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 2002  febbraio 22 Venerdì calendario

Djebar Assia

• (Fatima Zohra Imalhayene). Nata a Cherchell (Algeria) il 4 agosto 1936. Scrittrice. «Prima ancora di essere la più famosa scrittrice magrebina, è una donna divisa. Già dal nome, anzi, dai nomi: Assia, in dialetto algerino, significa ”la consolatrice”, djebar, in arabo classico, ”l’intransigente”. E nel suo vero nome - Fatima Zohra Imalhayene - occultato per proteggere la famiglia al tempo del suo primo romanzo scandalo, La soif, la sete, nel 1957, c’è una radice semitica che indica lo splendore. Splendida e morbidamente intransigente lo è ancora, questa affascinante signora nata nel 1936 a Cherchell, vicino ad Algeri, protagonista della guerra d’indipendenza dalla Francia e prima donna algerina ad essere ammessa all’Ecole Normale Supérieure di Sèvres. Totem dell’intellighenzia araba progressista, icona dell’emancipazione femminile, instancabile autrice di saggi, poesie e romanzi, di opere teatrali e cinematografiche [...] pendolare fra Algeri, Parigi e New York, dove vive e insegna scrittura creativa all’Università» (Stefano Semeraro, ”La Stampa” 2/11/2001). «Cresciuta in un tormentato crocevia di lingue, lo stesso che riflette l´identità del suo paese, [...] narra gli spazi avventurosi e i tempi mobili del suo percorso nella scrittura: viaggio negli alfabeti di una civiltà stratificata e plurisecolare (’anche Sant´Agostino nacque nella mia terra”), identificazione sofferta nel sapere dell´altro, l´invasore, strumento di eversione per una donna plasmata dalla cultura musulmana. [...] pioniera dell´emancipazione femminile nel mondo islamico e icona dell´intellighenzia araba progressista [...] Nata nel 1936 a Cherchell, in Algeria, e trapiantata a New York (dove insegna alla New York University) dopo peregrinazioni tra Francia, Stati Uniti e Maghreb, Assja Djebar (il suo è un nom de plume: fin dall´esordio, a vent´anni, col romanzo La soif, occultò il vero nome per proteggere la sua famiglia), ha scelto di esprimersi in francese, la lingua del nemico: ”Per uscire allo scoperto, sfidare i silenzi dell´harem, coprire me stessa”. Per usare la lingua come un velo? In Queste voci mi assediano adotta spesso questa metafora. Può spiegarla? ”Quando si hanno due lingue, la sfera affettiva è radicata in quella materna, che nel mio caso è l´arabo. Ma in francese ho studiato e letto i classici: è stata la lingua della crescita intellettuale e quella in cui potevo cogliere più sfumature, restando tuttavia la lingua degli occupanti. Per questo nei miei primi romanzi il mio io interiore restava lontano, legato a un universo femminile che andava difeso dagli sguardi. Usare il francese come un velo ha significato separare il territorio pubblico dal privato. C´è un´analogia con quanto accadde alle scrittrici europee del diciannovesimo secolo. [...] Era negata loro ogni forma esplicita di autobiografia: non potevano raccontare senza schermi di finzione. La rivendicazione del rischio di esporsi giunse con Virginia Woolf, Elsa Morante, Ingeborg Bachmann, Christa Wolf? Quell´assunzione di rischio ha dato forza alle altre donne, ma ha reso le scrittrici più vulnerabili, in quanto autori, rispetto a quelle del passato [...] Come ho ricordato nel libro L´amore, la guerra, era mio padre a condurmi a scuola, e fu lui a farmi studiare eccezionalmente a lungo per una femmina algerina. Così sviluppai all´esterno, tramite il francese, una parte maschile di me. Il lato femminile restava in casa, dietro le persiane, accanto a mia madre velata, che non usciva mai. [...] In Algeria, prima dell´indipendenza, non c´erano scuole arabe, chiuse dai francesi fin dal diciannovesimo secolo. Nel mio villaggio alcune famiglie si unirono per pagare un maestro di Corano. Le sue lezioni occupavano il retro di un negozio di spezie: paludato nella veste tradizionale, ci faceva copiare i versetti e impararli a memoria. E col suo lungo bastone colpiva i bambini che commettevano errori. Ero l´unica femmina ammessa insieme alla figlia del fornaio. [...] Il berbero era la lingua che mia nonna parlava con i contadini che lavoravano nelle sue proprietà in montagna. Corrispondeva loro una percentuale, perciò venivano periodicamente a casa nostra per i conti. Mia nonna si occupava anche finanziariamente delle sue terre. Da sempre, nel Corano, la donna sposata ha il diritto di amministrare il suo patrimonio, senza ingerenze del marito. il solo punto in cui la donna musulmana ha avuto uno status più evoluto rispetto a quello delle donne occidentali. [...] Tra il ´75 e il ´77 girai un film, Nouba des Femmes du Mont-Chenoua, che nel ´79 vinse il premio della critica a Venezia. Feci sopralluoghi sulle montagne berbere, nella tribù di mia madre: per raccogliervi storie, in un ritorno alle fonti orali. Venni a contatto con un ”arabo delle donne” molto ricco: uno spazio clandestino, alimentato dalla segregazione sessuale e diverso dall´arabo ordinario - la ”lingua degli uomini”. Un luogo denso di reticenze, ritegni, sfumature segrete e sprazzi di lingua berbera, pronta ad affiorare nei momenti di forte emozione, come una lingua del rimosso. Il mio modo di scrivere è stato nutrito da quel film, assorbendo una sorta di quarta lingua. Da allora in poi il mio francese ha rivelato un´anima araba: a partire dal romanzo Donne d´Algeri nei loro appartamenti, il ritmo è cambiato, diventando più personale. La scrittura si è aperta alla possibilità di trasmettere zone più profonde di me. [....] Quando Boumediene, il colonnello che depose Ben Bella, parlava in tivù per quattro ore di seguito in arabo letterario, lo capiva il dieci per cento della popolazione. Fui la prima donna, in Algeria, a insegnare storia all´Università. Tre anni dopo l´indipendenza si decise che la mia materia andava insegnata in arabo. Protestai: si può decolonizzare la storia anche in francese, quel che conta è insegnare un metodo e uno spirito critico. Non fui ascoltata e lasciai il paese, senza smettere di viverci e di guardarlo nei miei libri”» (Leonetta Bentivoglio, ”la Repubblica” 4/3/2004).