22 febbraio 2002
Tags : Zoran Djindjic
Djindjic Zoran
• . Nato a Bosanski Samac (Bosnia) il primo agosto 1952, morto a Belgrado (Jugoslavia) il 12 marzo 2003. Capo del governo serbo. «L’hanno ammazzato nel centro di Belgrado venti ore prima che gli riuscisse il colpo decisivo. Un suo fido sarebbe diventato ministro della Difesa federale, dunque responsabile diretto d’un apparato militare finora tetragono nel proteggere tanto i suoi segreti quanto gli ufficiali ricercati dal Tribunale de L’Aja. Intendeva consegnare alla giustizia internazionale almeno un paio d’imputati, per lo stesso motivo per cui aveva consegnato Milosevic: dimostrare agli esitanti finanziatori occidentali che la Serbia era cambiata. Che era uscita dal suo passato. [...] Ultima vittima della mai spenta guerra jugoslava. L’ha ucciso un tiratore scelto, e anche questo ci riporta al passato: ai cecchini che in Bosnia s’allenarono a sparare sulla carne umana. Era appena uscito dal palazzo del governo serbo e stava per salire sulla macchina che l’attendeva nel cortile. Mattina di sole. Poi quei suoni simili allo schioccare d’una frusta, così inusuali a Belgrado, così familiari a Sarajevo. Tre tiri molto precisi, tutti nel torace. morto mezz´ora dopo in ospedale. [...] Apparteneva alla stirpe del re Obrenovic assassinato perché trescava col sultano. Nazionalista convertito all’Occidente, aveva da tempo rinnegato le sue origini politiche. Ma era stata una conversione laboriosa. Quando quasi tutta la Serbia era nazionalista, reclamizzava le sue visite a Pale, il sobborgo di Sarajevo dove Karadzic aveva stabilito il quartier generale. Non pareva colpito dal fatto che a 5 chilometri fossero al lavoro i cecchini, e tra loro forse il tiratore scelto che l’ha inquadrato nel suo binocolo. Quando Milosevic firmò, con gli accordi di Dayton, la resa in Bosnia, lo accusò d´aver venduto il sacro suolo patrio agli americani. Ma quattro anni dopo, durante la guerra del Kosovo, lasciò Belgrado e riapparve a Berlino, in quella Germania che bombardava la Serbia insieme alla Nato. Fu il cambio di fronte definitivo. Alla fine del 2000, d’intesa con gli occidentali, guidò la sollevazione popolare che spodestò Milosevic. Più esattamente ne fu il regista occulto. Concordò la decisiva non belligeranza dei temuti reparti antisommossa, i Berretti rossi, in origine milizie paramilitari utilizzate in Bosnia, più tardi inquadrate dal ministero dell’Interno, ma sempre in rapporti d’affari con la grande criminalità serba. Promise a quei lanzichenecchi l’impunità in Serbia e la protezione dal Tribunale dell’Aja? verosimile. Dopo la sua nomina a primo ministro, i Berretti rossi si mimetizzarono nella polizia. E il loro capo, Milorad Lukic, noto ai serbi come Legjia, il legionario, conservò la libertà malgrado l’Aja lo sospettasse di vari crimini in Kosovo. Un avversario di Milosevic, Vuk Draskovic, disse che proprio Legjia aveva cercato d’ucciderlo per conto di Milosevic. [...] Sorriso astuto, volto aguzzo. Alla minuscola confraternita antinazionalista non piaceva. Troppo furbo, troppo spregiudicato. In seguito si aggiunse: viaggia in quella zona grigia dove sbiadisce il confine tra la politica e gli affari; e gli affari nel tempo di Milosevic implicavano commistioni con settori del regime. Ma tra i tanti brav’uomini serbi che si prestavano alla politica, svettava per determinazione e intuito. Formidabile nell’arte di sopravvivere. Nel ’96, dopo il fiasco delle manifestazioni anti-Milosevic, sembrava al tramonto. Nel ’99, dopo la ”fuga” in Germania, tutti lo davano per finito. Nel febbraio del 2001 era primo ministro. Rappresentava al meglio la Serbia seminuova, miscela un po’ opaca di slancio democratico e cascami del vecchio regime. Ed ebbe lo straordinario merito di ridare la speranza a un popolo avvilito. Col tempo la diplomazia occidentale si confermò nell’idea che fosse l’unico in grado d’epurare gradualmente, senza scosse pericolose, le strutture del passato: l’Armata, le Forze speciali della polizia, alcuni apparati di sicurezza, e tutto quel mondo d´affari e malavita che gravitava intorno. [...] Da filosofo cresciuto nelle università tedesche, conosceva Machiavelli e probabilmente riteneva di praticare l’arte del Principe. Forse