Varie, 22 febbraio 2002
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DelBuono Oreste
• Poggio/Isola d’Elba (Livorno) 8 marzo 1923, Roma 30 settembre 2003. Scrittore, giornalista, critico letterario, critico cinematografico ecc. «Uno degli intellettuali che ha sovvertito, innovato, cambiato il panorama della editoria italiana, dai giornali, alle riviste, alle collane editoriali, alla stregua dei grandi editor come Calvino, Vittorini, Spagnol, Sereni e a editori quali Bompiani, Mondadori, Rizzoli. Uno come lui che alle 20,30 era già a letto, ma sovente sdraiato in una cuccia vicino al letto, per svegliarsi alle 2,30 per lavorare fino alle 6,30 e concedersi un pisolino fino alle 9, cosa può aver fatto nella sua vita se non tutto e di più? Critico letterario, critico cinematografico, commentatore calcistico, fondatore di riviste e collane editoriali, traduttore (da Bataille a Yourcenar, da Gide alla Kristeva), scopritore di talenti: odibì è tutto questo e altro. Possiede, forse in Europa, il record, da guinnes, delle dimissioni, [...] oltre il centinaio. È riuscito a dimettersi dalla Mondadori, dalla Rizzoli, dal “Corriere”, dall’“Europeo”, dalla “Stampa”, dal suo “Linus”, da ogni dove. Forse il suo obiettivo, non raggiunto, sarebbe stato quello, sdoppiandosi, di assumersi e licenziarsi. Ci è però andato vicino, vicinissimo. Fu quando, appena arruolato, venne preso prigioniero e portato in Austria, dove rimase nel lager fra il ’43 e il ’45. Un giorno evase, ma non per tentar la fuga verso l’Italia, ma per intrufolarsi, da clandestino, in un altro lager, da dove, scoperto, riuscì nuovamente ad evadere per riconsegnarsi in quello di provenienza. Vita da pendolare, vita da “infedele” per conservare un’unica grande libertà: la propria, quella che gli permette la creatività, l’invenzione, la voglia di lavorare “sulla carta” che gli era scattata [...] da ragazzo leggendo Topolino giornalista, guardando il film L’ultima minaccia con Humphrey Bogart e subito dopo con le vignette, con il collega “anonimo” Calvino, sul “Bertoldo” di Guareschi o con recensioni letterarie su “Libro e Moschetto”.Pendolare anche, soprattutto, fra i gusti di un pubblico che ama leggere gialli e fumetti, guardare le partite di calcio e il cinema, divertirsi con le battute dei comici, si è trasformato in un grande mixer, insieme ad Eco, uno dei primi “operatori culturali” [...] mescolare cultura “alta” a “cultura bassa”.Se nel ’45 si era provato a mettere in fumetti I promessi Sposi del Manzoni, sul Politecnico, nel’65 inaugurò Linus con una discussione sul valore culturale delle “strisce” con Eco e Vittorini. E su quelle pagine, poi arrivarono tutti, da Schulz a Al Cap, da Feiffer a Pratt, da Pericoli a Crepax, Chiappori, Staino. I grandi editori “popolari” Rizzoli, Rusconi, Sonzogno, Mondadori, gli editori più elitari, Bompiani, Feltrinelli, Einaudi, hanno “sopportato” le sue silenziose bizze e genialità, ottenendo da lui nuove collane, traduzioni, introduzioni, sempre con uno sguardo attentissimo ai processi dell’industria culturale. Una vita frenetica, attivissima, condotta con uno stile affilato e discreto, con presenza di parole ma sobrietà di immagine: un Del Buono in grigio, in principe di Galles, attento a non occupare troppo spazio fisico, sempre un po’ di traverso, minimizzando o, appunto, dimettendosi per riapparire, il mondo editoriale ha un perimetro stretto, dove già almeno una volta era stato. Negli anni, è andato sempre più assomigliando ad un personaggio dei suoi amati fumetti e la sua esistenza una “striscia” di una vita molto letteraria, come di chi abbia seguito il progetto di trasformarsi da entità fisica in scrittura. Già perché uno segue l’Odibì talpa editoriale e giornalistica e rischia di dimenticare il Del Buono scrittore, uno dei nostri scrittori della seconda metà del ’900 più interessanti, con romanzi di struggente bellezza, da Racconto d’inverno a La parte difficile, Né vivere né morire, I peggiori anni della nostra vita, Tornerai, Se mi innamorassi di te, La nostra classe dirigente, per citarne alcuni. Una carriera di narratore invidiabile e, o per masochismo o per pudore, tenuta al margine dal suo autore, al limite quasi di un “fatto privato”.