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 2002  febbraio 22 Venerdì calendario

Demme Jonathan

• Rockville Centre (Stati Uniti) 22 febbraio 1944. Regista. Premio Oscar per il Silenzio degli innocenti • «Nel cinema si vedono spesso, come nella realtà, serial killer che ammazzano gente innocente e lasciano famiglie distrutte, e sono film che a me non piacciono affatto. Credo che Il silenzio degli innocenti abbia fatto uno sforzo per cercare di spiegare che dietro ogni serial killer forse c’è un bambino profondamente ferito, violentato, picchiato, maltrattato, quindi c’è una qualche forma di collegamento fra la violenza sull’infanzia e gli adulti che più tardi nella vita provocano massacri e mutilazioni. Vorrei anzi che Il silenzio degli innocenti avesse trasmesso quel messaggio in modo ancora più forte, perché se giri un film, cioè fai spettacolo su questi personaggi, è responsabilità del regista raccontare la loro storia e cercare di spiegare cosa li abbia trasformati in mostri, come io ho cercato di fare spiegando cosa avesse portato il serial killer ad uccidere. Penso che i film sui serial killer abbiano quella responsabilità e però sono pochi i film che la sentono» (Silvia Bizio, ”la Repubblica” 15/10/2002). «Ricordo che anni fa mi cercò Gillo Pontecorvo, un maestro per me. ”Mi piace il tuo cinema. Perché non provi a fare qualcosa con il cuore?”, mi disse» (Maria Pia Fusco, ”la Repubblica” 12/11/2004). «Un regista che quando dirige un film è come se dirigesse un’orchestra. Tutto, nel suo cinema, è suono. Pensate al rumore delle labbra di Hannibal Lecter in Il silenzio degli innocenti o ai passi di Tom Hanks nell’ufficio di Philadelphia. E pensate alla canzone di Springsteen dello stesso film, o a Wild thing cantata da Sister Carol in Qualcosa di travolgente. Mai un suono appare per caso, mai una musica che sia soltanto ”commento sonoro”. Per Demme la musica è di più. ”Potrei dire addirittura che è il cinema stesso”, dice lui, ”nel senso che il matrimonio tra suoni e film è, per me, totale. Da bambino ero totalmente catturato dai film e dalle canzoni, quando avevo sette-otto anni ero incollato alla radio, conoscevo le classifiche a memoria e tutte le canzoni erano ’mie’, e allo stesso tempo mi facevo portare al cinema continuamente e vedevo tutto. Del resto il mestiere che faccio oggi mi permette di mettere insieme queste mie due grandi passioni [...] Credo che quando si filma la musica dal vivo ci sia il cinema nella sua forma più pura: non ci sono le illusioni del cinema, non ci sono trucchi, è tutto legato al processo creativo della musica stessa e alla possibilità della macchina da presa di raccontare quello che c’è oltre la musica. Penso che i grandi concerti filmati siano dei documenti, ma allo stesso tempo questi film raccontano una storia. Ho rivisto Woodstock di recente, ed era esattamente così, una storia, raccontata sotto molti punti di vista differenti, una storia collettiva e allo stesso tempo un concerto. Con Stop making sense illustravo la costruzione del suono in un concerto e ho pensato in questo modo il film seguisse una narrazione più psicologica. [...] La musica serve ad allargare il senso delle immagini e al tempo stesso a renderle più precise, la musica racconta quello che le parole e le immagini non possono dire. E poi, a dire il vero, con la musica quello che è bello diventa straordinario e quello che è accettabile diventa bello, per cui il suo peso in un film è enorme. Quindi ci lavoro molto. Per Philadelphia andai da Neil Young, avevo praticamente finito il film e diedi al suo manager una copia registrata. Volevo un inno chitarristico, qualcosa che prendesse il pubblico dei maschi eterosessuali e li portasse nel film, volevo la mia Southern man insomma. Neil invece mi ha dato una ballata bellissima e io ho pensato che sarebbe andata benissimo alla fine del film. Ma volevo ancora il mio inno chitarristico e allora ho chiamato Bruce Springsteen, ci siamo parlati e lui mi ha detto che voleva fare qualcosa d’importante. Ha visto il film e ha scritto una canzone in cui addirittura la chitarra non si sente. Ho ceduto, e ho pensato che Neil e Bruce si fidavano del film molto più di me e che non avevo bisogno di quel benedetto inno [...] Devo entrare nella loro testa, devo cercare di fare il film che loro vorrebbero e quindi in ogni situazione se a loro una cosa non piace io non la faccio. Ma per fortuna quelli con cui ho lavorato io sono dei geni, hanno grandi idee e la collaborazione con loro è sempre positiva. [...] cambio spesso, non per un progetto ma per caso, perché le sceneggiature che mi appassionano cerco di trasformarle in film. L’unico genere che ho duplicato è il thriller. Io avrei voluto assolutamente fare Hannibal, che invece fu girato da Ridley Scott. Avevo letto il libro appena uscito e avevo un sacco d’idee su come continuare la storia, volevo lavorare ancora con Hopkins e Jodie Foster. E invece non è andata così. Ma mi sono rifatto con The Manchurian candidate [...] Ho trovato il coraggio di fare i film che voglio senza i condizionamenti della standardizzazione delle major, con maggiore libertà. Per fare questo lavoro come vuoi con le major devi combattere. Sempre. Io mi sono stufato di combattere, non ho più la forza e la voglia di farlo, preferisco allora lavorare con budget più piccoli ma avere la possibilità di fare film migliori. In America oggi c’è una standardizzazione terribile dei prodotti cinematografici, ma c’è anche una fioritura di produzioni indipendenti, un mercato che diventa sempre più grande. Ci sono i documentari, che sono un genere che io amo moltissimo [...]”» (Ernesto Assante, ”la Repubblica” 8/6/2006).