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 2002  febbraio 22 Venerdì calendario

DI BELLA Luigi Linguaglossa (Catania) 17 luglio 1912, Modena 1 luglio 2003. Il fisiologo che con la sua terapia alternativa contro i tumori sfidò a lungo, alla fine degli anni Novanta, il mondo scientifico e quello politico • «Nuvola di capelli candidi, abiti e parole dell´Ottocento, vita da eremita: il rivoluzionario che fece tremare ministri e baroni somigliava a Geppetto più che a Che Guevara

DI BELLA Luigi Linguaglossa (Catania) 17 luglio 1912, Modena 1 luglio 2003. Il fisiologo che con la sua terapia alternativa contro i tumori sfidò a lungo, alla fine degli anni Novanta, il mondo scientifico e quello politico • «Nuvola di capelli candidi, abiti e parole dell´Ottocento, vita da eremita: il rivoluzionario che fece tremare ministri e baroni somigliava a Geppetto più che a Che Guevara. Ma un Geppetto faustiano, col fascino del sapiente che osa sfidare la Morte. Non la sua personale, che è riuscito a ghermirlo solo dopo 91 anni di vita; ma la Morte con la maiuscola, la Signora Invincibile, coi suoi presunti alleati terreni: gli scienziati interessati, i politici trafficoni, i medici invidiosi. Non morirai di questo male, il titolo della sua prima biografia, più che la promessa di un guaritore era la benedizione di un saggio ribelle. Un santo per i ventimila malati di tumore che in trent´anni sono passati nel modesto studio di via Marianini, alla periferia di Modena. La rivoluzione contro la morte abortì un venerdì 13, del novembre ’98, quando il direttore dell´Istituto superiore di sanità Benagiano declamò i risultati della sperimentazione di Stato sulla Multiterapia Di Bella: ”Decessi o peggioramenti, 89%; guarigioni, 0,8%”. Da quel giorno niente più cortei, niente più clamor di media. La fede nel cocktail miracoloso del fisiologo modenese tornò ciò che era stata fino a un anno prima: un culto fervido e sotterraneo. Per il professore non cambiò nulla: ”Nessun laureato è in grado di comprendere la mia terapia. La sperimentazione non ha valore”. Tornò a prescrivere la sua tetralogia di somatostatina, melatonina, retinoidi e vitamine, molte Asl continuarono a pagarne le spese, insomma tutto come prima: ma l´insurrezione delle barelle era stata scongiurata, le istituzioni erano illese. E a tutti andava bene così. In fondo anche al ”Dr Hope”, dottor Speranza per il ”Newsweek”. Per lui era solo l´ennesimo episodio sgradevole di una vita da solitario contro tutti. Contro il destino che lo fece nascere tredicesimo fratello a Linguaglossa, Catania, con un futuro da raccoglitore di nocciole. Contro il mondo accademico che gli negò la cattedra da ordinario, lasciandogli un rancore sfociato in complessi di persecuzione: ”Cercarono di uccidermi col veleno e con le sassate”. Una vita da misantropo, pochi sorrisi, meno svaghi: una sola vacanza (gita di un giorno a Redipuglia nel ’59 sulla Bianchina celeste), una sola volta al cinema (Biancaneve e i sette nani). Due figli allevati a bacchetta, moglie rassegnata al suo vero matrimonio, quello con ”il Laboratorio”, L maiuscola, palazzina costruita impastando il cemento con le sue mani, dove ogni giorno si recava in bicicletta, personaggio inconfondibile nella Modena anni Cinquanta (è il ”professor Debellis” di un libro di Guccini), aplomb inamidato come i suoi colletti capaci di intimorire anche i ribelli del ’68 che aprirono a lui solo la porta della facoltà occupata. Nel suo Laboratorio finì per rinchiudersi notte e giorno, per pranzo lattine di legumi bollite sui fornelli degli alambicchi, per letto un divano, per cavia se stesso. La morte per leucemia del figlio di amici gli aveva scatenato la voglia di sconfiggere