Varie, 22 febbraio 2002
DEL NERI Luigi
DEL NERI Luigi (Delneri) Aquileia (Udine) 23 agosto 1950. Allenatore. Lanciato dal Chievo (e, prima, dalla Ternana, che aveva portato dalla C2 alla B). Nel 2004/2005 avrebbe dovuto prendere il posto di Mourinho sulla panchina del Porto campione d’Europa, ma fu misteriosamente cacciato prima dell’inizio del campionato. Si accasò allora alla Roma, in sostituzione del dimissionario Völler, ma dopo pochi mesi si dimise pure lui (sostituito da Bruno Conti). Nel 2005/2006 al Palermo. Nel 2006/2007 riuscì a salvare il Chievo, nel 2007/2008 e nel 2008/2009 sulla panchina dell’Atalanta, nel 2009/2010 condusse la Sampdoria al quarto posto (qualificazione ai preliminari della Champions League), nel 2010/2011 allenò la Juventus (7ª e fuori dall’Europa) • «In poco più di quattro anni, era arrivato sul tetto del calcio europeo per poi precipitosamente volare di sotto. [...] la chiamata del Porto campione d’Europa metteva a tacere le voci che lo volevano alla nazionale italiana o a quella nigeriana, all’Inter o alla Juve. Poi la mazzata. Via dal Porto, senza neppure cominciare il campionato. E in Italia, dentro il calcio-scommesse. Accusato di “omessa denuncia” e successivamente prosciolto: un’ombra gettata su di lui e sul Chievo che era stato adottato da tanti come squadra simpatia. Nel 2000, quando Campedelli lo volle ad allenare il piccolo club veronese, Del Neri era un allenatore disoccupato che aveva rinunciato a un buon posto ad Empoli per contrasti tattici con la squadra. Cosa da tener presente per comprendere il personaggio. Ex mezzala di Forlì, Spal, Udinese, aveva cominciato la sua carriera di tecnico in Sicilia col Partinicaudace in Interregionale, proseguendola poi in serie C con Teramo, Ravenna, Novara, Nocerina e Ternana. Col Chievo, promosso in A al primo colpo, fece il botto. La sua fortuna mediatica sta in una battuta felicissima, ripetuta per tutto il primo anno in cui il Chievo volò nelle zone alte della classifica: “Il nostro scudetto è la salvezza”. Ostinato come un industriale del nord-est, appena un po’ più simpatico del suo “compaesano e amico” Fabio Capello, dotato di un eloquio nervoso e spezzato che è una festa per comici e imitatori, Del Neri al Chievo faceva coppia fissa col presidente Campedelli, appassionato di calcio inglese e industriale dei panettoni. Uno Peter Sellers, l’altro Henry Potter. Invitato a insegnare ai manager del nord-est, cercato da tv e giornali, ebbe un vino battezzato col suo nome, onorificenze e premi vari. Fu coinvolto nel progetto di un film che Celentano avrebbe voluto girare sul Chievo: “Sono cresciuto con la via Gluck”, commentò felice. Per tutto questo, e molto altro ancora, il licenziamento subito a freddo dal club lusitano dopo appena 6 amichevoli, è arrivato come una mazzata sulla success-story [...] È stato malamente giustificato da una questione di ritardi agli allenamenti e aerei persi, e mai veramente spiegato. Salvo che il Porto, dal quale il tecnico Mourinho è fuggito rivelando di aver avuto minacce di morte, non è un ambiente facile. Ma nemmeno la Roma, alla quale il Porto assomiglia molto più che il Chievo, lo è. In Portogallo c’è stata addirittura una rivista che ha accusato Del Neri di razzismo per aver minacciato di tenere fuori squadra i giocatori neri. Difficile pensarlo di uno come lui che ha avuto in squadra due figliocci come Luciano e Manfredini. A Roma [...] non è ben vista la sua collaborazione con “La Padania”, giornale di cui è stato opinionista - si difende lui - soltanto in forma “amichevole”.Tra il razzismo e lo scontro nord-sud, che è un classico della cosmogonia romanista, ce ne corre. Ma lo stesso Capello, friulano come Del Neri e leghista confesso, ebbe a scontrarsi con la stessa ostilità tifosa quando annunciò (e poi smentì) che veniva a “cambiare la mentalità romana”. Se si aggiunge che Del Neri è legato alla Gea, la società di management che nella stessa cosmogonia è vista come una specie di malvagia Spectre, si capisce perché l’avvicinamento tra il tecnico e la società giallorossa [...] è così difficile. E fin qui andiamo solo sul simbolico. A Porto qualcuno aveva