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 2002  febbraio 22 Venerdì calendario

DE GREGORI Francesco Roma 4 aprile 1951. Cantante. Autore • «Uno dei non molti cantautori italiani che ha adoperato la parola, fin dai precoci inizi, con un rispetto e una cura perfettamente letterari

DE GREGORI Francesco Roma 4 aprile 1951. Cantante. Autore • «Uno dei non molti cantautori italiani che ha adoperato la parola, fin dai precoci inizi, con un rispetto e una cura perfettamente letterari. Anche se De Gregori non accetta e anzi osteggia gli apparentamenti facili tra poesia e canzone (e non perché valuti la seconda inferiore alla prima, ma perché difende, giustamente, la preziosa e fragile specificità della parola cantata), la sua scrittura sopravvive benissimo anche svestita della musica. [...] tra il De Gregori ventenne e quello cinquantenne non ci sono clamorosi scarti di stile o di intensità o di ”genere”. Scrivere negli anni del furore politico o in quelli del ripiegamento individuale o in questi, di confusione e guerra, non ha comportato, per lui, troppo evidenti aggiustamenti di linguaggio. E se si considera che De Gregori, tra i cantautori italiani, è decisamente uno dei più ”politici”, permeabile ai mutamenti di cultura e di costume, tutt’altro che estraneo all’aria che tira e agli umori dell’epoca, questa complessiva unità di stile significa che è un autore vero, uno dei non molti che sanno tenere dritta la barra. Uno dalla personalità artistica così forte e riconoscibile che temi pubblici e privati, invettive (ne ha scritte più d’una) ed elegie, ballate civili e storie d’amore sono comunque e sempre dette in quell’inconfondibile modo (anti-didascalico, antirealistico, metaforico, allusivo, ”difficile”) che divide da sempre amanti e antipatizzanti di De Gregori. Risalgono ai suoi primi successi le polemiche sulla cosiddetta ”ermeticità” e ”aristocraticità” dei suoi testi, giudicati, all’epoca, impolitici, quasi un lusso decadente, distonico rispetto al vigoroso clima ”di lotta” nel quale si formarono i cantautori italiani più importanti. [...]» (Michele Serre, ”la Repubblica” 12/11/2004) • «Il più austero dei nostri cantautori. [...] ”Un cantante sì, lo sono di sicuro. Anzi la parola cantante è sicuramente quella in cui mi identifico di più. [...] Sono curioso della musica di tutti. E sono stupito quando a volte uno che non mi piace, fa una bella cosa che mi incuriosisce. Succede con Moby, nulla di più distante da me, ma il suo disco l´ho consumato, oppure, non lo pensereste mai, con gli Articolo 31. [...] Se ripenso al passato, ci sono tante cose che non rifarei. Se devo pensare a quando ho fatto causa a Morandi, oggi mi sembra assurdo, ma ci sono momenti in cui ti viene di fare così. Di base c´è il fatto che non mi sono mai sentito parte del circo della mondanità, del mondo dello spettacolo, dell´essere simpatico a tutti i costi. In passato trovavo anche un po´ vergognoso il momento in cui bisogna promuovere il proprio disco, oggi ho capito che non c´è niente di male. [...] Il mio modo di scrivere versi è legato al non detto, all´accenno, all´allusione piuttosto che al manifesto, alla canzone col dito puntato. Io del resto non ho mai nascosto il mio essere consonante alla sinistra, se me lo chiedono in un´intervista dirò sempre che Berlusconi mi fa schifo e che voto a sinistra, ma tradurre tutto questo in una canzone è diverso. Ho fatto canzoni che prendevano di mira la contemporaneità politica, vedi La ballata dell´uomo ragno, ritratto impietoso di Craxi, ma anche lì non era immediatamente decifrabile. [...] un mestiere vivo, vivace, non ho nostalgie, anche se i miei pilastri sono tutti di epoche antiche, e certamente non riesco a sentire oggi i dischi con lo stesso affetto con cui sentivo Sg.t Pepper o Transformer. [...] Nessuna canzone può salvare il mondo. Ma di sicuro le canzoni, così come i libri e i film modificano il mondo. Io sono perfettamente consapevole di fare cultura. Intendiamoci, così come la fa Gigi D´Alessio. Ognuno lo fa a suo modo”» (Gino Castaldo, ”la Repubblica” 9/11/2003) • «Ci sono davvero molte cose che Alice non sa. A Francesco De Gregori, ad esempio, è accaduto di suonare la chitarra per la rivoluzione e per le riforme di struttura, per Lotta continua e per il Pci, e pure per Nando Adornato (’siamo rimasti amici, l’ho incontrato di recente in treno, non condivido quel che fa ma non giudico”) e per Nanni Moretti (’ogni volta penso: