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 2002  febbraio 22 Venerdì calendario

Ducasse Alain

• Castelsarazzin (Francia) 13 settembre 1956. Chef • « lo chef più ”stellato” al mondo: hanno le prestigiose ”3 stelle” della guida rossa Michelin i suoi ristoranti ”Le Louis XV”’ dell’hotel de Paris nel Principato di Monaco e il ”Plaza Athénée” di Parigi. I primi riconoscimenti li ha ottenuti quando aveva 33 anni. Nel ”95 ha aperto un albergo di lusso con sole 12 stanze in Provenza nella zona della Gorge de Verdon (La Bastide de Moustiers). Successivamente è intervenuto nella ristrutturazione alberghiera di antiche abbazie in Francia. Dal ”98 avvia una catena di locali ”Spoon, Food&Wine”. Il primo è a Parigi, seguono quelli di Londra e Tokyo. Nel ”99 avvia il ”Bar&Beuf” allo Sporting di Montecarlo. Nel Duemila sbarca a New York e apre il ristorante con il suo nome nell’Hessex House. Installa in Francia un laboratorio di ricerca denominato ”De Gustibus” per la formazione del personale dei 14 ristoranti che controlla nel mondo. Ha uno staff dove lavorano collaboratori di 38 nazionalità, con responsabili di ciascun locale, dei servizi tecnici degli approvvigionamenti e delle cantine. Firma libri di ricette, guide, materiali da cucina e dal ”99 la ”griffe Ducasse” compare su Internet con un sito www.ducasse-online.com, dove acquistare vini e prodotti. Si stima che il suo giro d’affari sia di oltre 30 milioni di euro» (s.mir, ”La Stampa” 14/1/2002) • «[...] ”Nella metà degli anni Settanta si impose la nouvelle cuisine, che era l’espressione massima della creazione personale dello chef, in cui il prodotto perdeva importanza rispetto alla tecnica. Intorno al 1985 ci si incominciò a interessare nuovamente alla materia prima e ora, dopo il duemila [...] si parla di nuovo di creatività a della mano personale dello chef. Questa alternanza di correnti è il risultato del pensiero dominato dall’influenza dei media, un modello di pensiero unico che oggi ci fa credere che conti solo la creazione e non il prodotto. Forse tra qualche anno ci sarà di nuovo un cambio di tendenza: in fondo si tratta di corsi e ricorsi storici. Per quanto riguarda me e i miei collaboratori però, abbiamo sempre focalizzato il nostro lavoro su un’estrema attenzione ai prodotti e abbiamo inziato a farlo in controtendenza nel 1975, in piena nouvelle cuisine. La tecnologia è importante certo, non diciamo mica il contrario, ma c’è il pericolo che prenda il sopravvento sul cuoco e che egli sia vittima di una standardizzazione. Si può parlare della temperatura e delle tecniche perfette per cuocere un pollo, sono importanti, ma se questo diventa l’unico discorso è pericoloso, perché prima bisogna chiedersi che ha mangiato il pollo e se ha fatto sport tutte le mattine. Non è com’è cucinato che lo rende buono, è che vita ha fatto. Solo in base a questo fattore ”esistenziale” può diventare un prodotto straordinario. [...] L’unica cosa che deve interessare lo chef è la diversità: scegliere i prodotti della natura è la cosa determinante. La tecnologia è utile, ma non dobbiamo essere noi gli asserviti dalla tecnologia. Essa è un servizio, che serve a rendere ancora più perfetto, a controllare, a redere più comodo o pulito. La biodiversità è fondamentale; la tecnologia viene dopo. Ma la diversità in generale è fondamentale: per esempio smettiamola di dire che gli italiani sono i tradizionalisti e gli spagnoli sono i nuovi creativi. Si procede sempre per semplificazioni contrapposte, gli uni contro gli altri, e mai gli uni insieme agli altri. Valorizziamo invece la cultura e la conoscenza di ciascuno, coltiviamo le differenze. Ogni contadino fa delle cose diverse dall’altro, cerca di fare meglio del vicino e non di somigliargli. Bisogna accentuare le differenze se vogliamo che tutto funzioni meglio: in agricoltura, in cucina, nella vita [...] Noi cerchiamo sempre di andare all’origine del prodotto, scandagliamo le campagne insistentemente e abbiamo un rapporto quasi sempre diretto con la produzione nei diversi luoghi dove operiamo. Prima cerchiamo i prodotti, li portiamo in cucina e, se vanno bene, inziamo a elaborarli e a combinarli. Cerchiamo di conoscere la storia dei prodotti perché non vi si può prescindere: è cartesiano, ed è questo ciò che fa la differenza in una grande cucina. La materia prima dev’essere vicino ai fornelli: i contadini, i pescatori, gli artigiani di tutto il mondo sanno fare cose incredibili e grazie a loro noi chef siamo in grado di applicare la nostra arte. un po’ come la storia dell’arte e