Varie, 22 febbraio 2002
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Dolce Domenico
• Polizzi Generosa (Palermo) 13 agosto 1958. Stilista • «Dolce e Gabbana, soci indissolubili nel lavoro (in privato, si dice, separati in casa), superata la quarantina, sono gli ultimi reperti della meravigliosa stagione della grande moda italiana: ”Noi veniamo dalla scuola di grandi maestri come Armani, come Versace, veri creatori, veri inventori, gente di autentica passione. Oggi non ce ne sono più, l´anonimato, anche culturale, accomuna i cosiddetti giovani stilisti: non basta portare l´orecchino e buttar giù un disegno, per fare questo lavoro con successo. Noi produciamo ogni anno, oltre agli accessori, circa 4800 modelli di abbigliamento donna e uomo, e li pensiamo e tagliamo uno per uno, perché prima di tutto siamo dei veri sarti. Poi vanno in produzione, ma prima sono passati per le nostre mani, e li abbiamo accarezzati, amati”. Certo, in vent´anni, il duo, che porta sempre jeans stracciati (Stefano ne ha in guardaroba una quarantina, però sbrindellati in punti diversi), ha avuto una carriera fulminante: partiti uno da Polizzi Generosa in Sicilia, l´altro da Milano stessa, mettendo insieme due milioni di lire di allora per cominciare, oggi possiedono insieme: tre sedi a Milano tra cui una nuova di sette piani pubblicata da riviste di arredamento dal fusion Mies Van der Rohe-maioliche di Caltagirone, il primo negozio al mondo per uomo su tre piani con abbigliamento, barbiere siciliano, istituto di bellezza affollatissimo, bar lussuoso, abitazione superricca in città, mitica villa anni Trenta a Roquebrune in Costa Azzurra, casa a Stromboli mozzafiato (come dicono le esperte di moda) e a Portofino stanno terminando di sistemare un´area con più case, che era in affitto a Berlusconi. Ma la padrona di quel paradiso, incapricciata dei due giovanotti e del loro amore per l´arredamento rococò-zebrato, ha preteso che fossero i soli a comprarla. In più la loro azienda è tra le poche che ha avuto utili record malgrado i tempi molto grami, che sconsigliano a molte signore di comprare a 1000 euro l´ennesimo paio di stivali di finto leopardo con tacco d´acciaio.[...] ”Ci volevano comprare, ci hanno offerto una barcata di soldi. Abbiamo capito il nostro valore e abbiamo detto no”. E hanno fatto bene, pensando alle angustie in cui boccheggiano i grandi gruppi finanziari che a furia di comprare marchi stracotti o a sentirsi padroni del mondo, oggi sono in affanno. Tutto il superfluo che negli anni hanno inventato, estasiando moltitudini di esibizioniste, oggi lo si vede, copiato, nelle vetrine di veterolusso. Nelle loro paiono invece, per rigore di taglio, grazia di colore e perbenismo, il guardaroba di Elisabetta d´Inghilterra» (Natalia Aspesi, ”la Repubblica” 28/9/2003). «[...] basso, un po’ di pancetta, pelato [...] ”A Palermo vedevo i giornali con i Versace e gli Armani e da noi non c’era quasi nulla. Sbarcai a Milano in aprile, con mio padre, per iscrivermi a una scuola. Ho visto la Madonnina e ho detto: ”Pregio Dio che non mi faccia più tornare indietro’. I negozi, gli abiti, le luci, corso Vittorio Emanuele [...] Ci siamo conosciuti nello studio di uno stilista dov’eravamno entrambi assistenti. Io ci stavo da un po’, poi è arrivato Stefano, fresco di studi... [...] Siamo stati lì un anno e mezzo. Ma io avevo già intenzione di mettermi in proprio, anche perché collaboravo con l’azienda siciliana di confezioni dei miei genitori... [...] Facevamo orari folli. Tutti e due avevamo un’enorme voglia di arrivare e di vivere. Insieme. Viaggiavamo tanto, disegnavamo fino a notte fonda, all’alba partivamo su una scassatissima R4 per andare nelle aziende... [...] è stata durissima avere le prime consulenze, ci sono voluti quasi sei mesi... [...] Dovevamo ricominciare dalle cose più brutte, più cheap, più commerciali... La moda vera? Il sogno? Scomparso tutto. [...] abbiamo affittato un ufficio. Un bilocale in porta Vittoria, 70 metri. [...] lì ci siamo trovati a collaborare casualmente insieme per una o due ditte. Mi aiuti? T’aiuto? Ci aiutiamo? Uno, due, tre, finché abbiamo detto: dai, andiamo avanti così [...] Le cose cominciavano a marciare. Molto per la Marzotto, per altre ditte, e poi per l’azienda di mio padre: facevamo un’etichetta, una collezione un po’ fashion che si chiamava Donna-Donna. Vivevamo nel terrore di perdere il treno della moda, delle tendenze, e su quell’etichetta puntavamo parecchio... Fu un disastro totale: sbagliata la distribuzione, lo stile non veniva capito, era tutto sbagliato... [...] Però eravamo presuntuosi e presentavamo le nostre scose alla stampa. Un mese prima delle sfilate organizzavamo eventi dai parrucchieri, da Burghy, portavamo personalmente gli inviti nelle redazioni... Cose un po’ allucinanti. Ci siamo fatti notare. Non bastava... [...] Modenese ci vuole parlare. Ci incontriamo a Firenze, a Pitti. Ci fa: ”Ragazzi, siete stati scelti come nuove proposte per Milano-collezioni’. stato il momento di gioia più grande della nostra vita. Piangevamo, ridevamo, saltavamo... [...] per questa nostra etichetta non abbiamo dormito, non abbiamo fatto le vacanze per anni [...] Io ho sempre avuto molto ego: faccio io, faccio da solo... E ancora oggi a volte avrei voglia di provare delle cose da sole... Il mio sogno è fare il sarto, amo i manichini, la stoffa...” [...]» (Stefano Jesurum, ”Sette” n. 36/1999).