ipotizzato uno scontro inconciliabile tra un allenatore duro e protagonista, che non parlava neppure portoghese e i senatori della squadra. Altri avevano sottolineato la scarsa compatibilità tra un tecnico alla prima esperienza europea che fa del 4-4-2 la sua religione e una squadra di campioni e fantasisti come il Porto. “Paura di cambiare”, è stato l’unico commento di Del Neri. Ma il problema non è da poco. Sacchiano convinto, al limite del talebano, Del Neri è uno convinto che “nessun giocatore, allenatore è fondamentale. Lo è solo la società”.E che “la società è una famiglia” dove “l’allenatore è il solo leader”. Come questo si incarni nella quadratura geometrica del 4-4-2 è presto detto. La velocità è determinante (una volta citò Dinamismo di un footballer del futurista Boccioni come suo modello). Le ali sono fondamentali. La tattica del fuorigioco sistematica. “Bisogna usare i vecchi accorgimenti per fare qualcosa di nuovo - aveva spiegato - come fanno gli stilisti di moda”. Si attacca in sei (due punte, due ali, un centrocampista, il terzino di spinta), tanto che la “Gazzetta” a un certo punto parlò di 3-1-6, e si difende tutti. Squadra corta. Oppure: ci si fa un culo così, in allenamento e in campo. Di certo, Del Neri non ha la visionarietà del geometra di Fusignano. Ha mostrato qualche flessibilità giocando al Chievo con un 5-3-2 e annunciando che avrebbe potuto far giocare il Porto con una sola punta. Ai suoi critici ribatte: “Ho ottenuto buoni risultati con buoni giocatori. E se gli interpreti del modulo fossero ottimi?”. Il sospetto, però, è che condivida la stessa malcelata allergia di Sacchi per il ruolo di allenatore ridotto a selezionatore dalla logica dei grandi club. Diego, il talento arrivato al Porto dal Santos, lui lo vedeva bene centrale di centrocampo. Di Totti, a suo tempo, ha detto la stessa cosa [...]» (Alberto Piccinini, “il manifesto” 28/9/2004) • «Tutte le storie finiscono, ma prima bisognerebbe almeno viverle. Luigi Del Neri ci ha provato un po’, ma poi si è arreso davanti a una situazione da lui ritenuta impossibile. “Non posso ammalarmi per la Roma” […] Una Via Crucis lastricata di insidie, moduli obbligati, ammutinamenti, litigi, voltafaccia e clan, fino a definire, al suo solito amico “Trigoria, un inferno”. La Roma non aveva il portiere e i gol li prendeva lui. La Roma non aveva protezione in difesa e nessuna protezione c’era per lui, contro i tifosi che lo ritenevano l’unico sfogatoio autorizzato dei loro confusi rancori. Doveva capirlo dall’inizio che non sarebbe stato il suo anno: la storia col Porto finì prima di cominciare, quella con la Roma è terminata quando Del Neri si è improvvisamente accorto di essere solo contro tutti. Appunto, a suo modo di vedere, un inferno. E pensare che alla fine, l’unico con cui si è lasciato bene è stato il suo nemico Baldini. Il riavvolgimento rapido delle emozioni è un crocevia di tensioni e stress, come dire la comprensione di non potercela fare da solo. Il suo modulo era il 4-4-2, ma comprese benissimo che non poteva non giocare con il 4-3-3. E che fatica poi, insegnare la fase difensiva a Mancini. Voleva applicare una linea di condotta ferrea stile accademia di West Point, ma la disciplina non poteva valere per Cassano, reintegrato con la spinta della società, e poi per Panucci, altro caso impossibile da gestire. Mezza squadra gli ha giocato contro, quasi sempre e comunque […]. Con lui c’era Totti, soprattutto, e Mexes: ma il fuoco ha sempre covato sotto la cenere. Per battere la confusione massima Del Neri aveva grinta, voleva percorrere fino in fondo le sue idee, imporre la sua mano: ma senza un punto di riferimento in società, capace di dargli carta bianca, ogni passo era un salto nel buio. E questo è successo. Senza uno scudo, l’anarchia della Roma […] è stata massima. È cresciuta. Fino a farlo fuori per scoramento. Poteva essere un’altra storia? Forse. Nessuno l’ha difeso nella campagna contro la Gea che semmai aveva radici più recenti e forse più profonde. Nessuno ha preso posizione nel contrasto con i tifosi, certo stralunati e indecisi tra il risentimento verso Capello e la confusione di una stagione