dell’arte applicata: la fotografia è un’arte applicata, gli chef fanno dell’artigianato applicato. Senza la materia prima non possiamo fare niente, se metti de la merde a fare un’emulsione, con la tecnica migliore otterrai semplicemente una perfetta emulsione di merde! [...] Lo chef deve portare questo sentimento e questo messaggio dappertutto: applicarlo all’artigianato del luogo, cercare i polli migliori, le anatre migliori, le Saint Jacques migliori. Ogni luogo ha i suoi prodotti ed ecco che allora molte ricette non possono essere omologabili: bisogna proporre una ristorazione in armonia con il luogo dove si trova il ristorante, anche per semplice il rispetto dei clienti che, se camminano su un marciapiede di New York e passano davanti a un ristorante, in quel posto si aspetteranno della cucina fatta con prodotti americani. Il luogo dove ho trovato difficoltà ad applicare la mia filosofia sono proprio stati gli Usa. Un amico giornalista ha preso ogni tipo di mezzo di trasporto per trovarmi i prodotti che cercavo. Ha percorso in totale 125 mila miglia e i risultati di questa ricerca per il ristorante di New York li ho pubblicati in un libro: Harvesting the Excellence. stato faticoso, ma sono molto soddisfatto [...] Quando a Parigi mangio una triglia e la pago molto, troppo cara, certamente è arrivata da me in aereo con provenienza Dakar. Mentre fa tappa a Concarneau è già troppo costosa. Bisogna prima guardare che cosa c’è nel proprio perimetro geografico, del resto è più semplice. I prodotti importati, oltre a essere meno sostenibili dal punto di vista ambientale, non sono economici. E poi sono ”affaticati’: non sono necessariamente più buoni, anzi quasi sempre è il contrario [...] Io e la mia equipe ora stiamo lavorando su cosa si può cucinare al meglio con un euro e cinquanta di spesa. Abbiamo una scuola e abbiamo messo a disposizione le nostre conoscenze per dimostrare che un cuoco può fare anche la ”cucina della collettività”, con poco a disposizione. Un cuoco è in grado di preparare un buon piatto da un prodotto non molto buono: un tacchino industriale ben cotto, con una buona riduzione e con dei legumi cucinati a dovere è già diverso: il cuoco può aggiungerci il cuore e la conoscenza. Può anche insegnare a farlo, semplicemente trasferendo il suo amore per il prodotto, perché bisogna che la gente ritrovi il piacere di andare al mercato e di educarsi alla conoscenza delle materie prime. E poi, anche nella grande distribuzione al giorno d’oggi ci sono dei prodotti intelligenti, un minimo di qualità. Il secolo scorso ha visto il predominio delle schifezze, di tutte le sperimentazioni possibili e immaginabili, che ci hanno portato a mucca pazza e agli altri scandali alimentari. La sensibilità per fortuna è un po’ cambiata adesso e bisogna porre le condizioni perché a casa la gente reimpari a mangiare prodotti buoni, a nutrirsi correttamente e in maniera semplice, senza spendere dei capitali o ricercare l’eccellenza a tutti costi. C’è una qualità media, quotidiana, che bisogna saper trovare [...] In Italia però è straordinario: ci sono ancora delle donne che hanno salvato la memoria e la sensibilità delle cucine regionali; al mercato ci sono i prodotti locali e i piccoli contadini. E c’è anche della gente disposta a pagare di più per un grande prodotto. Perché in Italia è ancora imporante il piacere. Il prezzo è importante, è vero, e bisogna che i contadini si guadagnino onorabilmente da vivere: dietro un litro di latte ci sono degli animali, degli ettari di terra, il lavoro di uno o più uomini: come fa a essere meno caro di un litro d’acqua in bottiglia? allucinante, scandaloso [...] Guardare a un prodotto e cercare di rispettarne il sapore originale, il sapore di chi l’ha coltivato, allevato o pensato, utilizzando la giusta preparazione, la giusta cottura e il giusto accompagnamento. Il messaggio della gastronomia deve essere chiaro a tutti e restare permeabile per poter apprezzare ciò che la natura ha donato. il rispetto del prodotto. L’influenza della tecnologia e dei media ci privano di questa gioia perché alla fine riducono tutto alla semplice questione ludica: l’unica cosa che ti chiedono i giornalisti gastronomici sono buoni indirizzi e ricette. Noi cuochi lavoriamo sulle fonti e i giornalisti vogliono solo l’effetto. Analizzando le fonti invece si capisce il professionismo, il rigore, l’amore. Ma giornalisti vogliono solo wow! Hanno bisogno di stupirsi, ma ogni piatto ha una storia che inizia molto prima dalla sua ricetta» (Carlo Petrini, ”La Stampa” 10/5/2005).