[...] Chiedeva al suo editore di non superare la tiratura di mille copie o, una volta che un titolo si esauriva, non concedendo più il permesso di ristampa. O arrivando al paradosso, successe da Einaudi con Un’ombra dietro al cuore, di ritirare, pagando, l’intera tiratura perché non venisse distribuito. Narratore, che ha fratelli in Bianciardi e Flaiano, in Delfini, ha sempre raccontato le illusioni, le debolezze che riducono alla sopravvivenza, le mediocrità quotidiane sullo sfondo della Storia, ma anche la passione civile, con una scrittura che dal neorealismo di stagione ha sempre cercato di scartare nella forma e nel tono, fino a spingersi sul terreno di un suo grande amico, Fellini, quello della visione di un mondo come “Varietà”, una scrittura di lustrini e dolenze, di nostalgia e cinismo, di confessione iperbolica. Ecco che il “milanista” Del Buono, amico e mentore dell’abatino Rivera, ha passato il suo tempo a divertirsi e divertire come attore e spettatore, sempre con quell’urgenza del fare, dello scavare, che è dell’isolano e del fuggitivo: un abate Faria che esplora la propria isola-prigione e ne cerca la via di fuga. Dall’Elba a Milano, per diventare il “mezzotoscano”, l’uomo di tutte le redazioni e gli incontri possibili, testardo e sfuggente, padrone di tutte le letterature d’Europa e delle curiosità che in esse si possono tradurre in altro. Uomo migratore da uno stadio a una sala cinematografica, da uno stabilimento tipografico a una direzione editoriale, con la leggerezza di un personaggio di Iannacci, uno che ha sempre portato le scarpe da tennis per essere veloce nell’Italia dei mutamenti, con la tessera del Pci in tasca e il dissenso sempre in testa. Perché è importante sentire, da uomo di isola, le correnti, il dissenso, i desideri di chi gli sta intorno, come ben sanno i suoi tanti lettori e corrispondenti quotidiani delle lettere alla “Stampa”.Un ascoltatore tutt’altro che consenziente, dialettico, provocatorio, ironico, severo. Un toscano intiero, un gran toscano. […] Il mitico zio Teseo Tesei, eroe della seconda guerra mondiale, disperso nel mar di Malta a dorso di uno di quei “maiali” di cui era stato progettista e gran sostenitore. Teseo, fratello di una madre così severa e patriottica che, indirettamente, lo costrinse ad arruolarsi volontario, qualche giorno prima della caduta di Mussolini, in Marina, così almeno avrebbe imparato a nuotare. Tutta la sua vita, parte della sua vita, è stata una tenzone contro lo zio e la madre, per dimostrar loro il volto dell’antieroe, del “mezzotoscano”, come si è autodefinito, che con le migliori intenzioni, visto che il Paese è quello che è, costeggia l’avanspettacolo e il grottesco, lo sberleffo e il tragicomico» (Nico Orengo, “La Stampa” 4/3/2003). «Se si pensa quale tempesta suscitò quando agli inizi degli anni ’90 fece pubblicare dalla Einaudi, allora ancora superbo tempio degli intellettuali di sinistra, Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano, si capisce ancora di più non solo il suo talento sofisticato, ma anche il suo fiuto commerciale: infatti sotto il travestimento di comici, gli autori Gino e Michele nascondevano/nascondono una finissima cultura, e il loro libro vendette più di un milione di copie, mentre romanzi di poco valore anche se considerati opera autoriale in quanto sbilenchi, pensosi e noiosi, restavano giustamente negletti nei retrobottega delle librerie. A furia di occuparsi dei suoi fumetti e del Milan, di traduzioni di grandi scrittori (almeno duecento, da Sartre a Gide, da Wilde a Yourcenar), dei suoi amati giallisti della “scuola dei duri", della celebre posta coi lettori della Stampa, di pubblicità sull’Espresso, e persino di play-station, Del Buono era riuscito quasi a distogliere l’attenzione dal vero cuore del suo ingegno più profondo, quello di narratore. Fortunatamente, proprio mentre lui, malatissimo, compiva [...] ottant’anni, i Libri Scheiwiller ripubblicavano, in un solo volume, i suoi due primi romanzi, qualche racconto e alcune microstorie. Fu, per molti, una scoperta emozionante precipitare nel suo mondo inquieto, in cui rivelava una sua dolorosa inadeguatezza agli altri e alla vita, una solitudine impenetrabile, e