choc con guidatori sostituiti ad ogni curva tra Prandelli, Voeller, Sella, Del Neri e adesso Conti, un record mai avvicinato nemmeno da mangia-allenatori come Zamparini e Gaucci. Del Neri ha sempre atteso una presa di posizione diretta della società e soprattutto nei giorni prima e dopo il match fatale con la Juventus. Niente. […] Voleva costruire […] un miracolo Chievo in grande. Gli sono mancati gli esterni, ma anche una società alle spalle. […]» (Ugo Trani, “Il Messaggero” 15/3/2005) • «Un calvinista atipico, è disponibile all’utopia. Ha molto di Zeman tranne il risultato finale. Zeman è talmente coerente da far pensare che conosca solo il suo calcio. Del Neri con intransigenza spettacolare, vuole comunque portare i buoi dov’è la stalla. È figlio del suo tempo, conosce i ritmi televisivi, ha capito da un pezzo che per aver successo bisogna anche far finta che siano gli altri a dartelo. [...] Il calcio di Del Neri ha alcuni punti fermi che in un quartiere di Verona fanno sopravvivenza, nel centro di Roma diventano rivoluzione. Del Neri dice che il centrocampo non è il reparto dei reparti, ma solo il reparto di mezzo. Non si può chiedere troppo al centrocampo, non può attaccare, difendere e impostare. Ne deriva che la difesa deve sbrigarsela da sola. Dice Del Neri che quattro difensori, magari in linea, molto alti e pronti al fuorigioco, sono sufficienti perché gli avversari non attaccano mai in più di tre o quattro. E comunque la palla va intercettata molto prima che arrivi agli attaccanti. Il pallone “va rubato a livello tattico”. Attenzione perché questo non è semplice 4-4-2, normale gioco a zona o sereno possesso palla. Questo è un gioco irriguardoso e forse nuovo. Più precisamente viene usata la potenza di parole nuove per dire qualcosa di quasi naturale. Cosa vuol dire “rubare la palla a livello tattico”? Vuol dire saper essere là dove arriva il pallone. Del Neri dice che chi gioca al calcio in modo intelligente sa sempre dove andrà il pallone. Vede avanzare un avversario e decifra immediatamente. Se ci pensate, è molto vero. Chiunque di noi abbia giocato in qualunque campo di qualunque serie sa in anticipo dove può andare il pallone. E lì si sposta, spesso indovinando. La differenza dunque non la fanno la forza, la potenza o la muscolarità dei mediani, ma l’intelligenza del giocatore. Questa differenza fa sì che in mezzo al campo non si debbano avere due mediani, ma due giocatori di qualità, meglio se due ex trequartisti. Da qui il Perrotta-Corini. Io mi difendo mettendo in difficoltà con le mie mezzeali vere i mediani avversari. [...]» (Mario Sconcerti, “La Gazzetta dello Sport” 2/10/2004) • Gianni Mura: «Me lo ricordo da giocatore: più un 8 che un 10, per capirci. Corsa non elegante, un po’ ingobbita, piedi fra il discreto e il buono. Un onesto centrocampista». Ha giocato con Spal, Foggia, Novara, ancora Foggia, Udine, Genoa, Vicenza, Siena, Gorizia, Oderzo. «Sono nato a Aquileia, i campi dell’oratorio della Basilica erano spiazzi in mezzo agli scavi archeologici. A 15 anni sono entrato a lavorare alla Marzotto di San Giorgio di Nogaro, facevo il magazziniere. A 16 anni mi ha preso Paolo Mazza alla Spal [...] Mia madre casalinga, mio padre lavorava i campi, o faceva il muratore. In particolare, curava le vigne sulle isole della laguna di Grado, ogni tanto arrivavano i padroni per andare a caccia». Carriera da allenatore: Gorizia, Partinico, Teramo, Ravenna, Novara, Nocera Inferiore, Ternana, Empoli, Chievo. L’esperienza più brutta a Empoli: «Sì, potevo arrivare prima in A. Spalletti era andato alla Samp, chiamarono me. Dopo tre giorni avrei già voluto andarmene, dopo trenta me ne andai, prima che cominciasse il campionato. Non c’era feeling, diciamo così. [...] Sono stato fermo un anno e mezzo». Ricordo più bello: «A Teramo, avevo la squadra più giovane dalla A alla C2. C’era Enrico Chiesa, si capiva già chi sarebbe diventato. Finimmo terzi. Io più giù del quinto posto non sono mai arrivato». Un calciatore che gli piacerebbe allenare: «Del Piero, un grandissimo. Alla Pro Gorizia ho allenato suo fratello Stefano, un discreto mediano» (“la Repubblica” 2 novembre 2001).