il cancro. Con un´idea tutta sua: ”Il tumore è una forma di vita, chi cerca di distruggerlo distrugge anche la vita che lo ospita. Possiamo solo bloccarne la crescita”. Alla fine dei Settanta decise che sapeva farlo. Cominciò a vergare le sue ricette, gratis, nello studio zeppo di libri, col barometro ma senza lettino per i pazienti, tanto non serviva: Di Bella visitava i malati per ore, ma senza toccarli. Camice bianco su vestito gessato col panciotto, medico d´altri tempi, burbero ma paterno, abissalmente diverso dai primari frettolosi, i padroni della chemioterapia che lui disprezzava e non ne faceva mistero coi malati: ”Smetta con quella roba, la uccide”. Smisero a centinaia, poi a migliaia. Portavano via i bambini dai reparti. Si passavano la voce: vai a Modena, c´è uno che guarisce davvero. Code davanti al portone, appuntamenti bloccati, bivacchi strazianti di malati allo stremo: ”Io resto qui finché non mi riceve”. I medici ufficiali mal sopportavano il ”guaritore”, e fecero un passo falso: l´Ordine gli vietò di prescrivere la sua cura. ”Mandino i carabinieri, io vado avanti”, rimbeccò lui. Arrivarono le telecamere di Vespa, Costanzo, Mentana: di colpo Di Bella fu la star della speranza, il paladino dei malati convinti che la scienza avida non li guarisce non perché non possa, ma perché non vuole. la fine del ’97, l´autunno dell´impazzimento emotivo, del tabù infranto: la parola ”cancro” strillata in prima serata, le sfilate di malati terminali davanti al ministero, i pellegrinaggi alla mecca di Maglie dove il pretore Madaro ordina la cura gratis, la proliferazione di medici sedicenti dibelliani, e i politici, di tutte le famiglie ma più che altro a destra, pronti a cavalcare la tigre della ”libertà di cura”; e malati ”guariti” che piangono, e media che amplificano, e folle strabocchevoli riprese dai tigì in quella strada di Modena, e famiglie sul lastrico per pagare i carissimi farmaci, e il mercato nero della somatostatina; ancora, gli oncologi allarmati, gli scienziati indignati contro ”il mercato delle illusioni”, e il ministro della Sanità Rosy Bindi che li convoca tutti dicendo più o meno: questa è un´emergenza morale e di ordine pubblico, non sanitaria, c´è una mina da disinnescare, per cui fate uno strappo alle regole. Nasce così la sperimentazione più anomala che la farmacologia italiana ricordi, fuori dai protocolli abituali, organizzata in tre settimane e conclusa in sette mesi, dalla primavera all´autunno ’98, con 400 cavie volontarie e altre 2000 in osservazione, e alla fine la sentenza annunciata con sollevato ”rammarico”, subito contestata, ”hanno truccato le carte”, ma inutilmente, i media cancellarono il caso Di Bella così come lo avevano creato: in poche ore. Ci sarà un ”dopo Di Bella”? Il figlio Giuseppe, otorino, non fa mistero di ritenersi l´erede scientifico del professore. ”Mio padre ha sempre detto di non avere eredi”, lo ferma il fratello Adolfo, bancario, che ha dalla sua le associazioni dei malati. Una polemica condita di parole aspre e minacce di querele, chiusa solo al capezzale del morente» (Michele Smargiassi, ”la Repubblica” 2/7/2003). «Geppetto New Age. Piccolo chimico. Elfo. Padre ammirevole, impegnato costantemente nella ricerca scientifica del miracolo che nessuno ormai credeva possibile: trovare un lavoro a suo figlio. Ricerca, la sua, che scorreva tranquilla (aveva il suo orticello, i suoi alambicchi, le sue provette i suoi pazienti) finché il male del secolo non gli si presentò in tutta la sua devastante irruenza: la libera stampa. E fu metastasi. Triste. Trovato il lavoro (portavoce e, da un certo punto Porta a Porta) il figlio ha chiarito: se i pazienti vivono, la sperimentazione è stata