Varie, 22 febbraio 2002
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Drechsler Heike
• (Heike Daute) Oost-Duitsland (Germania) 16 dicembre 1964. Ex campionessa di salto in lungo. Oro ai mondiale del 1983, agli europei del 1986, agli europei del 1990, alle olimpiadi del 1992, ai mondiali del 1993, agli europei del 1994, agli europei del 1998, alle olimpiadi del 2000. Ottima duecentista, ha vinto l’oro agli europei del 1986 e l’argento in quelli del 1990; argento anche nei 100 metri ai mondiali del 1987. «Cresce a Gera, in Turingia, Germania dell’Est. [...] Il padre muore quando lei ha due anni e la madre si trova a dover crescere da sola cinque figli. Anche la signorina Daute, però, fa presto a capire di avere qualità atletiche fuori dalla norma. A 15 anni realizza il record del mondo di categoria del lungo; a 17, con 7.02, vince gli Europei juniores di Utrecht. A 18 anni e 8 mesi, a Helsinki, trionfa nella prima edizione dei Mondiali. Ha talento, è chiaro. Ma, come tanti connazionali dell’epoca, è un fenomeno parzialmente costruito in laboratorio. La sua ammissione sulle pratiche illecite è del gennaio 2001 [...] La sua svolta arriva nel novembre 1989 [...] sposata con Andreas Drechsler, portiere dello Jena e figlio del suo allenatore, il primo del mese diventa mamma di Toni. Otto giorni più tardi, data storica, cade il Muro di Berlino. L’unificazione, all’inizio, come a tanti le fa vivere momenti difficili. Poi le libera le ali. Nel 1992 a Barcellona, nel lungo, vince un oro olimpico che ripeterà a Sydney 2000. In mezzo una lunghissima sequela di trionfi. Compresi quattro titoli europei consecutivi con 7.27, 7.30, 7.14 e 7.16. Clamoroso esempio di longevità, tra l’82 e il ‘98, in gare ufficiali, supera i sette metri addirittura 409 volte [...] Da anni compagna dell’ex decatleta francese Alain Blondel [...]» (Andrea Buongiovanni, “La Gazzetta dello Sport” 24/9/2004). Sul doping: «Sapevamo benissimo che ci davano cose strane. Ci dicevano prendi queste pastiglie, sono vitamine, ti fanno bene e noi ci cascavamo. Mi viene la nausea quando ci penso. La verità è che accettavamo tutto perché non avevamo scelta» (“Corriere della Sera” 18/1/2001).