Varie, 22 febbraio 2002
DELL’UTRI Marcello
DELL’UTRI Marcello Palermo 11 settembre 1941. Politico. Laurea in giurisprudenza, dirigente d’azienda, presidente di Publitalia, consigliere delegato di Mediaset, è stato tra i fondatori di Forza Italia. Eletto deputato nel 1996, senatore nel 2001, 2006, 2008 (Fi, Pdl). Il 29 giugno 2010 condannato in appello a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa (9 anni in primo grado) • «Certi siciliani non si liberano mai della Sicilia. Anche quando se ne vanno. il loro destino. partito tanto tempo fa ma quella Palermo non l’ha lasciato andare via. L’ha inseguito dappertutto. L’ha marchiato per sempre. così è finita dove era cominciata questa vicenda di crimine e di soldi che ha attraversato da un capo all’altro l’Italia e raccontato generazioni di boss in cerca di potenti sponde, è finita dove [...]vha abbandonato un ”posto sicuro” in banca e ha puntato tutto su Milano, tutto su Silvio ùBerlusconi. Lassù ha portato con sé amicizie, odori, misteri di una Sicilia che già allora l’aveva fatto prigioniero. L’anno è il 1974. Inizia lì l’irresistibile scalata di un oscuro impiegato di un’agenzia creditizia di Belmonte Mezzagno, uno dalle segrete frequentazioni che diventerà prima amministratore delegato di Pubblitalia e poi sarà tra i fondatori di Forza Italia. E lì inizia anche la mafia story di Marcello Dell’Utri scritta dai procuratori di Palermo. C’è una data precisa - il 5 di marzo - che segna l’origine di quello che sarà il suo processo, il primo atto d’indagine che porterà alla condanna per l’intesa con Cosa Nostra: è la sua lettera di dimissioni dalla Cassa di Risparmio. Meno di un mese dopo - il 2 aprile - è già a Milano all’Edilnord, segretario particolare del suo amico Silvio conosciuto negli anni dell’Università. Meno di quattro mesi dopo - il 7 di luglio - arriva ad Arcore anche Vittorio Mangano, l’uomo d’onore che veste come un lord inglese ma tutti chiamano ”lo stalliere”.Va a vivere pure lui a Villa San Martino, ufficialmente fa il guardaspalle a Berlusconi che teme sequestri per i suoi figli, è in contatto con la Cupola, quando la sua presenza comincia a farsi imbarazzante (investigazioni della Criminalpol) lo ”stalliere” lascia Arcore e si trasferisce all’hotel Duca di York dove dirige un traffico di eroina. il primo incrocio pericoloso, una connection tra Palermo e Milano e al centro c’è lui, l’allenatore della ”Bacigalupo”, squadra di calcio della borgata dell’Arenella. Da una parte serve il fedele amico conosciuto alla Statale, dall’altra incontra nei ristoranti milanesi boss come Stefano Bontate. A volte, al suo fianco, c’è pure Berlusconi. Ne parleranno 20 anni dopo i pentiti Antonino Calderone e Francesco Di Carlo. Ma cosa ci fa Marcello Dell’Utri con quei ”don”, cosa vogliono i ”siciliani” dal segretario particolare di quel costruttore che sarebbe diventato famoso? ” l’ambasciatore di Cosa Nostra nel più importante gruppo imprenditoriale del nostro Paese”, accusano i magistrati di Palermo quando aprono ufficialmente l’inchiesta sulle sue collusioni mafiose. la fine dell’inverno del 1993. Ma bisogna fare un lungo salto indietro per ricostruire - dalle carte dei procuratori - cosa accade tra il 1974 e il 1980 in quella Milano invasa da mafiosi. il 1976 quando Marcello Dell’Utri lascia all’improvviso il suo vecchio amico Silvio. Vuole mettersi in proprio, dopo qualche mese entra in affari con altri siciliani, c’è di mezzo l’ex sindaco Vito Ciancimino, c’è un avventuroso imprenditore come Filippo Rapisarda, ci sono un paio di rampolli dei clan Mongiovì e Cuntrera di Siculiana, all’epoca considerati dalla Dea (Drug Enforcement Administration) i gruppi più forti che gestiscono il traffico di stupefacenti nel Mediterraneo. Si chiama ”Bresciano Costruzioni” la società. E fa bancarotta. In