22 febbraio 2002
DI LIVIO Angelo
DI LIVIO Angelo. Nato a Roma il 26 luglio 1966. Calciatore. Dopo le giovanili nella Roma, gioca 5 anni in C: Reggiana, Nocerina e tre anni al Perugia. Dal 1990 al ’93 al Padova, in B. L’esordio con la Juve il 5 settembre 1993 (Roma- Juve 2-1). In sei anni vince tre scudetti, una Champions e una Intercontinentale. Nel 1999 va alla Fiorentina (2 anni in A) e vi rimane anche dopo il fallimento (Florentia, in C2). Finisce la carriera a Firenze. In nazionale 40 presenze, esordio il 6 settembre 1995 in Italia-Slovenia 1- 0, ultima gara, Italia- Sud Corea (1-2) ai Mondiali 2002. 293 le partite giocate da Di Livio in serie A, delle quali 186 con la maglia della Juventus e le altre 107 con la Fiorentina. In totale ha segnato sette gol. « un ”soldatino” nel senso più nobile della parola, ligio al dovere, sempre pronto a farsi in quattro pur di onorare la maglia che indossa. Allevato nel vivaio romanista, fa strada nel Padova, in serie B, in coppia con Benarrivo e al servizio di un ”certo” Alessandro Del Piero, per il quale diventerà una sorta di fratello maggiore. Di Livio e Del Piero passano alla Juventus nella stagione 1993-94. l’ultimo anno di Boniperti e Trapattoni. Proprio il Trap lo trasforma in un’ala destra fra le più complete in circolazione, difesa e attacco, attacco e difesa. Con Lippi, la consacrazione. Di Livio si ritaglia uno spazio cruciale, forte di un’umiltà e di un eclettismo che lo portano a ricoprire i ruoli più svariati, terzino, tornante, centrale di metà campo» (’La Stampa”19/1/2004). «Gli sarebbe piaciuto essere una bandiera in un calcio che divora i simboli e non può stare appresso ai sentimenti. Angelo Di Livio, il Soldatino, pensava di chiudere la carriera con la maglia della Juventus. Nel ’99, invece, le ragioni del mercato lo hanno portato a Firenze. Città scomoda per un ex bianconero, tuttavia quando hai il cuore e la generosità di giocatori come lui, puoi convertire anche il più incattivito degli ultrà. Così è stato» (Fabio Vergnano, ”La Stampa” 3/1/2001). «[...] Ha smesso, a trentanove anni, come Zola. [...] ”Eravamo insieme a Wembley, in Nazionale contro l’Inghilterra. Il suo gol, una vittoria storica. Eh, il tempo passa...”. [...] La Fiorentina con Trapattoni, poi lo schianto, l’abisso, la C2 con quel nome impossibile: Florentia. Poi ancora Firenze e il grido: ”Viola, Viola!”. Il capitano Angelo Di Livio a Firenze ci arriva dopo la conquista dell’Europa e del mondo. Ci arriva da juventino. Qualcuno sui muri scrive: ”Di Livio gobbo, vattene”. Lui resta e diventa il capo di tutti i soldatini viola. Lui è uno come Trapattoni. Ricorda: ”Quando vincemmo a Wembley con l’Arsenal, il Trap si mise a piangere. Gli dissi: ’Lei non può piangere, lei è mister Trapattoni’. Mi guardò con gli occhi rossi e lucidi. Piansi anch’io...”. [...] Parte da Roma, quartiere Bufalotta, Montesacro. Giovanili giallorosse. La Roma, squadra del suo eroe, Bruno Conti: ”Stravedevo per lui da ragazzino. Lo studiavo fare l’ala. Correva sulla riga, lo imitavo, me lo mangiavo con gli occhi”. Più tardi della riga, parlerà spesso. ”La mia riga: senza quella morivo. Era un punto di riferimento ma anche, non so come dire, un’amica rassicurante. Se non ne vedevo la fine non mi fermavo. Mi esaltava”. Corre lungo il filo, ma niente A. Ci arriva tardi, a 27 anni. Dopo nove stagioni di tappe, scossoni e sogni. Reggiana, Nocerina, Perugia. Molta C, poi tre anni di B al Padova. Anche con Del Piero. Diranno: Del Piero si nasce, Di Livio si diventa. Adesso sorride: ”A me è sempre sembrato un complimento. Io ero titolare, a Padova. Alessandro, negli Allievi. Nella partitella del giovedì ci faceva impazzire. L’allenatore ci diceva: ’Non entrate duro sui ragazzi’. Ale, poi, era un fenomeno e con i suoi dribbling qualche botta, via, se la cercava. Si unì alla prima squadra soltanto l’ultimo anno. A Padova eravamo compagni di squadra, poca confidenza. Poi siamo diventati compagni di stanza alla Juve. Abbiamo passato molte giornate a sfotterci. Tempi allegri a parlare di vestiti, basette, di tutto...”