fu più prossimo al sanguinoso mondo di Guicciardini, dove il potere che giustifica ogni mezzo può condurre al trono ma anche alla tomba» (Guido Rampoldi, ”la Repubblica” 13/3/2003). «Si dice che i Balcani, più si conoscono e meno si capiscono. Balcanico, nel senso di controverso che si dà all’aggettivo, lui lo era di sicuro, con in più una vena borghese che gli derivava dagli studi in Germania e da un certo gusto per cose belle e buone maniere. [...] Prima di diventare primo ministro del dopo Milosevic, e primo capo non comunista di un governo serbo dall’era titina, era stato tutto e il contrario di tutto, con due sole ”coerenze”: l’ambizione per il potere e l’odio per l’uomo che in Serbia il potere lo ha più incarnato, Slobodan Milosevic. Liberale e nazionalista, sostenitore dei bombardamenti della Nato ma in precedenza favorevole alla guerra in Bosnia contro musulmani e croati, amico dei criminali serbo-bosniaci come Karadzic e feroce avversario del presidente nazionalista Kostunica, uomo del rinnovamento e dell’Occidente, ma anche attento alle tradizioni del Paese, europeista e balcanico appunto. Di certo era diventato anche l’uomo delle ”pulizie generali” dopo gli anni della corruzione di regime, dei clan mafiosi, dei delitti eccellenti che avevano sconvolto l’ultima fase dell’era Milosevic e l’inizio dell’era democratica. Non aveva però tutte le carte in regola per fare davvero piazza pulita e nemmeno la forza per combattere su tanti fronti nello stesso momento. Era al centro di una contesa politica e istituzionale sempre più esasperata. Ancora forti ambienti nazionalisti e socialcomunisti hanno considerato un tradimento la sua collaborazione con il Tribunale dell’Aja e un’umiliazione per il Paese la decisione di consegnare Milosevic: per una taglia nemmeno incassata e, nella sostanza, agli americani. L’uomo dell’Occidente e della Serbia ”europea” aveva anche dovuto fare i conti con clan e potentati economici in una fase di riorganizzazione, di afflusso di investimenti e prestiti, privatizzazioni, appalti. La coalizione eterogenea che aveva provocato nell’ottobre 2000 la caduta di Milosevic si era via via sfaldata, indebolendolo sul piano politico. Lui era nello stesso tempo l’uomo di maggior potere, essendo primo ministro, e il leader con il minor consenso, anche perché pochi in Serbia hanno finora visto i vantaggi della democrazia. Nato in Bosnia, come tanti serbi ”non serbi” che hanno fatto la storia tenebrosa del Paese in questi anni (da Karadzic a Mladic, da Arkan allo stesso montenegrino Milosevic), il giovane Zoran, che cresce a Belgrado, essendo figlio di un ufficiale, si distingue per le proteste studentesche e anticomuniste che gli costano l’espulsione dalla scuola. Prosegue gli studi in Germania, a Heidelberg. La notorietà internazionale arriva dopo la pace di Dayton, nel lungo inverno del ’96 che lo vede alla testa delle gigantesche manifestazioni contro il regime che, per mesi, paralizzano Belgrado. Gli sono accanto lo scrittore Vuk Draskovic (ferito poi in un attentato) e una femminista liberale, Vesna Pesic. La sfida per la democrazia si scioglie con la neve di primavera. La spallata è rinviata, ma lui conquista un pezzo importante del sistema di potere nella capitale, il municipio. La carica di sindaco offre subito il fianco a sospetti di corruzione e di compromessi sotterranei con il regime. Di sicuro cade nella trappola di Milosevic, il quale cede una poltrona simbolica all’opposizione e, nello stesso tempo, si preoccupa di prosciugare i flussi finanziari alle autonomie locali. L’anno dopo l’opposizione sembra a pezzi. Nelle casse del regime entrano i soldi dell’affare Telecom. In quei giorni a Belgrado si sussurra che lui avrebbe preferito aziende tedesche. Quando esplode la crisi del Kosovo, l’opposizione a Milosevic è messa di fronte ad una scelta traumatica, che accentua la sua debolezza e divisione: sostenere l’intervento della Nato, come fa lui, o diventare il Tarek Aziz del regime, come sceglie di fare Draskovic. Si rifugia in Montenegro, si lega temporaneamente ad un altro amico-nemico di Milosevic, il presidente Djukanovic, sponsorizzato dall’Occidente e dalla Marlboro, stando almeno alle inchieste sul contrabbando di sigarette. Il regime