi colleghi supermanager, però, il criterio ultra professionale cede di fronte al “teniamo famiglia”: ecco dunque la figlia Elisabetta vice presidente ed ex amministratore delegato, ecco il figlio Massimo “direttore generale area tecnica” e l’altro figlio Andrea manager. Ma forse il miglior ritratto di Sergio Cragnotti è un autoritratto. Inquietante. “Nelle mie scelte il cuore conta meno del venti per cento. Per avere successo bisogna stare fuori dalle passioni. L’emotività porta al disequilibrio. Sogno poco. Sognare stanca e ruba energie”» (Maurizio Crosetti, “la Repubblica” 10/9/2002).