fatta bene; se muoiono è stata fatta male» (’Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini”, 10/10/1998). «Dicono che in vita sua avesse riso solo una volta, tantissimi anni fa, a palazzo Venezia, dove il Duce premiava gli studenti più bravi d’Italia. Fu colpa di un ragazzo che, per l’emozione, invece di tendere gagliardo la mano destra levò alta e solenne la sinistra, andandosi poi a sfracellare (’la destra, la destra!”, suggerivano i compagni) in un doppio saluto romano che dava l’idea di un ladro arrestato: ”Mi arrendo”. Ma forse anche questa sua incapacità di ridere era solo una leggenda. Una delle tante nate intorno a un uomo che come pochi altri ha diviso l’Italia fino ad essere visto come un ciarlatano e un santo, uno stregone e uno scienziato. Così anomalo nella sua normalità da sintetizzare un mucchio di personaggi diversi ed ergersi a magnifico esemplare di italianissimo anti- italiano. Era un italiano tanto indifferente alla buona tavola e agli spaghetti da mangiare solo scatolette di ”legumi, fagioli, lenticchie, ceci, piselli”. Tanto estraneo ai miti del Ventesimo Secolo da non avere mai posseduto una tivù e neppure una radio [...] Tanto lontano dalla passione predominante, il calcio, da avere visto una sola partita in tutta la vita: Italia- Spagna a Bologna, quando aveva diciotto anni e in maglia azzurra giocavano Combi, Baloncieri, Orsi... E il grande Pepìn Meazza autore di una strepitosa battuta sull’ intelligenza incompresa: ”Non c’è niente di più umiliante, per un fuoriclasse, che vedersi parare un rigore da un portiere così cretino che non ha capito la finta”. Lui pure si sentiva incompreso. Anche se, certo, non poteva dire di essere stato sottovalutato da tutti. Nato nel luglio 1912 a Linguaglossa, sotto l’Etna, tredicesimo e ultimo figlio di uno ”sbrigafaccende” che aiutava i compaesani a ”fare le carte” richieste dalla burocrazia, preso sotto la tonaca protettiva di due zii preti che gli consentirono di andare al ginnasio, Luigino, che aveva il soprannome annesso a un fisico da Pollicino, si era fatto da solo vincendo anno dopo anno tutti i premi necessari non solo a mantenersi, ma a passare perfino qualche soldo alla famiglia. – Per arrotondare”, avrebbe raccontato molti decenni dopo a Vittorio Feltri parlando degli inizi fino alla laurea e alla cattedra universitaria a 27 anni, ”facevo il commesso in farmacia, un po’ anche il facchino, e in quel periodo collezionai 20 mila ricette compilate dai medici condotti che mi servirono per le statistiche e a comprendere le basi della medicina galenica”. Sempre mischiato, lui, la fatica fisica e il lavoro intellettuale, i muscoli e il cervello. Basti dire che un giorno, come ha raccontato Pierangelo Sapegno su La Stampa, prima di prendere la patente si presentò in un’officina e volle sapere tutto dei motori a scoppio e tanto in fretta si impadronì della materia che ”un mese dopo portò un suo disegno della testata a quattro cilindri”. Si costruì lui, da solo, con mattoni e cazzuola, la villetta al numero 45 di via Marianini, a Modena, che negli anni sarebbe diventata ”la grotta di Lourdes”, come dicevano i suoi nemici, del ”culto dibelliano”. Meta quotidiana, sotto un sole furibondo o sotto la pioggia battente, di un ininterrotto pellegrinaggio di gente sventurata che chiedeva aiuto. Un assedio tanto ossessivo da spingere il professore ad affiggere cartelli ultimativi al punto di sembrare impietosi: ”Si prega vivamente di non insistere e di non suonare il campanello”. Parole così sbrigative da stonare, in un uomo che si faceva vanto di essere diverso da tutti gli altri medici. Uno che non chiedeva soldi ai pazienti. Non accettava rimborsi dalle case farmaceutiche per