è moribondo, ma a provocarne la caduta sono altri eroi: studenti, operai, il nazionalista moderato (e abbastanza antiamericano) Kostunica, la società civile che cerca nuovi leader fra intellettuali e ed economisti. Lui è però il solo ad avere alle spalle, da sempre, un partito vero, strutturato. L’Occidente, che diffida di Kustunica, punta su di lui. Parla perfettamente tedesco, studia in fretta l’inglese. Ma nei Balcani continuano a contare altre lingue e altri codici» (Massimo Nava, ”Corriere della Sera” 13/3/2003). «’Se guido e devo andare dal punto A al punto B io non mi chiedo se seguirò sempre lo stesso percorso: anche se, poniamo, la direzione è verso Nord, in qualche momento potrò deviare verso Est o verso Sud affrontando le asperità della strada. L’importante è raggiungere la meta”: in un’intervista a ”La Stampa”, spiegava così la sua tortuosa avventura politica. [...] Una persona che sposando l’apparente modernità del linguaggio o degli stili (anzi, aggiornandola di continuo, come si fa nei ruoli moderni) aveva steso una mano di vernice modernista sul più intenso condensato di tutto ciò che il resto del mondo usa definire ”balcanico”. Ovverossia scivoloso, tatticista, mutevole, infido, bizantino. Laureato in filosofia con una tesi su L’autunno della dialettica, dopo una fase di eroismo giovanile aveva presto imparato a resuscitare l’arte delle parole, anzi a farne un’arma. Aveva trascorso anni in Germania e avrebbe parlato solo tedesco nei contatti con gli stranieri, tranne imparare un buon inglese commerciale non appena promosso primo ministro. Negli Anni Ottanta era stato fra i ”giovani turchi” del Partito democratico assieme a Vojslav Kostunica, lui a sinistra e l’altro a destra. Poco più tardi lo si ritrova a capo di ”Zajedno” (che in serbo significa assieme), la coalizione di tre partiti che contestando Milosevic portò nelle piazze di Belgrado quattrocentomila persone. L’alleanza era alquanto estemporanea, vedeva assieme Vesna Pesic, un’elegante signora liberale, un rude nazionalista come Vuk Draskovic e appunto il Djindjic ”multiuso”. Quando Zajedno conquistò il Comune di Belgrado, Djindjic e Draskovic assieme scandalizzarono una città pure abituata a tutto. Riuscirono ad assumere alla ”Skupstina” cugini, sodali, parenti di quinto grado. Niente paura, però. Zajedno si sfalda, e mentre Draskovic diviene alleato del Presidente che combatteva, Djindjic sposta le sue attenzioni sulla Republika Srpska di Bosnia: va a Pale, incontra Radovan Karadzic, si atteggia a campione dell’iperserbismo e continua ad attaccare Milosevic, questa volta da destra. L’emergenza cambia, le pressioni americane cominciano a farsi drammatiche ed ecco che Zoran Djindjic si erge, eroico come sempre, da un’altra trincea. Questa volta è in Montenegro (e comunque lontano dalla Belgrado bombardata) dove spergiura che il solo futuro della Jugoslavia è nel giovane presidente Milo Djukanovic. Un anno dopo i bombardamenti, si accoda a quanti hanno scelto Vojislav Kostunica come presidente della nuova Jugoslavia, e quando la candidatura passa si propone come ”manager”, ovvero primo ministro, del governo che dovrà rinnovare la Serbia. Pochi mesi dopo il ”manager” comincerà a combattere il simbolo fino al punto da consegnare Milosevic agli investigatori dell’Aia aggirando le competenze del Presidente federale. Eccoci a un punto che d’un tratto torna d’attualità, il Tribunale dell’Aia. [...] Da un lato chiedeva agli Stati Uniti e alla comunità internazionale di consentire il ritorno della polizia serba nel Kosovo per fermare il nuovo ”silenzioso genocidio” alla rovescia (contentino interno alle destre). Dall’altra, assieme al suo nuovo ministro degli Interni annunciava ”iniziative” che avrebbero rinnovato i servizi di sicurezza in vista di una nuova politica di collaborazione con l’Aia. Come a dire: ”Farò pulizia nei servizi di sicurezza e consegnerò al Tribunale tutti i serbi sotto accusa”. Seconda traccia è quella che si potrebbe legare alle attività che stava svolgendo approfittando in pieno del breve periodo di potere assoluto. Boicottato l’ex amico Kostunica facendo in modo che il quorum mancasse per due elezioni consecutive, esercitava al massimo le sue prerogative» (’La Stampa” 13/3/2003).