Varie, 22 febbraio 2002
DE MAURO Tullio
DE MAURO Tullio Torre Annunziata (Napoli) 31 marzo 1932. Linguista. Il maggior linguista italiano. Professore ordinario di Linguistica generale presso la Facoltà di Scienze umanistiche della Sapienza di Roma, è stato ministro della Pubblica istruzione nell’ultimo governo Amato (2000-2001). Membro dell’Accademia della Crusca, è autore di scritti specialistici e di volumi di linguistica teorica, linguistica greco-latina, storia linguistica italiana, semantica, semiotica, educazione e scuola. Fra le opere più significative Storia linguistica dell’Italia unita (1963), Minisemantica (1982), Idee per il governo della scuola (1995), Linguistica elementare (1998), tutte uscite da Laterza. Di recente ha ideato e diretto per Laterza il Grande dizionario dell’italiano dell’uso (sette volumi usciti fra 1999 e il 2003). Un’amplia bibliografia dei suoi scritti è contenuta nel volume Tullio De Mauro. Una storia linguistica (Laterza) curato da Petrilli, Piemontese e Vedovelli (2003) • «Una vita divisa fra cultura e politica, anche se in maniera diseguale. L’accento cade, certo, sul primo dei due vocaboli. Non va tuttavia dimenticata l’attenzione che riserva alla società. Soprattutto, non è da sottovalutare il legame che egli continua a ribadire fra le parole e la vita. Sono questi i termini di un bilancio, culturale ed esistenziale insieme. È stato ministro della Pubblica istruzione. Quella carica sembrava coronare una lunga passione per la scuola italiana, alla quale ha dedicato numerosi saggi. “Non riesco a pentirmi d’aver accettato quell’incarico. Ho potuto vedere dal di dentro come funziona quell’enorme macchina che è il ministero della Pubblica Istruzione, liberandomi fra l’altro da qualche pregiudizio. Molti hanno una pessima opinione della burocrazia e dei burocrati. L’avevo anch’io. Ho dovuto ricredermi. Ho trovato nel ministero funzionari e dirigenti impegnati, lucidi, attivi. Penso che in molti altri ministeri si possano scoprire sacche impreviste di efficienza. Questo significa che la classe politica deve fare i conti con se stessa, senza scaricare colpe su ipotetiche malefatte o scarsa disponibilità della burocrazia […] “Ho cominciato a studiare leggendo i libri di Croce. Considero perciò gli interessi civili e politici parte della vita di ognuno. Non esclusi - mi consenta - gli intellettuali […] Sarebbe follia considerare la lingua un fatto che riguarda soltanto gli scrittori. Riguarda tutto e tutti. Occorre naturalmente che, in materia di lingua, tutti siano liberi di esprimersi a loro giudizio, con il solo vincolo di farsi capire”» (Nello Ajello, “la Repubblica” 24/3/2002). « Più di mio padre, che con noi figli presenti parlava un italiano medio, talora forbito (come ho accennato scoprimmo tardi che riservava il dialetto ai colloqui con mia madre, che chiamava in dialetto affettuosamente marè o, senza abbreviazione, mammarè, e però qualche marè gli scappava detto a volte anche noi presenti), più di mio padre mia madre era fonte non solo di citazioni letterarie (a Dante, a Pascoli, devo aggiungere almeno i non rari richiami a Giusti e al favorito Stivale, per me prima fonte della storia d´Italia), ma anche di espressioni di base dialettale italianizzate. Nei casi di inconvenienti per cui si disperava ci diceva che si dava o si era data al diavolo e, se si sentiva colpevole, si dava la testa muro. Di persona assai irritata, prossima a esplodere per l’ira fino a quel momento repressa, diceva tiene i lapis a quadrigliè, espressione franconapoletana un po’ misteriosa che a me faceva pensare ai lapis, alle matite, ma che più probabilmente si riferiva alle pietruzze del mosaico disposte a quadrettino (ma non ho conferme filologiche di quest’ipotesi adulta, che, del resto, non toglie oscurità all’espressione). Allora, capivo che le matite erano in gran disordine. Quando mia sorella