finti congressi a Capri o a Puket. Non dirottava i poveracci nelle cliniche private. E come se tutto ciò non bastasse ancora a fargli apparire un’aureola di santità intorno a quel buffo capino bianco, sempre piegato di lato (capino che tutti i giorni lavava col sapone di Marsiglia) dedicava a ciascuno la cosa più preziosa che un malato chiede al proprio dottore: un’ora di tempo tutta sua. Questo era ciò che lo faceva amare dalla gente. Soprattutto quella disperata, che si era già giocata tutto, che non vedeva più davanti a sé che il buio e voleva aggrapparsi a qualcosa. Fino a costruire appunto quella che su Sette Cesare Fiumi chiamò – La leggenda del Santo Professore”. La leggenda di una specie di Padre Pio laico tutto dentro la scia di quel bisogno italiano, come ha scritto il Financial Times, di ”credere in un uomo fuori dagli schemi, artefice di miracoli, che curi l’incurabile”. Un impasto di genio e di semplicità che all’epoca in cui diventò immensamente famoso veniva cantato come un piccolo grande santo popolare. E questa diversità così amata dalla sua gente era, allo stesso tempo, il suo peccato di superbia: la convinzione di essere il migliore come medico, come scienziato, come uomo. Una convinzione che, negli anni, avrebbe espresso con sprezzante alterigia. Valga per tutte la risposta data a chi gli chiedeva un commento alla bocciatura del suo metodo di cura dopo la sperimentazione del ministero della Sanità: ”Non credo che sia tollerabile che della gente che si macchia di omicidi colposi tutti i giorni possa avere l’autorità di imputare al sottoscritto l’insufficienza di una determinata terapia”. E al cronista che gli ricordava come molti colleghi la pensassero diversamente, rispose: ”Esiste una sola verità: la mia”. Certo, i grandi oncologi non erano stati meno sprezzanti con lui. ”Ritrovo nel professor Di Bella le caratteristiche del cialtrone”, aveva detto Silvio Garattini. ”La cura Di Bella ha la stessa dignità dell’acqua di Lourdes”, aveva rincarato Claudio Verusio. ”Le cartelle cliniche che mostra per asserire la bontà del suo metodo hanno solo un valore aneddotico”, aveva chiuso Leonardo Santi. ”La cattiveria dei colleghi mi conferma ogni giorno di più nell’opinione che mi sono fatto”, rispose lui, ”E cioè: homo homini lupus, sed medicus medico lupissimus”. L’abisso era tale, tra chi ”voleva” credere e chi dubitava, che la spaccatura finì per essere perfino politica, con la destra schierata tra i sostenitori di Luigi Di Bella e la sinistra tra i dubbiosi. Tanto da far dire a Pinuccio Tatarella che pareva quasi che ”la chemioterapia fosse di sinistra e la somatostatina di destra”. Finché, prima di essere poco a poco inghiottita dal silenzio, la Grande Speranza non finì all’italiana. Con i dibelliani che mandavano in tivù un agente di viaggi come Ivano Camponeschi a spiegare agli scienziati i basocellulari, An che si appostava nella trincea della melatonina e un piccolo pretore di provincia di Maglie, Carlo Madaro, che scatenava l’iradiddio sostenendo che ”chi è malato ha diritto a sperimentare su se stesso tutti i farmaci del mondo” e per mostrar quanto poco fosse vanesio metteva in tivù cravatte da infarto con caimani fucsia su sfondo giallo paglierino. Un epilogo mediocre. Da bocca amara. Drammaticamente sproporzionato rispetto alla tragedia di tante persone. E un po’ ingiusto per lui, un piccolo uomo generoso che forse aveva torto, e ce lo dirà il futuro, ma certo aveva anche una visione alta e nobile dell’ essere medico» (Gian Antonio Stella, ”Corriere della Sera” 2/7/2003). Vedi anche: Francesco Merlo, ”Sette” n. 1/1998; Luigi Offeddu, ”Sette” n. 3/1998; Cesare Fiumi, ”Sette” n. 8/1998; Carlo Vulpio, ”Sette” n. 26/1998.