Varie, 22 febbraio 2002
DOTTI
DOTTI Vittorio Milano 26 dicembre 1940. Avvocato. Politico • «Alexander Silkirk, il marinaio scozzese che ispirò a Daniel Defoe il leggendario Robinson Crusoe, riuscì a sopravvivere cinque anni su un’isola dell’arcipelago di San Ferdinando ma quando fu ritrovato da una nave di passaggio aveva ormai perso l’uso della parola. Vittorio Dotti, sopravvissuto a otto anni di isolamento nel suo studio ai piani alti del grattacielo della Terrazza Martini, ha invece conservata intatta la voglia di spiegarsi. Con un pizzico di ironia: ”La cosa più importante che ho fatto in via mia? Me la sono cavata”. Ci avrebbero scommesso in pochi che sarebbe scampato al naufragio, nei giorni in cui larga parte del centrodestra lo accusava di essere il regista di Stefania Ariosto, la sua compagna, e aveva raccontato ai magistrati la famosa scena con Cesare Previti che rincorreva con una busta piena di soldi il giudice Renato Squillante dicendogli: ”A Renà, te stai a scordà questa”. Cesarone sparava a zero su di lui: ” un incapace o qualcosa di peggio”. Certi forzisti come Gian Pietro Broglia lo bollavano quale un professionista che, ”senza Berlusconi, farebbe ancora l’avvocato degli incidenti stradali”. E, quando il Cavaliere lo marchiò come ”una persona perbene ma senza spina dorsale”, sembrò davvero che per lui fosse finita: poteva mai salvare la ghirba un avvocato civilista con lo studio nel cuore di una città berlusconiana, in una provincia berlusconiana, in una regione berlusconiana? L’ha salvata: ”Ho lavorato. Ancora più di prima, per tener botta. Con Berlusconi non avevo perso solo il cliente principale ma anche le parcelle più alte. Pensi che solo il contratto per l’acquisto della Standa era stato di mille miliardi. Anche avessi chiesto solo il tre per cento... Faccia il conto. E parlo di una pratica. Una. Pensi all’acquisto di Retequattro, di Italia Uno, del Milan...”. Rimpianti? ”Ma per carità. Bene così. Sono riuscito a conservare lo studio, a tenere quasi tutti i miei collaboratori... stata dura, ma ce l’ho fatta. Sa cosa ho fatto in questi anni, oltre a lavorare? Ho letto. Ho letto molto più di quanto avessi mai letto prima. E mi sono appassionato alla politica come mai prima. I princìpi, quelli seri, li ho sempre avuti. Adesso mi sono fatto un’idea più precisa della situazione, delle prospettive e dei rischi”. Quando viene messo nel mazzo dei voltagabbana, come gli è capitato di leggere nella cronaca di un giornale di destra dopo il convegno dell’Ulivo a Milano con Prodi, storce il naso: ”Mi dà un fastidio terribile. Non lo merito. Posso accettare che mi si dica che mi ero sbagliato su Berlusconi e Forza Italia e tante altre cose. Ma sono fuori da otto anni. Otto anni! E sono fuori proprio perché c’è stata una rottura traumatica sui princìpi. I miei e i loro. Mi ricordo di Forza Italia con sofferenza. Via via era diventata una cosa lontanissima da me. ’Con l’opposizione non si parla!’, ’Non facciamo prigionieri!’. Io non c’entro, con quella visione del mondo. Mica peraltro dicevano che io ero il leader delle colombe contrapposte ai falchi. E poi, scusi, a destra c’è gente che fino a ieri stava a sinistra ma nessuno li insulta. Hanno cambiato idea Nando Adornato o Giorgio La Malfa e non posso aver cambiato idea io?”