quel periodo Marcello Dell’Utri entra ed esce da un’inchiesta sul riciclaggio: indagato e archiviato. Gli accadrà di nuovo una decina di anni dopo, denunciato dall’ex socio Rapisarda. Prosciolto ancora. Ma intanto torna da Berlusconi. Il vecchio amico è perseguitato da Cosa Nostra (’Gli volevano tirare il radicone”, racconterà il collaboratore di giustizia Angelo Siino, cioè volevano spremerlo fino in fondo) che accoglie il compagno di studi siciliano. Da quel momento ha inizio la sua inarrestabile arrampicata. il 1980 quando la voce di Marcello Dell’Utri corre sui fili del telefono. Sta parlando con ”lo stalliere”, Mangano gli propone ”un affare” e ”un cavallo che fa per lui”, Dell’Utri gli risponde che ci ”vogliono i piccioli”, il boss gli consiglia di scucirli a Berlusconi. Bisbiglia al telefono Marcello Dell’Utri: ”Quello n’sura”, quello non paga. Erano cavalli?, si chiedono gli investigatori di Milano. L’intercettazione si perde tra mille scartoffie e viene ripescata dieci e passa anni dopo. Proprio quando i periti della Procura accertano che, dal 1975 al 1983, 113 miliardi di lire di provenienza misteriosa affluiscono nelle casse della Fininvest. Soldi sporchi di mafia, secondo molti di quei 42 pentiti che trascinano nel gorgo Marcello Dell’Utri. Ufficialmente l’inchiesta si apre nel febbraio del 1993, subito dopo le rivelazioni di un collaboratore di giustizia che si chiama Totò Cancemi. Parla di ”interessi” della Fininvest nel risanamento del centro storico di Palermo, e di incontri di Totò Riina con ”persone importanti” dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio. La Procura di Palermo di Caselli, in una riunione segretissima decide di far convergere ogni investigazione su Dell’Utri in un fascicolo ”contenitore”, l’inchiesta numero 6031/94. Criptati sono anche i primi tre nomi iscritti nel registro degli indagati: M, MM e MMM. La prima M è il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, MM è Marcello Dell’Utri, MMM il boss Vittorio Mangano. La posizione di Berlusconi viene stralciata, dopo due anni il giudice per le indagini preliminari Gioacchino Scaduto archivia per ”mancanza di riscontri sufficienti”.I procuratori, tra il 1996 e il 1998, indagheranno per altre 4 volte sul premier e sui rapporti che secondo alcuni pentiti avrebbe avuto con Cosa Nostra. E per 4 volte archivieranno sempre. Morto il boss Vittorio Mangano, di quelle tre M ne rimane soltanto una: è Dell’Utri. in quei mesi che Silvio Berlusconi, sempre insieme al suo braccio destro siciliano, esce anche da un’altra indagine: quella della Procura di Caltanissetta sui ”mandanti esterni” delle stragi siciliane del ”92. una svolta nelle investigazioni, si scava solo sull’ex impiegato di Belmonte Mezzagno. Arrivano altri che ricostruiscono ai magistrati la ”penetrazione” di Cosa Nostra nel mondo imprenditoriale milanese. La Procura di Palermo indaga ancora nel passato. E scopre come avviene un ”passaggio di consegne” degli affari al Nord, come la mafia di Totò Riina e dei Corleonesi gestisce i rapporti con il suo ”ambasciatore” dopo l’uccisione dei capi storici, Bontate e Teresi. in quel momento che esce di scena ”lo stalliere” sostituito da Gaetano Cinà (l’altro imputato del processo di Palermo), uomo voluto dai nuovi boss. Rapporti che arrivano fino alla primavera del 1992. A Milano infuria Tangentopoli, a Palermo uccidono Falcone e Borsellino. Negli atti dei procuratori finisce la storia della nascita di Forza Italia. E poi quella di accordi elettorali. L’ultimo pentito che racconta è Antonino Giuffrè: ”Bernardo Provenzano ci disse che con Dell’Utri eravamo in buone mani”. il 1993. Giuffrè svela anche un patto: la fine delle stragi in cambio di una nuova politica giudiziaria e carceraria. ”Ma questo non è il processo a Silvio Berlusconi né a Forza Italia”, ripetono