soprattutto un meraviglioso modo di servirsi delle parole. Pubblicati insieme, Racconto d’inverno, scritto nel 1945, narra il ritorno dalla tragica esperienza del campo di concentramento in Germania, e La parte difficile, che ha dato il titolo al volume, del 1947, riprende il tentativo nella Milano miserabile del primo dopoguerra di riallacciare i rapporti con la famiglia e gli amici, Elio (Vittorini), Marco (Valsecchi) e Domenico (Porzio). In seguito tutti i suoi romanzi, una ventina, da I migliori anni della nostra vita a La vita sola, rivisitano incessantemente una specie di oscura sua autobiografia che continua a ricostruire e dissezionare: i mitici litigi dei genitori nella loro casa all’Isola d’Elba, l’amore immenso per l’unica figlia, la vita da uomo solo, la meschinità degli ambienti di lavoro, una passione magica, rabbiosa e dolorosa. Ossessivo il suo perfezionismo letterario che, nel caso di Se mi innamorassi di te, gli fece mandare al macero per ben due volte il libro già stampato, nel ’74 e nel ’78, per accettarne poi la distribuzione solo due anni dopo. Del Buono ha sempre fatto finta di negare che l’io narrante di quasi tutti i suoi romanzi sia lui, scrivendo per esempio, con ironia dispettosa, in Per pura ingratitudine: “Naturalmente persone e circostanze di questo libro sono meramente immaginarie, e se qualcuno vi volesse riconoscere qualcosa di sé, si farebbe soltanto un torto. Ma l’autore confida che nessuno si riconosca in questo ritratto della banalità contemporanea: lui stesso comincia a dare il buon esempio non identificandosi nel protagonista: l’autore, infatti, non fuma”.Quello scostarsi dai suoi romanzi, con un pudore fatto di orgoglio e un eccesso di elegante masochismo, era anche un modo di rifiutare gli elogi sommamente dotti di una critica accigliata che li avevano paragonati a quelle opere di massimi geni, quali Alain Robbe-Grillet, Michel Butor, Nathalie Serraute, responsabili di quel nouveau roman fortunatamente dimenticato, ma che ai suoi tempi allontanò per sempre dai libri i lettori più volonterosi e fragili. Forse gli spiaceva anche di non vendere quanto i romanzi rosa, o i gialli che lui aveva accumulato nella famosa collana Mondadori. Ma ammirando moltissimo la genialità del lettore popolare, detestava i lamenti degli autori sfortunati: a Grazia Cherchi aveva detto una volta: “Non ci sono più scrittori sottovalutati. Sono tutti sopravvalutati dalla stessa definizione di scrittori”.Resta, impensabile oggi, come un comportamento mitico, il suo continuo trasmigrare da un giornale all’altro, da un editore all’altro, la sua incendiaria attività editoriale di inventore di collane: licenziato una sola volta, la leggenda metropolitana dice che mandò almeno un centinaio di lettere di dimissioni. Nel labirinto delle sue frustrazioni, aveva una sola vera malattia, la smania di lavorare (“Scrivo un articolo al giorno, la domenica due”), al punto di scegliere l’insonnia per non perdere tempo e occupare il più spazio possibile con la sua bulimica inventiva. E lo ha fatto sino all’ultimo» (Natalia Aspesi, “la Repubblica” 1/10/2003). «Ricapitolando com’era solito fare il corso della sua vita (una volta si era addirittura fatto il coccodrillo anticipando giorno e ora della sua morte), disse che il più grande risultato ottenuto era quello di essersi acquistato la qualifica di “inaffidabile”.Di essere sgradito a tutti, ai padroni e ai compagni, agli editori e agli ex amici. “Ce n’è voluto di lavoro per arrivare a questo” aggiungeva [...] L’ultima rottura clamorosa avvenne nel 1990-91: lui, OdB, come tutti lo chiamavano, lavorava all’Einaudi come direttore dei tascabili.Fra classici e autori del catalogo gli venne l’idea di inserire la raccolta di battute curata da Gino e Michele con il titolo Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano. Per quelli dello Struzzo fu uno scandalo, e tentarono ogni mezzo per impedirlo (per esempio cambiando la parolaccia del titolo, anche se era una citazione da Beppe Viola); OdB tenne duro, il libro fu uno dei massimi bestseller, ma i rapporti fra lui e l’Einaudi si chiusero drammaticamente. L’unico legame che invece ha resistito è stato con La Stampa. [...] Toscano dell’Elba ( era nato il 18 marzo 1923), ma residente a Milano fino dalla metà degli anni Trenta, del Buono aveva cominciato il suo curriculum con grandi ambizioni. Sul biglietto da visita che si era fatto fare alla vigilia del suo arruolamento in marina (24 luglio 1943: lui per primo ironizzava sul tempismo della sua decisione) aveva scritto “Critico letterario”.La prigionia in Germania, l’incontro con Elio Vittorini nella Milano del dopoguerra, la scoperta dei generi cosiddetti popolari e di consumo (il giallo, i fumetti, il comico), la passione militante per il calcio, anzi per il Milan: tutto questo servì a ridimensionare l’enfasi con cui aveva immaginato il suo futuro mestiere. A intervalli continuava a scrivere romanzi, che solo adesso cominciano a godere di una vera attenzione. Troppo tardi. Dove invece la creatività e l’influenza di OdB esplode e dilaga è nell’attività di operatore culturale (lui ci perdoni quest’espressione, che sommamente lo inorridiva), cioè dello scopritore che introduce nell’Italia provincial-democristiana i fumetti americani, i grandi autori di gialli come Hammett e Chandler (per qualche anno dirige i Gialli Mondadori), certa fantascienza, l’amore per la pubblicità e per la tv. E del cinema, con la rubrica sull’Europeo che ha fatto scuola. Nel ’65 comincia a collaborare con Linus, la rivista di fumetti appena fondata da Giovanni Gandini, che portava fra noi i ragazzini di Schulz, le avventure di Dick Tracy e le storie di Pogo. Il fatto che tutto questo venisse ritenuto poco serio, futile, a del Buono faceva solo piacere: in tempi non sospetti, era per lui un titolo d’onore. OdB grande esperto di cose poco serie, OdB inguaribile buffo, OdB sempre inaffidabile: dietro queste immagini un po’ fumettistiche era difficile veramente intuire la sua importanza. Era, per esempio, un eccelso traduttore (i francesi erano i suoi autori preferiti: da Gide alla Yourcenar fino a I samurai di Julia Kristeva) ma non faceva nulla per ricordarlo. Geniale scopritore di casi letterari, anche in editoria si copriva sempre dietro un understatement un po’ comico. Politicamente, poi, si dichiarava anarchico totale animalista e vegetariano, non avendo più la pazienza di stare a discutere su cosa vuol dire la sinistra. Negli ultimi anni amava definirsi un incrocio tra fascismo e comunismo, ideologie che avevano pesato tanto sulla sua vita: lo zio materno Teseo Tesei era morto su un motosilurante durante l’attacco italiano a Malta, e lui si era arruolato un po’ per debito familiare; all’indomani della Liberazione, tornato a Milano dalla prigionia, si trovò a piazzale Loreto davanti ai corpi di Mussolini e della Petacci per vedere un suo amico “che si era fatto fare dal sarto la divisa da partigiano”.Ma intanto dette scandalo in famiglia con la decisione di votare Pci. Alla domanda di quale fosse il film della sua vita, rispondeva: un montaggio dei film di Chaplin. “La mia vita si è svolta come in un film di Charlot, un po’ tragica un po’ ridicola”.Ricordando la bandiera rossa di Tempi moderni diceva: “Senz’altro è quella l’immagine che più mi rassomiglia: quella del comunista per caso che si trova collocato tra i nemici di classe per un’ironia del destino”.Negli anni Novanta aveva annunciato a tutti l’intenzione di lasciare Milano per l’Elba: lì c’era ancora la casa dei nonni, il grande letto scolpito da Adolfo Coppedè dov’era nato, e la tomba di famiglia, un monumento neogotico sempre di Coppedè. Il tentativo durò poco, in fondo lui era una talpa di città (questo era il titolo della sua bellissima rubrica per il Corriere) e così decise di tornare a Milano. Qui aveva ricominciato a fare lavoro editoriale, per la Baldini & Castoldi del nipote Alessandro Dalai. Poi, non volendo che morisse, si accollò pure la direzione di Linus. Insonne da sempre, passava le notti scrutando strane cose sui canali tv, sentendosi minacciato da tutti gli strumenti che la tecnologia gli metteva a disposizione. Alla fine, se ne era andato a Roma [...]» (Ranieri Polese, “Corriere della Sera” 1/10/2003). «A Oreste del Buono è successa una cosa che a qualche scrittore a volte succede. È diventato un personaggio: non un personaggio suo, uno di quelli che popolano i suoi