varie, 22 febbraio 2002
DULBECCO
DULBECCO Renato Catanzaro 22 febbraio 1914. Scienziato. Premio Nobel per la medicina nel 1975. A 16 anni entra all’Università di Torino, dove si lauera nel 1936. Si iscrive alla facoltà di Fisica, che frequenta fino al 1947, quando lascia l’Italia per gli Stati Uniti. Lavora come ricercatore all’Università di Bloomington, nell’Indiana, poi al California Institute of Technology. La sua scoperta più importante riguarda il meccanismo con cui i virus attaccano le cellule modificando il loro contenuto genetico. Del 1986 la proposta di costruire una mappa del genoma per decifarre il patrimonio di centomila geni che compongono la struttura umana (’liberal” 1/4/1999) • «[...] Uno che ha vinto il Nobel per la medicina, che ha migliorato la nostra vita e il futuro dei nostri figli, che ci ha aggiunto una speranza nella lotta alla malattia che più fa paura, il cancro, e ha acceso una luce nella penombra della nostra conoscenza, frugando tra i misteri del dna e sezionando il genoma, cioè l’insieme dei geni di un essere qualunque, sia esso un virus o un uomo. [...] Maureen, la moglie scozzese di Dulbecco. Ha 24 anni meno di lui [...] hanno una figlia, Fiona, che fa la cardiologa in un ospedale di San Francisco. [...] ”[...] stata Maureen a conquistare me, io non mi accorgevo di nulla. Ci siamo frequentati per anni prima di capire che c’era qualcosa tra noi [...]”. Renato Dulbecco è uno dei più straordinari scienziati italiani, ha lavorato con Rita Levi Montalcini e con Umberto Veronesi, ha combattuto per l’Italia nella seconda guerra mondiale, è stato partigiano nelle montagne di Sommariva Perno e membro del Cln di Torino, è un uomo che il mondo non finisce più di ringraziare, ma al quale l’Italia non ha saputo volere bene fino in fondo. Nel dicembre del 1975, proprio mentre a Stoccolma ritirava il Nobel per la medicina, Roma gli revocava la cittadinanza. Perché lui voleva fare l’americano. Da allora è stato semplicemente un americano che ha lavorato anche con l´Italia. Niente di più. [...] ”Mio padre era ligure, di Imperia, ingegnere del genio civile, un esperto di cemento armato, fu chiamato in Calabria dopo il terremoto”. Genova e Torino: ”Ancora dietro a papà, che si trovò impiegato in una fabbrica di proiettili. A Torino presi la laurea in medicina nel ”36, discutendo con Giuseppe Levi una tesi di anatomia patologica. Ricordo Torino come una città simpatica”. La guerra: ”Fui richiamato come ufficiale medico, il mio reggimento stava a Sanremo. Ci spedirono in Russia, fronte del Don, io ero a capo del servizio sanitario. Tra le mie braccia posso dire che ho visto morire decine di ragazzi, sono tornati a casa solo il venti per cento di noi. Arrivavano in condizioni disperate, spesso fatti a pezzi, sangue ovunque, pance squarciate, ferite orribili. Qualcuno mormorava tra le lacrime, ”non rivedrò più i miei figli’, e io gli dicevo ”ti opereremo subito, ce la farai’, ma sapevo che non c’era proprio niente da fare. Una mattina sono caduto sul ghiaccio, mi sono rotto una spalla. E mi sono salvato”. Il nazismo: ”Credo fosse l’inverno del ”41, ero su un treno che attraversava la Polonia, appena fuori Varsavia il convoglio si fermò nei pressi di un groviglio di binari. Noi soldati scendemmo, vidi un gruppo di persone vestite di nero con una macchia gialla sulla schiena che stavano lavorando sulla ferrovia. Non sapevo nulla, chiesi a un soldato tedesco, mi rispose ridendo: sono ebrei, quando hanno finito qui kaputt. Quel giorno cambiò la mia vita, decisi che non avrei più avuto nulla a che fare con il regime fascista. Una volta