udienza dopo udienza i procuratori che indicano la nuova ”linea” al Tribunale. E puntano il dito solo contro di lui, contro Marcello Dell’Utri. Quando i giudici entrano in camera di consiglio, l’imputato si concede l’ultimo sfogo: ”Il procuratore Grasso quando era giovane giocava nella mia squadra, la Bacigalupo. Ed era famoso perché a fine partita, anche quando c’era fango, lui usciva sempre pulito senza sporcarsi mai”.Ci sono siciliani che non si liberano mai nemmeno di un certo linguaggio. Neanche dopo trent’anni» (Attilio Bolzoni, ”la Repubblica” 12/12/2004) • «Dalla lectio magistralis tenuta per l’inaugurazione di un circolo di Forza Italia. Macerata, novembre del 2002: ”Primo: non parlare mai, avvalersi sempre della facoltà di non rispondere. Secondo: non patteggiare mai, salvo che si venga colti in flagranza di reato. Terzo: non mancare mai alle udienze, se no il giudice si sente snobbato e l’avvocato non si impegna. Quarto: seguire i consigli dell’avvocato solo quando la pensa come voi, anche se è un principe del foro. Quinto: far passare più tempo possibile, perché il tempo è galantuomo. E magari, nel frattempo, muore il Pm o il giudice, o un testimone... ”.Se Marcello Dell’Utri avesse potuto abbandonare la sua lingua per strada, farla riparare in Svizzera o anche chiuderla in un convento spagnolo di gesuiti, adesso sarebbe l’uomo più felice del mondo. la lingua che - intercettata o meno - ingarbuglia la sua vita duplex: di qua Platone e di là Vittorio Mangano, di qua i piccioli e di là il De bello gallico. Esempio. Anni fa trascorse tre settimane in carcere ad Ivrea. Da uomo colto e sensibile illustrò l’accaduto alla stampa: ” stata una straordinaria esperienza di libertà. Mi sono sentito libero da impegni, segretarie e appuntamenti. Nel carcere, che ha ereditato la biblioteca Olivetti, ho letto di tutto in santa pace”.Perciò - quando il 13 aprile del 1999 la Camera fu riunita per approvare o negare una seconda richiesta di arresto - i colleghi di Forza Italia, in primis Berlusconi (che sfogò il suo nervosismo battendo la penna a scatto sulla cartellina azzurra), temettero il disastro. Vuoi vedere che intende aprir bocca? Infatti. ”Posso avere l’ultimo bicchiere d’acqua”, chiese Dell’Utri all’allora presidente Violante. ”L’ultimo di questa giornata vorrà dire...”.Quando Marcello ebbe chiuso il suo intervento e messa la lingua in garage, un compagno di partito si portò un fazzoletto bianco alla fronte e sibilò: ”Altri sette minuti così e la galera non gliela toglieva nessuno”.Ma la verità non finisce mai dietro la prima curva della vita. A Dell’Utri, che ha trascinato nelle casse Fininvest migliaia di miliardi, guadagnandosi a buon titolo il posto d’onore nell’al di là di Arcore - gli è stato infatti assegnato un megaloculo nel Mausoleo brianzolo - Silvio Berlusconi deve molto di più di quanto dica in pubblico. E tra quel tanto, deve a lui se oggi c’è Forza Italia. Se esiste è perché l’ha voluta la mente di velluto e il doppiopetto grigio del dottore palermitano; se è riuscita a metterla in pista in meno di quaranta giorni (e portarla a vincere le elezioni!) è perché Dell’Utri ha messo a disposizione i migliori venditori di Pubblitalia. Al presidente il signor Dell’Utri ha consegnato una squadra affiatata e aggressiva, giovane e rapace come un’aquila. Ai venditori commerciali ha affidato ”il kit del presidente”, all’epoca perfino trendy: spille, coccarde, più un agile pamphlet. E poi molte foto e molti sogni. La forza, il ruolo che quest’uomo ha occupato nei giorni tribolati della discesa in campo non sono lontanamente paragonabili ai meriti che altri consiglieri vantano oggi. Eppure nel saliscendi di questi anni, il suo nome non è mai figurato tra gli undici titolari. Indispensabile, certo, ma in panchina. Mente straordinaria ma