romanzi e i suoi racconti. Ma uno tutto diverso, uno addirittura opposto. Se del Buono era il dottor Jekyll, un uomo malinconico assorto concentrato nel proprio lavoro di devoto della letteratura, il suo Mr Hyde era multiforme, ironico, perfino sbarazzino. Questo secondo, tra noi italiani che, come lui diceva, più di ogni altra cosa odiamo la morte e dunque l’uniformità, finì con il prendere il sopravvento. Noi italiani, diceva del Buono, meno della morte, odiamo solo l’ironia. Come accadde che a lui l’ironia fu perdonata? In effetti non gli fu perdonata per niente. Il dottor Jekyll era abituato a correggere la malinconia con l’ironia: credeva nella letteratura, ma fingeva di non crederci; e, comunque, non nella sua. Così, l’ironia la travasò a piene mani nell’altra vita, nella vita del suo personaggio, colui che poco a poco lo detronizzò. Come successe, poniamo, a Pasolini, con la differenza che il personaggio di Pasolini somigliava tremendamente al suo autore, in Pasolini non c’era ironia, non c’erano ambiguità o duplicità. Il Mr Hyde di del Buono era dotato di un codice di comportamento attraente come a pochi personaggi fu concesso in sorte. Se si legge il ricordo del giornalista sportivo Beppe Viola, scritto d’apertura di uno dei suoi libri più belli, Amici, amici degli amici, maestri..., in poche pagine c’è l’intera galleria dei suoi vizi, o delle sue passioni: gli amici desolati come lo stesso Viola, i libri, le corse dei cavalli, il giornalismo, il raccontare storie (Viola in quest’arte, diceva del Buono fu secondo solo a Giancarlo Fusco), i fumetti, il calcio, il jazz e, supremamente, fino alpudore, la figlia, lo zio Teseo Tesei, medaglia d’oro a Malta e protagonista di tante sue storie, e una umana qualità che, se del Buono stesso la aveva, seppe dissimulare come nessun altro: la rabbia. Scorrendo l’indice di questo libro, dedicato ai maestri e agli amici, si scopre che la rabbia è l’ingrediente decisivo della sua ammirazione. Ma se lui, personalmente, ne fosse dotato non saprei dire. Quando mi capitava di incontrarlo, fin dalla prima volta, novembre del 1963, non ne vidi mai traccia. Mi sembrava “troppo buono”, non solo con le donne, come avrebbe detto Queneau, ma con il mondo. Lo testimoniava l’ironia: di tanto in tanto gli scappava la battuta pungente, una battuta che cadeva nella conversazione come se non fosse stata neppure pronunciata, come fosse non un giudizio ma un luogo comune, un’ovvietà. Inutile dire che nei romanzi era lo stesso: rabbia? Non ve ne è traccia. Il mondo di del Buono è un mondo dolente, vulnerato (dal fascismo e dalla guerra prima e dalla delusione del miracolo italiano dopo), un mondo essenzialmente musicale, che ha cioè dissolto ogni significato esplicito, ogni rivendicazione possibile; o un mondo nel quale il grigio mitico della sua Milano, quella degli anni Cinquanta e Sessanta, era come un’aureola, fino a trasformarsi in una specie di splendore, in un che di rilucente. I giovani lo hanno amato come pochi altri padri della generazione dei nati negli anni Venti perché si era, del suo Mr Hyde, fatto uno scudo. Agitava lo scudo dello sport, della lealtà sportiva; o il colore sempre gentile dei fumetti; o la sagacia mai maligna dei malinconici. La sua grandezza, come quella di tanti coetanei, fu d’essere non solo uno scrittore ma, suo malgrado, un educatore. Insegnò che la letteratura è tutto; e, nello stesso tempo, ” struggentemente nulla”.Accanto alla letteratura, e oltre, c’è la vita. Ci sono i suoi libri, da quelli per così dire neorealistici, La parte difficile o Acqua alla gola, a quelli musicali e più belli, Per pura ingratitudine e Né vivere né morire, a quelli memorialistici, Amori neri , La nostra classe dirigente. E c’è la sua vita, il suo personaggio: la sua lezione milanese, la mitezza, l’editoria, i fumetti, il cinema, la televisione (“dove c’è la televisione c’è un cuore”); la sua lezione romana, il disincanto (studiò a Roma, dove è morto); la sua lezione toscana, un uomo così sottilmente beffardo da risultare inavvertibile, una così smisurata rabbia da allontanarsi da sé, come un’isola, l’Elba dove era nato, dal resto d’Italia o del mondo» (Franco Cordelli, “Corriere della Sera” 1/10/2003).