Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2002  febbraio 21 Giovedì calendario

DAlessandro Andres

• Buenos Aires (Argentina) 15 aprile 1981. Calciatore. Dell’Internacional Porto Alegre, squadra con cui nel 2010 ha vinto la Coppa Libertadores. Lanciato dal River Plate, con la nazionale ha vinto il campionato del mondo Under 20 (Pallone d’argento del torneo dietro Javier Saviola) e le Olimpiadi 2004. Ha giocato in Europa con Wolfsburg (Bundesliga), Porstmouth (Premier League), Zaragoza (Liga) • «[...] lo volevano Inter e Juventus, Barcellona e Manchester United [...] era il pezzo pregiato del calcio argentino, l’unico per il quale Maradona si fosse pesantemente esposto in prima persona pur giocando il ragazzo nel River e avendo, Diego, il cuore-Boca. “È il giocatore che più mi assomiglia, l’unico che mi fa divertire guardando una partita di calcio”, sentenziava allora il più grande di tutti. Quattro anni dopo la parabola del mancino-pelatino di 20 anni finisce tra le “brevi” dei giornali sportivi per il suo passaggio in prestito dal Wolfsburg al Portsmouth, dalla quintultima squadra della Bundesliga alla penultima della Premier League. In quattro anni dall’altare alla polvere, dal centro del mercato ai confini dell’impero. Così va il calcio, anche se [...] era difficile prevedere una caduta del genere per un ragazzino che i numeri li aveva per davvero, che con il suo sinistro disegnava assist e gol da spellarsi le mani, che indossava la camiseta numero 10 del River Plate, mica una squadretta qualsiasi, e che poco prima di lasciare l’Argentina di quel club, che fece grande tra gli altri Enrique Omar Sivori, diventò anche il più giovane capitano della storia. Raccontano che, ai tempi, la cassetta con il “meglio del meglio” di D’Alessandro avesse fatto colpo su Massimo Moratti che proprio davanti al videoregistratore si era innamorato qualche anno prima del suo pupillo ufficiale, Alvaro Recoba. In effetti quelle immagini erano una goduria per i calciofili e oltre a gol, dribbling e assist contenevano la “Boba”, il marchio di fabbrica di D’Alessandro, quella finta irridente e irriverente che faceva andare per le terre i suoi marcatori. La “Boba” (traduzione: la Tonta) era stata l’arma vincente dell’Argentina che nel 2001 aveva conquistato il campionato mondiale Under 20. Inutile dire che di quella Seleccion, Andres era il leader. Interessante aggiungere che in quel torneo il Brasile di Adriano e Kaká non entrò neppure in semifinale, tanto per avere un’idea della qualità di quell’edizione del mondiale giovanile. Curioso notare come, di quella generazione di piccoli fenomeni argentini, alla fine pochi abbiano avuto fortuna: [...] Burdisso [...] Coloccini [...] Saviola [...] Dopo quella passerella iridata, D’Alessandro rimane altri due anni in Argentina facendo in tempo a ingrossare il suo palmarès. E nel luglio del 2003, con tre scudetti appuntati al petto, arriva il sognato trasferimento europeo. La cifra richiesta dal presidente del River Plate, José Maria Aguilar, proprio quando il calcio europeo comincia a stare attento ai conti risulta però fuori mercato: di fronte ai 13 milioni di euro scappano tutti eccetto il Wolfsburg, la squadra della Volkswagen, che si ispira ai “cugini” della Fiat ma che a differenza della Juve non ha mai vinto uno scudetto. L’arrivo di D’Alessandro accende una piazza storicamente tiepida. Ma dopo due anni e mezzo la bacheca dei Wolves rimane desolatamente vuota. Nonostante i cospicui investimenti, il Wolfsburg non centra mai neppure l’obiettivo Champions, D’Alessandro entra in perenne conflitto con i suoi allenatori (memorabili le liti col barbuto ex milanista Eric Gerets) fino a quando Klaus Augenthaler [...] lo mette fuori rosa per “scarsa applicazione” in allenamento. La carriera tedesca di Andrés D’Alessandro è riassunta nei numeri: 61 presenze e più ammonizioni (14) che gol (8). E così—Lionel Messi farà gli scongiuri... — la maledizione dell’erede di Maradona colpisce ancora. In passato ne avevano fatto le spese, tra gli altri: Claudio Borghi, Diego Latorre, Leo Rodriguez, Ariel Ortega, Marcelo Gallardo. Della serie, di Dieguito ce n’è uno, tutti gli altri son nessuno» (Matteo Dotto, “Corriere della Sera” 7/2/2006). «Fa la stessa