porte sbarrate al governo. Organizzatore irraggiungibile, ma niente partito. La sua lingua ha iniziato a innervosirsi: Cesare Previti? ”Previti è venuto dopo, se permette”.E Claudio Scajola? ”Tra di noi la distinzione è totale. Scajola è un politico di vecchia militanza dc. Io non ho mai fatto politica. E su Scajola non ho nulla da dire. Né bene né male. Non è che gli sia molto amico”.Allora Bondi. ”Un ex comunista che si è convertito. Talvolta, parlando di Berlusconi, esagera”.Può permettersi di dire questo. E ancora altro. Può giungere dove altri nemmeno si sognerebbero. La sua vita doppia gli conferisce un potere che quasi ammutolisce Berlusconi. Quando parla Dell’Utri, Silvio zittisce. Il presidente del Consiglio non ha mai nemmeno ritenuto di dire una parola ai pubblici ministeri palermitani in difesa del suo amico. Fu convocato in Sicilia, ma lui si è rifiutato di andare. I magistrati hanno provato a bussare a palazzo Chigi: le domande che gli hanno consegnate non hanno ricevuto risposta. Si è infatti avvalso della facoltà di non rispondere. E [...] richiesto di un commento dopo la condanna dell’amico, ha replicato: ”Non commento”.Troppo silenzio. Troppo speciale il rapporto nato sui banchi della Statale. Fatto di grandi e di piccole cose. Le piccole: grazie a Marcello i prossimi agosti in Sardegna saranno resi più gradevoli agli ospiti di villa Certosa. ”Mi ha detto che gli piacerebbe qualche lettura di Platone. Vedremo che si può fare”.E le grandi cose. Chi ha chiamato in pista i giovani per ridare linfa a un partito appisolato e grasso? Dell’Utri. I giovani (i ”mercenari”, secondo Prodi) saranno la nuova ”onda azzurra”.Dell’Utri li selezionerà. Guarderà ciascuno negli occhi e spiegherà il senso della vita: ”Un mio antenato era un poeta arabo dell’ottavo secolo, si chiamava Giamil Al-Udhri. Da lui ho imparatto a credere nell’ineluttabilità del destino: fai quel che puoi, accada quel che deve”.Fai quel che puoi Marcello. E soprattutto, ricorda e fai ricordare la prima regola per avere successo: tenere sempre la bocca cucita» (Antonello Caporale, ”la Repubblica” 12/12/2004) • «Si combinano i soliti slogan liquidatori. Non esiste il reato, il ”concorso esterno in associazione mafiosa”.Non esistono le prove, se si escludono le intossicazioni dei ”pentiti”.Come ci può essere responsabilità? Non ha tenuto, quindi, bordone a Cosa Nostra. Marcello Dell´Utri diventa in questo quadro manipolato il martire di un’aggressiva giustizia politica, ”segnato” irrimediabilmente da una ”fatwa” dei ”delatori” di Cosa Nostra (parole della difesa). Nella ricostruzione messa insieme alla svelta fluttuano tempi, luoghi, cose, persone, eventi. Non ci si orienta. Appare incomprensibile una condanna così grave - nove anni - a petto di niente, a petto di un vuoto. Al più, sembrano dire gli ufficiali liquidatori, l’artefice di Publitalia ha patito qualche contatto infelice, come capita a chiunque sia nato o vissuto in Sicilia. Non è così. Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa esiste, e sorprende che se ne meraviglino legislatori e uomini di governo. un reato che per anni ha provocato - è vero - contrasti accademici e controversie giurisprudenziali e proprio a Palermo - va detto - è stato maneggiato con qualche disinvoltura da pubblici ministeri e tribunali per la sofferenza di imputati risultati poi innocenti. Fino a che, nell´aprile del 2003, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, quindi al massimo della sua autorevolezza, ne ha messo a punto i principi. Leggiamo. ”In tema di associazione di tipo mafioso è configurabile il concorso ”esterno’ nel reato per la persona che fornisce un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario”.Non importa, dicono i giudici, che il contributo sia ”occasionale o continuativo”.Quel che