Rosetta aveva commesso qualcosa di assai grave (per esempio trangugiare di nascosto un intero coppo di zucchero, di cui era avida e, in piena adolescenza, probabilmente bisognosa) e al rimprovero materno rispondeva male, mia madre aveva un crescendo di epiteti che all’ineducato sbatter di porta di mia sorella poteva giungere al culmine: maleducata, vassalla, vassallona e, infine, vaiassa. (All’epoca mia sorella aveva circa quattordici anni: devo precisare che prima, e risulta qua e là da queste stesse mie note, e più tardi nella sua vita, è stata persona mite, dolce e perfino remissiva; e solitamente paziente e serena era mia madre: ma un’adolescente quattordicenne può fare saltare i nervi a Giobbe). Di qualcuno (spesso di me) che moveva troppo e troppo disordinatamente le mani facendo danni mia madre diceva: tiene l’artetica nelle mani o anche, aderendo ancor più al dialetto, dentro le mani, artetica, essendo la continuazione dialettale di (febris) artritica. Era usuale che un quadro, per lei, venisse appeso vicino al muro, espressione regional-dialettale comune, ma gravemente tabuata dagli studenti normalisti a Pisa negli anni Quaranta e Cinquanta: a loro amare spese lo scoprirono, uno dopo l’altro, i fratelli Sabino e Nino Cassese e cercarono di importare il tabù a Salerno, imponendolo alla loro famiglia irpina e alla sorella minore, Annamaria, diventata poi mia moglie. A mia conoscenza solo un altro irpino, Antonio La Penna, ha retto impavido al rullo compressore normalizzatore dei normalisti e, scrittore tra i più eleganti, ha continuato a parlare imperterrito un irpino reso per bontà d’animo appena comprensibile a chi è nato lontano da Atripalda, Nusco o Ceppaloni. Altri, da Carlo Muscetta, a Vittorio De Caprariis e Ciriaco De Mita e al simpatico Clemente Mastella hanno ceduto, invece, anche se non emendandosi al punto dei fratelli Cassese. Il richiamo a De Mita mi spinge a un’ulteriore digressione. Mio padre parlava un italiano medio anche nella pronuncia, ma non tanto da eliminare ogni traccia delle sue origini dialettali foggiane in qualche punto: per esempio, ed è il caso che De Mita ha reso popolare (ma le caricature che se ne facevano sbagliavano bersaglio), nella pronunzia delle z intervocaliche davanti a i semivocale derivate da una t intervocalica latina. La preziosa distinzione (preziosa per noi linguisti) tra azzione (con una zeta intensa e sorda, da latino actio) e nazione (con una zeta semplice e sonora, come in zero, dal latino natio), che l’italiano antico conobbe e che poi è in genere regredita e che l’ortografia ignorò e ignora, in un’area meridionale che dall’Irpinia si protende verso la Puglia si è invece conservata. E anche i ben parlanti, come mio padre e De Mita, dicono certe parole come nazione o pozione o paziente con una pronunzia che impressiona gli incompetenti e che viene confusa con le sonorizzazioni indebite in cui possono cadere i napoletani (guando per guanto, anghe per anche ecc.). [...] Arrivò dalla Francia, per incontrare dopo molti anni la sorella Tina, cioè mia madre, arrivò zia Giulia, con i due figli Liliane e Robert. Con lei, il francese entrò in casa a bandiere spiegate. Anzi, entrò già prima del suo arrivo. Mia zia aveva scritto a mia madre, non voleva stare in un hotèl (parola oscura), ma affittare per un mese un redesciossè, più comodo ed economico e adatto a Sgiorge, il marito Georges Rudloff, che l’avrebbe raggiunta di lì a poco e mal sopportava i saliscendi per le scale (a case con ascensore nessuno allora pensava: del resto la nostra casa, pur con appartamenti che prevedevano nientemeno che un bagno e doppi servizi, con i suoi cinque piani era del tutto priva di ascensore). Mia madre si mise alla ricerca e il redesciossè fu trovato in una via elegante di Posillipo. [...] Entravano fiotti di francese nel mio mondo linguistico» (da Parole di giorni lontani).