. Rifiutata la candidatura nel 1996 nella Lista Dini (’allora sì non sarei stato capito”) dice di essersi avvicinato all’Ulivo così: ”Quando Luciana Sbarbati si impuntò contro la scelta di portare il Pri a destra (ero sempre stato repubblicano, prima che nascesse Forza Italia: sempre votata l’edera) le mandai un biglietto. Mi rispose, restammo in contatto. Me l’ha chiesto lei di candidarmi alle Europee. La lista Prodi è la casa nella quale mi ritrovo”. Della sinistra, dice, non gli piace la litigiosità: ”Questa fissa di sottolineare ognuno la propria posizione. Meglio questa, comunque, che l’uomo solo al comando. Quello che ti mette una croce sopra e sparisci”. Rancore? ”Zero”. Difficile da credere... ”Davvero: zero. Mi ricordo anzi, qualche volta, dei momenti sereni passati insieme con Berlusconi. Certe notti, finito tardissimo di lavorare, uscivamo a fare due passi e parlare in Galleria. C’erano solo gli spazzini. Era un uomo con cui si lavorava bene. Con lui ho la coscienza a posto. Deontologicamente, moralmente... Il fatto è che lui si aspettava che io smentissi tutto, di quello che aveva raccontato l’Ariosto. Ma come potevo? Non ne sapevo niente di quella storia. Niente. Se non potevo confermarla, non potevo neanche smentirla. Lui mi chiese espressamente di smentire, gli risposi: Silvio, se mi chiedi di dire che tutto ciò che ho seguito per lavoro era in regola posso dire: sì, quello che ho seguito io era tutto regolare. Ma su quello che non conosco io non la posso mettere, la mano sul fuoco”. Da allora non l’ha visto più. Neanche per sbaglio: ”Berlusconi non è uno che puoi incrociare per caso”. Dalle foto e dai filmati che vede, spiega, lo inquietano gli occhi: ”Non erano così, una volta. Sono diventati freddi. Duri. Gelidi”. Men che meno ha rivisto Cesare Previti: ”Quello già lo vedevo poco prima. Io facevo il mio lavoro, lui il suo. Dirò di più: non lo avvertivo, allora, come una figura centrale nel gruppo. Per me era ’quello di Roma’. Piacermi non posso dire che mi piacesse. Troppo diversi. A pelle. Ma non avevo idea di come fossero i suoi rapporti con certi giudici. Sapevo che era in confidenza, questo sì. Ma il resto l’ho scoperto solo leggendo i giornali. Prima e dopo i processi”. Stupito? ”Mah...”. Anche lui, ai tempi dei referendum del 1995 che puntavano a ridurre il peso delle tivù berlusconiane, era stato accusato di far confusione. Al punto che Franco Bassanini sbottò: ”Nelle trattative continuava a dire ’noi’, ’la nostra azienda’, i ’nostri bilanci’. Più che il capogruppo di Forza Italia pareva l’avvocato di Fininvest”. Dotti nega: ”Le battaglie fatte per anni dalla parte di Berlusconi erano battaglie di libertà. Contro il monopolio della Rai sdraiata agli ordini del Palazzo. Battaglie liberali. Certo, col senno di poi... Vedendo come è stato stravolto il diritto a una pluralità di voci... Le censure all’opposizione... La presa in giro sul conflitto d’interessi... Le leggi ad personam...”. Pentito? ”Certo non lo rifarei. Non così. Erano altri tempi. Quando entrai io in Forza Italia entravano i Colletti, i Rebuffa, i Della Valle... Era un’altra storia. Si parlava di partito liberale di massa. Guardi adesso... C’è lui. Lui e basta”» (Gian Antonio Stella, ”Corriere della Sera” 7/6/2004). «Amò il conte Claudio Rinaldi Tufi, che in barca con Cesare Previti chiamava confidenzialmente contessina Stefania. Che ora dice di lui: ”Voleva più donne, tutte donne-mamma con grandi tette dove poter immergere il suo faccione e piangere”. Tette di Sette in barca? Tutte tette quelle foto di Stefania? No, perché nella titolata bionda si celava il lombo nobile del giornalista. Lui sapeva, altro è capire. Dotti è il ”non c’è” del momento bruciante. Pronto, c’è Dotti? Macché. Con l’arcivernice di Archimede Pitagorico prende corpo in procura a Milano, a cena con Lamberto Dini, a merenda con Carlino Scognamiglio. Tramava? Ma va là. innocente, non s’accorge, stava con l’uomo di Carlo De Benedetti e gli diceva: cara ti amo. Mentre lui (lei) non lo amava, scattava. A parte questo, grande statista. Clic» (’Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini”, 10/10/1998). Vedi anche: Claudio Sabelli Fioretti, ”Sette” n. 16/2001;