conta, sostengono, è che sia ”rilevante ai fini della conservazione e del rafforzamento dell’associazione”.Ecco, dunque, che cosa il processo doveva dimostrare o negare. Marcello Dell’Utri ha offerto un sostegno ”concreto, specifico, consapevole e volontario” per difendere e accrescere il potere e le fortune di Cosa Nostra siciliana? I giudici devono essersene convinti. In attesa della motivazione della sentenza, è ragionevole pensare che abbiano ritenuto fondata la ricostruzione dell’accusa. Vediamola. Dell’Utri è stato l’’intermediario” fra Cosa Nostra e il gruppo di Silvio Berlusconi. Ha svolto un lavoro di ”ausilio, sostegno e rappresentanza degli interessi di Cosa Nostra”.Ha mediato e risolto, di volta in volta, i non pochi conflitti nati tra le ambizioni di Palermo e la disponibilità di Milano. Anzi, proprio il suo ruolo di ”artefice delle soluzioni” gli ha permesso di occupare un ruolo decisivo alla destra del Capo. Non si comprende il ruolo di Dell’Utri se non si crea una correlazione tra le pressioni scaricate dai mafiosi su Berlusconi e le mediazioni e gli incontri organizzati da Dell’Utri. Il patron di Fininvest, negli anni Settanta, è minacciato di sequestro (si tenta di rapire a mo’ di dimostrazione un suo ospite). Gli piazzano una bomba in via Rovani nel 1975 e ancora nel 1986. Negli anni Novanta tocca alla Standa subire in Sicilia, a Catania, un rosario di attentati e, nel 1993, per un soffio si salva la vita Maurizio Costanzo, influente consigliere di Berlusconi, contrario alla ”discesa in campo” del patron della Fininvest. Allo sbarco in politica Cosa Nostra era ”favorevolmente interessata”.Ora alla sequela di pressioni, minacce, intimidazioni bisogna sovrapporre, per valutarne il ruolo, il lavorìo d’ambasciatore di Dell’Utri. Organizza l’incontro tra Berlusconi e i ”mammasantissima” Stefano Bontade e Mimmo Teresi per ”rassicurarlo” dal pericolo dei sequestri. Fa assumere Vittorio Mangano ad Arcore, come stalliere, per cementare ”un accordo di convivenza con Cosa Nostra”.Cerca di capire che cosa accade e che cosa si nasconde dietro l’attentato a via Rovani. Incontra, nel 1990, i capimafia catanesi e, soprattutto, Nitto Santapaola, della combriccola il più pericoloso e potente, per risolvere i problemi degli attentati alla Standa. Dopo quell’incontro, non ci saranno più bombe. ancora Dell’Utri ”il protagonista di una trattativa politica del ”93-’94 con Cosa Nostra”.’Fatti obiettivi e concreti e fatti provati”, dicono in aula i pubblici ministeri, ”provati non da chiacchiere, ma da testimonianze precise, talvolta di testimoni oculari, e da intercettazioni telefoniche, risultanze obiettive, persino documentali, fotografiche, filmate. Fatti, non teoremi né tesi precostituite, soltanto una precisa contestazione di fatti storici”.Il quadro probatorio avrebbe potuto essere addirittura più dettagliato e significativo se Silvio Berlusconi (’vittima di quelle minacce, di quelle intimidazioni, di quelle pressioni”) avesse offerto il suo contributo all’accertamento della verità e non si fosse avvalso, al contrario, della facoltà di non rispondere. In aula, durante la requisitoria, il pubblico ministero Antonio Ingroia esprime il suo ”rammarico istituzionale” per questa rinuncia. ”Ci attendevamo che il presidente Berlusconi desse il suo contributo di verità per chiarire alcuni ”buchi neri’, ad esempio, sull’assunzione e l’allontanamento di Vittorio Mangano da Arcore, sui rapporti con Dell’Utri, su certi anomali movimenti di denaro nella casse della holding del gruppo Fininvest?”