non lo faccio più, non suonerò più per la politica e spero sia vero”). In realtà, Francesco De Gregori custodisce le idee di quand’era ragazzo, e anche la curiosità per il campo altrui, trasmessagli all’università dal suo maestro. ”Renzo De Felice era un uomo delizioso. Il contrario del barone. Disponibile, puntuale, attento ai suoi allievi. Ne ho un bellissimo ricordo, con il toscano sempre in bocca, mentre parla, e talvolta balbetta. Arrivai alla Sapienza nel ’69, a diciotto anni, e all’inizio finii in braccio a Marcuse. Sociologia. Ferrarotti, Statera. Si parlava male degli storici, di chi studiava le differenze tra le rivoluzioni francese, americana, russa; l’importante era studiare come la rivoluzione andasse fatta. Dopo un anno e mezzo passai alla storia. E trovai De Felice. Diedi due esami con il suo assistente Paolo Mieli, conobbi Giovanni Sabbatucci. Con De Felice preparai la tesi di laurea, sulle biblioteche popolari del fascismo, un interesse che mi aveva comunicato mio padre, bibliotecario. Ricordo che il primo a sollevare la polemica contro il "revisionismo" fu Amendola. De Felice rispose: faccio lo storico, è il mio mestiere. Peccato soltanto che scrivesse in quel modo insopportabile. Non è il caso di Pansa. Ho trovato assurde le polemiche sull’opportunità politica del suo libro sul "sangue dei vinti". Inopportuno? E’ un lavoro doveroso e necessario. Non è detto che debba essere solo Pisanò a farlo. [...] Studiare con De Felice mi ha reso familiare la figura di Mussolini. Mi ha trasmesso una sorta di affettuosità verso il Duce. Mi sono come abituato a quest’uomo, dalla straordinaria intelligenza e dalla straordinaria capacità di doppiezza. Sia ben chiaro, sono consapevole di quanto fosse privo di scrupoli morali, non lo sento né amico né consonante. E’ un personaggio dalle diecimila sfaccettature, che in certi momenti appare come un eroe shakespeariano”. [...] Francesco De Gregori si chiamava uno dei fratelli maggiori di suo padre, ”aveva pochi anni più di lui”, partigiano della brigata Osoppo, ”nulla a che vedere con Salò, faceva la guerra ai fascisti e ai tedeschi”. Ma furono altri partigiani ad assassinarlo, a Porzus. Gappisti. Insieme con il fratello di Pasolini (cui ha dedicato una canzone). E’ una storia di cui non ha mai parlato, ”per non dare risonanza pubblica a una tragedia che riguarda la mia famiglia, e in particolare una vedova, degli orfani. Non sarebbe giusto violare questa dimensione privata come uomo di spettacolo, come cantante”. Non è detto però che anche queste cose non contino, per chi le sa. La famiglia di De Gregori non era di destra, non era di sinistra. ”Al liceo, il Virgilio, leggevo Paese Sera. Non ’L’Unità’, che mi pareva troppo schierata. Non andavo ai cortei, solo un paio di volte, mi imbarazzava il rituale, i pugni chiusi, il canto di Bandiera Rossa. Poi arrivò il Sessantotto e mi trovai scavalcato a sinistra da gran parte dei miei coetanei. Alcuni mi avrebbero riscavalcato a destra negli anni a venire”. E’ sempre stato vicino al Pci, ”anche se mi sono iscritto all’ultimo momento, l’anno prima che cambiasse nome. Sezione Mazzini”. Ma nel ’73 Lotta continua gli chiede di partire per una tournée di autofinanziamento al Sud. Concerti gratis, alloggi di fortuna, tranne una notte in hotel, a Bari, nello stesso letto con l’organizzatore, Sergio Martin. ”Eppure contestavano anche me. Ogni sera spuntava qualcuno, in sala o in camerino, che cominciava a chiedere: ’Ma Pablo è morto o vivo?’. Una persecuzione. Però mi divertivo, perché quello era il mio pubblico. Contestavano l’autorità, e in quel momento sul palco ero io”. Nulla rispetto al Palalido di Milano, tre anni dopo. ”Un episodio di microterrorismo. Suonare a Milano voleva dire mettersi nelle mani dei vari gruppuscoli. Quella sera contro il cantautore ’ricco e famoso’ si organizzò un’imboscata. Il concerto fu scandito dalle grida di 400 persone e dal lancio di oggetti di ogni tipo. Fui costretto a far salire i ’proletari in divisa’ che lessero un proclama. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Vennero a prendermi nei camerini in dieci, uno aveva una pistola, e mi fecero tornare sul palco, dove venni sottoposto a una sorta di processo popolare. Per tre anni rifiutai di suonare in pubblico”. Venne il ’79, e fu Banana Republic con Lucio Dalla. Un trionfo. ”Il Paese era molto cambiato. Finiva la politica di strada e di piazza. C’era stato il caso Moro”. Con i colleghi De Gregori ha sempre lavorato volentieri. ”Un tempo era più facile, le case discografiche erano una sorta di cenacolo, al bar della Rca incontravo Baglioni, Renato Zero, Cocciante, Pappalardo, talvolta Battisti”. Il più importante è stato De André, conosciuto al Folkstudio. ”Facemmo anche un disco insieme, Volume VIII. Lui dormiva di giorno, io di notte. Fabrizio stava sveglio sino all’alba, a leggere, bere, comporre musica. Prima di andare a letto mi svegliava, e io proseguivo il lavoro dal punto in cui l’aveva interrotto. Il primo album però l’ho fatto con Venditti nel ’72, ha un titolo presuntuoso, Theorius Campus. Convinti entrambi di essere dei geni, eravamo un po’ rivali, ma siamo sempre stati amici. Con Guccini ho passato un bellissimo pomeriggio a casa sua, e poi basta. Con Dalla invece c’è stata una consuetudine che si è perduta, ma della tournée di 24 anni fa ancora si parla. [...] Vasco mi piace molto. E’ figlio della sua epoca, i primi Anni Ottanta, e pur essendo un uomo di sinistra per comportamenti e dichiarazioni, i suoi testi esprimono suggestioni individualiste, superomiste, futuriste; categorie considerate patrimonio della cultura di destra. E’ una riprova che le canzoni non devono passare attraverso i filtri della politica. [...] Non mi direi ’di sinistra’, così come dico che sono della Roma. Non si mette un timbro su una sensibilità. Non è un’appartenenza, ma una scelta continua. Finora mi sono riconosciuto nelle posizioni della sinistra. Non escludo di farlo in quelle delle destra. Certo finché ci sarà Berlusconi sarà difficile. Si vede che è in buona fede, ma anche che gli mancano le basi: un corso di educazione civica, la lettura precoce di un giornale, Paese Sera o anche il Secolo d’Italia”. Non che De Gregori abbia qualcosa da rinnegare. Da evitare, semmai. ”Quando ho suonato per una causa politica mi sono sempre pentito, perché alla fine ci si sente usati. Resiste un’attitudine togliattiana: l’artista viene percepito come utile idiota. Colui che si presta. Quando i socialisti si appropriarono di Viva l’Italia per uno spot elettorale pregai un amico di farli smettere; però non avrei mai fatto causa al Psi. Avevo scritto una canzone su Craxi, L’uomo ragno, non mi piaceva la loro arroganza, ma era pur sempre il partito di Nenni, Lombardi e Brodolini”. A Sanremo non è mai andato né mai andrà. Brucia ancora il ricordo del ’73, quando il suo capolavoro (che torna nel nuovo album Mix), la canzone con cui si sono addormentate generazioni di bambini, in cui passano Lili Marlene, lo sposo impazzito e un misterioso mendicante arabo con ”un cancro nel cappello” che la censura ha guarito e trasformato in ”qualcosa”, partecipò al Disco per l’estate. ”Arrivò ultima”. Questo perché le cose sono più complicate di quanto si pensi, e sono infinite le cose che Alice non sa» (Aldo Cazzullo, ”Corriere della Sera” 5/12/2003). «Lui è peggio di Dalla. Tanto per cominciare, ha una barba molto più per bene e un po’ rossiccia, trasandata. Lucio Dalla ha una barba eccessiva, che minaccia di congiungersi alle sopracciglia, una barba da hezbollah cazzuto. De Gregori no, ha una barba di quelle che sanno di poco, da adolescente lanuginoso, che si rade di rado per millantare, più che ostentare, una sofferta maturità. Ben altre barbe sono venute a noi, obbligati a sentir le sue sciape nenie da fidanzatine in brodo di giuggiole per Buonanotte Fiorellino - perché le coccolassimo come poco si confà agli ardori di certi orari - o per la Donna cannone (’Non avrò paura se non sarò bella come dici tu”) - perché a sedici anni già accantonassimo gli illusori e caduchi valori estetici. Barbe patriarcali, da Matusalemme, spuntavano poi sulle nostre gote, quando alla fase romantico-intimista, superata in fondo brillantemente, non succedeva quella tanto attesa e più concreta, bensì quella ideologica (’Generale dietro la collina...”, ”Pablo è vivo...”), che ha messo a dura prova la costanza di milioni di innamorati. Poiché i più hanno ceduto, importanti studiosi indicano in lui la principale causa del crollo demografico in Italia. Ben altro ha fatto crollare De Gregori, componendo gli inni della Gioiosa macchina da guerra e di Alleanza democratica. Infine, siccome Dio li fa e poi li accoppia, Dalla e De Gregori sono gli autori del disco Banana republic, anticipazione ultradecennale della tanto attesa epoca dell’Ulivo» (’Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini”, 10/10/1998).