rientrato in Italia sono diventato il medico dei partigiani che combattevano sulle montagne di Cuneo”. L’impegno politico e la ricerca: ”A Torino entrai nel partito dei lavoratori cristiani portato da Giacomo Mottura, diventai membro del Cln, ma compresi subito che la politica non era il mio mestiere. A me interessava la ricerca sui geni. La intendevo e l’ho sempre intesa come l’opportunità di giocare attorno a un grande mistero, una cosa affascinante e divertente. Nel ”47 lasciai l’Italia per l’università di Bloomigton, nell’Indiana. Mi chiamò Salvatore Luria. Cominciai a studiare nei fagi, i virus batteriofagi, i meccanismi cellulari che riparano il Dna quando è danneggiato da radiazioni”. Un giorno la moglie di un amico e collega si ammalò di tumore al seno. Morì. Era il 1960. Da allora Dulbecco si è dedicato quasi esclusivamente alla battaglia contro il cancro. Ancora sui geni, sulle staminali, là dove il male si manifesta per colpire a tradimento. Un percorso compiuto in silenzio che lo portò prima al Nobel - con David Baltimore e Howard Temin - e nell’86 a impegnare la comunità scientifica mondiale nel progetto Genoma con un intervento alla conferenza di Cold Spring Harbor che suscitò le perplessità della maggioranza di medici e scienziati. ”Alcuni pensarono fossi impazzito. Oggi tutti mi chiedono: sconfiggeremo il cancro? La mia risposta è: dipende. La verità risiede nelle cellule staminali, ma su di esse sappiamo ancora troppo poco. Quando avremo la conoscenza saremo vicini alla vittoria, ma la strada della conoscenza è lunghissima, in alcuni campi infinita [...] Io sono uno scienziato di base. C´è un problema, io cerco una soluzione, e se la trovo non mi preoccupo della sua applicazione. un compito che spetterà ad altri. Quando sono in un laboratorio penso soltanto che sto lavorando per la scienza, non per l’uomo. Se poi qualcuno mi fa notare che il mio possibile contributo è rivolto anche al bene dell’umanità, ne sono ben felice”. Dulbecco legge soltanto libri scientifici, non va mai al cinema perché se la storia è bella ne viene letteralmente rapito e la cosa gli mette l’ansia. Suona il pianoforte, soprattutto Bach – ”raffinato e poliedrico” -, pochissimo Mozart – ”troppo monotono”. Il suo mito è Arturo Benedetti Michelangeli. Come Samuel Beckett crede di essere poco portato per la felicità. Piange a tutte le feste e a tutte le opere di Puccini: ”Soprattutto alla Tosca, lacrime inarrestabili e tanta vergogna di fronte agli sguardi stupefatti dei vicini”. Da ragazzo era tifoso del Genoa, oggi passa ore davanti al televisore per il tennis [...] ma soprattutto per quello delle donne: ”Bellissime e eleganti. Sembrano volare sulla terra rossa [...] Non sono credente. Da bambino sono stato educato nell’ambito della Chiesa cattolica, ma quando sono cresciuto mi sono separato da essa come da qualunque altra religione” [...]» (Dario Cresto-Dina, ”la Repubblica” 18/12/2005) • «La vita di Renato Dulbecco è stata popolata, per non dire sovraffollata, di premi Nobel: fra i suoi compagni di scuola (Salvatore Luria e Rita Levi Montalcini), i suoi professori (lo stesso Luria e Max Delbrück), e i suoi amici (Jim Watson e Richard Feynman). Oltre, naturalmente, a lui stesso e i suoi i suoi studenti Howard Temin e David Baltimore, vincitori nel 1975 per lo studio dei virus e delle cellule tumorali. Laureato in medicina a soli 22 anni, Dulbecco è stato il padre della virologia moderna, uno dei pionieri dello studio del cancro, l´alfiere della lotta contro il fumo, l´ideatore del Progetto Genoma, un divulgatore di talento, un opinionista da prima pagina, il