.Eccentrica o ipocrita la pretesa del pubblico ministero. Se la ricostruzione del ruolo di Dell’Utri ha un fondamento (siamo soltanto al primo grado di giudizio), Berlusconi è consapevole - non fosse altro per lo stato di tensione che è costretto a subire nel corso degli anni - della pericolosità del suo collaboratore. Denunciarlo significa denunciarsi. Denunciare di averlo subìto e di aver subìto, con la sua presenza, l’attenzione e l’interesse della Cosa Nostra siciliana delle Famiglie di Palermo, prima; dei Corleonesi, dopo. Anche la più vaga delle ammissioni avrebbe confermato al tribunale quella sorta di ”assicurazione” con la mafia che Berlusconi ha siglato ingaggiando e promuovendo il suo ex-segretario personale e compagno di studi. [...]» (Giuseppe D’Avanzo, ”la Repubblica” 12/12/2004) • «Nel 1993 Berlusconi mi convocò ad Arcore e mi chiese: ”Come si fa un partito?”.’Che vuoi che ne sappia”, gli risposi io. Era preoccupato dall’avanzata di Occhetto. Aveva parlato con Martinazzoli e con Mariotto Segni, ma quelli non avevano capito nulla. Del resto, uno che si chiama Mariotto cosa vuoi che capisca […] Nel 1996 mi sono subito candidato, altrimenti mi arrestavano e andavo in galera. Se non mi avessero tartassato mi sarei occupato del partito, invece devo occuparmi dei processi[…] Sono al nono anno di combattimento giudiziario. Quando ne sarò uscito vorrò solo studiare, dedicarmi alla spiritualità. Fare il bibliotecario, ecco […] Avevo un’idea del partito da organizzare ”more militari”, esattamente come non lo voleva Berlusconi ma come si era fatto invece per il Pci e la vecchia Dc. Sono ancora convinto che sia questa la strada. Ero pronto, solo che mi hanno azzoppato[…] Al principio non pensavo che sarei stato aggredito perché mi accingevo ad organizzare il partito. Poi sono arrivate le bombe giudiziarie, mi sono difeso […] In Sicilia c’è un proverbio: se a ogni cane che abbaia gli tiri una pietra hai finito di campare. Io lascio abbaiare, non tiro pietre» (Concita De Gregorio, ”la Repubblica” 6/7/2002) • «Sta costruendo dentro Forza Italia un partito parallelo: il suo partito. Quello che gli servirà un giorno, se e quando ce ne sarà bisogno, a muovere le truppe. Ha cominciato con la proposta di un ”manifesto per la cultura”, presentato a giugno 2002 a Firenze. Non è stato accolto come uno snodo cruciale del dibattito sulle dottrine politiche, in verità, nonostante il senatore avesse mosso i due settori cardine su cui sa di poter contare: bibliofili e librai, che alimenta di iniziative e denari, e l’Opus dei. Da allora, comunque, i circoli culturali sono nati in Italia a ritmo esponenziale […] Che cosa facciano, per il momento, non si sa. Siamo comunque lontani dai fasti degli esordi, quando in due mesi - dal dicembre ”93 al febbraio ”94 - nacquero 6840 club Forza Italia di cui 288 in Sicilia, terra natale a cui il senatore è legatissimo. Diceva allora: ”Publitalia non ha contribuito alla campagna elettorale di Forza Italia: Publitalia ha fatto la campagna elettorale ed ha creato dal nulla il più forte partito italiano”.Erano un gruppo di ”amici”, al tempo. Soci, consiglieri, sodali. Scrive Emanuela Poli nel suo bel saggio per il Mulino, Forza Italia: ”Tale cerchia di persone includeva quattro ex manager Fininvest (Valducci, Spingardi, Codignoni, Del Debbio), i due vicepresidenti Fininvest Confalonieri e Letta, il giornalista Giuliano Ferrara, l’avvocato Cesare Previti e il presidente di Publitalia Marcello Dell’Utri. Il potere di cui queste persone godevano non aveva bisogno di formalizzazioni e legittimazioni aggiuntive che non fossero la consuetudine e la familiarità con Berlusconi”.Otto anni dopo la familiarità si è in taluni casi rafforzata, in altri diradata. Dell’Utri ha dovuto passare la mano sul partito, ”dovendomi occupare di fare l’imputato a tempo pieno”.Essere sostituito da uno Scajola qualsiasi, un ex dc di Imperia, un politico di seconda fila arrivato niente meno che a fare il ministro dell’Interno, non è mai stato il suo pensiero preferito del risveglio» (Concita De Gregorio, ”la Repubblica” 17/10/2002).