finta e lo stesso dribbling, però il giochetto gli riesce sempre. Piccolo di statura (1,71), micidiale nello scatto breve, formidabile nel controllo di palla col piede mancino [...] Dribbla come un sudamericano, tocca la palla come un argentino, inventa corridoi difficili da immaginare, detta passaggi, comanda il gioco segnalando compagni liberi o spazi da coprire. È evidente che giocando si diverte [...] La sua casa è nel barrio de la Paternal, un grande quartiere a ovest del centro di Buenos Aires [...] Il padre Eduardo Ricardo, ex difensore arrivato fino alla prima squadra dell’Almagro (serie B), fa il tassista. Lavora tanto e guadagna poco. Dunque è la mamma, Estela Saturni, che cerca di dare uno sbocco calcistico all’evidente talento del figlio. Prima bussa alla porta del Racing. Poi trova aperta quella del River, quando Andrés ha appena otto anni. Il ragazzino si fa tutta la trafila delle giovanili. E presto, oltre a studiare e giocare, si mette a lavorare per dare una mano in casa. La mattina va a scuola, il pomeriggio si allena col River. E alle sette e mezzo di sera, quando ha finito, va in giro a consegnare pizze. Porta pizze calde a domicilio, su e giù a piedi per La Paternal fino a mezzanotte. Continua a farlo anche nel dicembre 1999, quando a 18 anni il ct dell’Argentina, Marcelo Bielsa, lo convoca nella nazionale maggiore per una tournée in Spagna [...] Gli telefonano a casa alle 10 di mattina e gli dicono che alle 14 deve farsi trovare pronto all’aeroporto di Ezeiza. [...] Non ha ancora debuttato nella prima squadra del River ed è già in nazionale [...] Il 28 maggio del 2000, Ramon Diaz lo fa debuttare in prima squadra contro l’Union» (Alessandro de Calò, “La Gazzetta dello Sport” 28/12/2001). «È alto uno e sessantatre e pesa cinquantaquattro chili. Già nelle dimensioni ricorda qualcuno, che non ammette paragoni perché irripetibile. Ma se è lo stesso Diego Armando Maradona a schierarsi, ad annunciare alla sua festa d’addio “D’Alessandro è un fenomeno. Se penso a quando avevo vent’anni, nessuno mi somiglia più di lui”, allora il dubbio comincia a farsi strada. E se fosse veramente caduto il tabù? Se la patente di nuovo Maradona fosse per la prima volta ben spesa? Poi c’è Pelè, che dice “D’Alessandro è il giovane argentino che mi piace di più”, ed anche questo è un punto a favore. Dunque, ci siamo. Il fenomeno è individuato. D’Alessandro gioca a testa alta, ha una storia da piccolo prodigio come tanti, ma già ora qualcosa lo contraddistingue. Come un marchio di fabbrica. Si chiama La Boba, significa la tonta. Tonti diventano gli avversari quando subiscono questo dribbling. Meno spettacolare dei balletti di Zidane e Totti, ma eseguito ad altissima velocità da una struttura neuromuscolare che ricorda il più celebre del numeri dieci. Col quale condivide il piede preferito, il primo sinistro di classe dopo il destro di Veron, Gallardo, Riquelme, Aimar. “Per me conta l’allegria” racconta D’Alessandro, “gioco per divertirmi, poi per il gruppo”.Ogni riferimento a Diego è puramente casuale. Ma di sicuro, quel che manca rispetto all’illustre “padrino” sono i gol [...] “Tutti i bambini argentini sognano di diventare come Maradona” dice, “anche a me piacerebbe, ma è impossibile. Tutti questi complimenti rischiano di farmi diventare matto: devo ancora crescere, in campo e nel fisico”.Umiltà tattica, non si sa mai. Però D’Alessandro ha fretta, quando si pone un obiettivo non impiega molto tempo a raggiungerlo. Iscritto all’ultimo momento nella selezione argentina per il Mondiale under 20, è diventato titolare ed ha vinto il titolo. Ha un padre tassista, Eduardo, a dieci consegnava le pizze per far quadrare i conti di casa. Ma il calcio gli fa ancora paura: “Penso ai procuratori, ai dirigenti. Questo ambiente non è pulito per niente, mi fa paura”.Ancora adesso giura che non è vero che è così presuntuoso da rifiutare di aiutare i magazzinieri a raccogliere i palloni. Tutta Europa lo vuole, il Manchester ha messo sulle sue tracce il fratello di Ferguson, il West Ham ancora ricorda quando lo scoprì bambino durante uno stage, ma già allora 4 milioni e mezzo di dollari non bastarono. Moggi ha incontrato a cena uno dei suoi procuratori» (Mattia Chiusano, “la Repubblica” 9/1/2002).