presentatore di un Festival di Sanremo, il testimonial d´onore del Telethon e, dulcis in fundo, l´ispiratore di un personaggio di fumetti chiamato Dulby. [...] ha studiato a Torino col professor Giuseppe Levi, e ha avuto come compagni di studi Salvatore Luria e Rita Levi Montalcini. Non è strano che da una stessa scuola siano usciti tre premi Nobel? ”Statisticamente, è un po´ improbabile. Però bisogna tener presente la personalità di Levi, che ha avuto un´influenza molto utile e benefica. Lui incoraggiava molto a fare, ma era estremamente critico: quando uno aveva un risultato e glielo faceva vedere, bisognava convincerlo. Il più delle volte trovava i punti deboli, che è quello che ci vuole per fare uno scienziato: può essere una ragione per cui queste tre persone sono poi arrivate a certi traguardi [...] Con Luria ho lavorato negli Stati Uniti per due anni. Con la Levi Montalcini dividevamo l´ufficio a Torino, e per combinazione siamo partiti per l´America sullo stesso vapore polacco, che si chiamava Sovietsky. Là non stavamo lontani, io a Bloomington con Luria e lei a San Louis, per cui ogni tanto ci trovavamo, chiaccheravamo, parlavamo di quello che facevamo. E´ stato un gruppo sempre unito anche dopo [...] Dopo la guerra, quando sono ritornato a lavorare da Levi, l´idea dei geni mi affascinava. Ma nessuno ne sapeva niente e non se n´era mai parlato a medicina, nessuno ce li aveva insegnati. Io credevo che l´unico modo per studiarli fosse di usare radiazioni, e mi sono iscritto a fisica per sapere come le radiazioni funzionano, e come poterne analizzare gli effetti [...] Il fatto è che la fisica mi è sempre piaciuta, e anche la matematica. Già nella scuola media ero il più in gamba in quelle materie” [...] ha lavorato anche con Delbrück, che ha condiviso con Luria il premio Nobel del 1969. ”Lui ha avuto un´influenza notevolissima. Era una strana miscela: molto all´avanguardia, ma allo stesso tempo conservatore. Mi ricordo che quando Jim Watson venne a Caltech dopo la scoperta della doppia elica, pensammo che bisognasse organizzare una biologia molecolare. Andammo a dirlo a Max, ma a lui non piacque: diceva che era troppo presto, che non c´erano dati, che non valeva la pena pensarci. Da una parte aveva ragione, perché avere idee senza riscontri precisi è pericoloso. Ma dall´altra parte uno deve pur osare, altrimenti non fa niente”. A Caltech [...] era amico del famoso fisico Richard Feynman, premio Nobel nel 1965. ”Ho addirittura seguito un suo corso di fisica, sulla meccanica quantistica. Insegnava molto bene, era molto chiaro: anche uno come me, che non aveva mantenuto la connessione con la fisica, poteva seguirlo. Come persona era strana, con le sue manie dei bongos: gli interessavano specialmente i ritmi anormali, tipo 5/6 o 6/7. E io riuscivo a farli con lui [...] Luria aveva scoperto che, benché un fago (virus parassita, n.d.r.) venga inattivato dalla luce ultravioletta, se più fagi infettano una cellula la loro sopravvivenza aumenta. Lui pensava che questa molteplicity reactivation, riattivazione per molteplicità, fosse dovuta a scambi tra i DNA dei fagi, che ne aumentavano la capacità di resistenza. Io invece scoprii, con metodi matematici, che il fenomeno era provocato da una differenza funzionale di varie parti del DNA. Da lì fu possibile scoprire che i danni sono modificati da un´azione enzimatica, e che i geni di questa azione stanno nel DNA del virus”. Questi erano i suoi lavori a Bloomington. Cambiò qualcosa, quando andò a Caltech? ”Capitò una cosa imprevedibile. Un amico del presidente dell´università, che aveva un herpes, stanziò