. Del Piero. ” diventato un fratello. Io gli ho fatto l’assist per il suo primo gol in serie A, lui lo ha fatto per il mio. Lui ha inventato i gol alla Del Piero, io una volta contro il Vicenza l’ho imitato. I giornali scrissero: ’ un gol importante, più di quanto si possa pensare: non è soltanto un soldatino di quantità’. Lo, sapevo”. Ma chi è stato a tirare fuori la storia del Soldatino ? ”Roberto Baggio, subito. Sono arrivato alla Juve e lui, dopo le prime corse, si è fermato e simesso a ridere: ’Cio’ te corri come un soldatino’. E Soldatino sono rimasto [...] All’inizio, quando cominciò la storia del soldatino, sentivo di essere guardato con scetticismo, poi ho ricevuto lettere di ragazzi che mi spiegavano quanto ero importante per quella Juve. La gente, i tifosi avevano capito che ero umile, che ero uno di loro. Ho fatto molte cose nel calcio. Nella Roma segnavo tantissimo. Poi ho cambiato e coperto parecchi ruoli. Lippi mi ha fatto giocare terzino, mediano, uomo di fascia. A Padova correvo e correvo e non mi lasciavano andar via perché il progetto era di arrivare in serie A. Ho perso un po’ di tempo, fa niente. Nei primi mesi, alla Juve, avevo il riflesso condizionato del cross. Poi ho cominciato a pensarci un attimo in più: guardavo se potevo trovare la porta da solo. E la trovavo. Senza però dimenticare le mie mansioni principali: la gente mi ha voluto bene per questo”. Non lo dice, ma è scontato: per il cuore. Il cuore dell’Angelo conquista squadre e uomini. I suoi allenatori lo adorano. Colautti a Perugia. Sandreani a Padova. Trapattoni a Torino e poi aFirenze. Lippi lo valorizza e si appoggia. Diventa ”Il soldato Angelo”, una bandiera della Juve. ”Una grande squadra, trionfi, feste, campioni”. Il più grande di tutti? ”Diciamo il punto di riferimento: Luca Vialli. In campo e fuori, fuoriclasse e uomo di enorme spessore”. Sei anni con la Juve, undistacco amaro. Forse, alla fine, il Soldatino è stato un po’ sottovalutato. [...] ”Ci sono rimasto male, una delusione. Dopo tanti anni di vittorie, speravo di restare”. Non parla di riconoscenza, solo amarezza. Ci sta. ”Ho dato, ho avuto, ho sofferto, ho vissuto momenti stupendi. Il calcio è un grande contenitore, dentro ci metti di tutto. Alla fine di una vita, di una carriera a questi livelli, il bilancio non può che essere positivo”. E gli anni di Firenze. Sei come alla Juve. Stagioni esaltanti, diverse, con gravi problemi. Si scriverà: il Soldatino diventa generale. Leader del gruppo, su tutti i campi. Rapporti con i compagni, relazioni interne ed esterne, con la stampa e i dirigenti. Di Livio scopre nuove cose. Anche di se stesso. Racconta: ”Come anziano e capitano dovevo prendermi delle responsabilità. L’ho sempre fatto nello spogliatoio, ma quella era una situazione nuova: non mi era mai capitato di farmi sentire all’esterno o di dare una mano all’allenatore”. Scopre che mai come a Firenze si era affezionato a una squadra e alla sua gente. ”Umanamente ho trovato qualcosa inpiù che da altre parti”. In uno dei momenti più neri, Roberto Mancini gli disse: ”Angelo, non fare mai l’allenatore”. Cosa rispose? ”Se riesci a fare l’allenatore qui, in queste condizioni, lo puoi fare dappertutto. [...] Da bambino mi piaceva l’idea del pompiere: salire sul camion a sirene spiegate per salvare qualcuno, la gente che ti guarda ammirata. molto bello”. [...]» (Germano Bovolenta, ”La Gazzetta dello Sport” 31/7/2005).