una grossa somma perché si cominciassero a studiare i virus patogeni delle malattie, invece dei virus giocattolo da laboratorio. Delbrück convocò Seymour Benzer e me, e ci chiese se eravamo interessati. Benzer, che era un fisico, preferì continuare il suo lavoro. Io, che in fin dei conti ero un medico, accettai. Proposi un adattamento del metodo quantitativo delle placche che si usava coi fagi, che è poi stato fondamentale per lo sviluppo dei vaccini e lo studio degli anticorpi”. per questo che ha ricevuto il premio Nobel? ”No, no. per le ricerche sul cancro, iniziate quando Peyton Rous dimostrò l´esistenza del primo virus cancerogeno, in uno studio sul sarcoma dei polli che gli valse il premio Nobel nel 1966. Due miei allievi, Harry Rubin e Howard Temin, studiarono una leucemia dei polli diversa dal sarcoma di Rous. Per spiegare come facesse il virus ad avere un´azione permanente nella cellula nella quale entra, venne fuori l´idea che ci doveva essere un´interazione tra i geni del virus e quelli della cellula. Quando Temin discusse la sua tesi, Delbrück disse che non c´era nessuna prova: un altro esempio del suo pragmatismo”. [...] In occasione della premiazione per il Nobel lei ha preso una posizione molto netta contro il fumo. ”A me questa storia non aveva mai interessato prima, perché io non fumo. Ma ero in contatto col gruppo di Richard Peto, che aveva dimostrato che il tabacco produce il cancro del polmone. Avevano cercato di indurmi a lavorare con loro, e quando ho preso il premio Nobel sono venuti a dirmi che era un´occasione da non perdere. Io mi sono entusiasmato e ho fatto quella dichiarazione: sa, quando arriva il Nobel si diventa un po’ matti [...] Dopo il premio Nobel decisi di concentrarmi su cancri di significato medico, ad esempio quello del seno. Era chiaro che molti geni dovevano cambiare attività col cancro, ma non si sapeva quali. A quell´epoca se ne conoscevano pochissimi, e ho pensato che bisognava assolutamente studiarli sistematicamente e sequenziare il genoma. Lo proposi nella primavera o all´inizio dell´estate del 1985, in una conferenza a Cold Spring Harbor, e mi ricordo il grande scetticismo della gente, che quasi pensava che fossi matto. Poi però qualcuno dei miei colleghi cominciò a dire che non era poi un´idea così pazzesca, e io decisi di scrivere l´articolo per Science che uscì nel marzo del 1986 [...] Avevo fiducia, e l´ho anche scritto. Non avevamo le tecnologie, ma se la gente ci si mette le tecnologie arrivano. E infatti sono arrivate [...]”» (Piergiorgio Odifreddi, ”la Repubblica” 21/4/2006) • «Molti anni prima di conquistare il premio Nobel per la medicina [...] era un costruttore di radio. ”A Imperia ne fece una da solo. Aveva 14 anni”. Così racconta Emma Dulbecco Capozzo [...] la sorella [...] ”A 16 anni invece costruì un sismografo che adesso è conservato in un mueso d’Imperia. Nel dopoguerra Renato trascorse un lungo periodo a Londra e in una bella casa vittoriana fece, da solo, tutto l’impianto di riscaldamento centralizzato: in cucina aveva sistemato un quadro elettrico che rivelava la temperatura di ogni stanza” [...]» (Giampiero Timossi, ”Panorama" 11/3/1999) • «[...] Come ufficiale medico ero andato in Russia con il corpo di spedizione italiano. Ero stato addirittura nominato capo del servizio sanitario del regime. Credo perché quello che c’era prima era scomparso. Sono rimasto lì un poco poi sono tornato in Italia e mi sono dato alla macchia. Ho fatto il medico fino alla fine della guerra [...] Credo sia possibile che ci sia un Dio ma non lo vedo [...]» (Gigi Marzullo, ”Sette” n. 7/1999).