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 2002  febbraio 25 Lunedì calendario

ECO

ECO Umberto Alessandria 5 gennaio 1932. Filosofo e romanziere. Ordinario di semiotica all’Università di Bologna e studioso di estetica • «Quello che mi affascina nello scrivere un romanzo è passare, come mi è capitato sinora, minimo sei anni e massimo otto a cercare fonti e a scoprire aspetti di un mondo lontano. Se dovessi scrivere una storia d’amore che ha luogo nel presente, non avrei bisogno di fare alcuna ricerca e troverei la cosa estremamente deludente, per cui in sostanza scrivo romanzi storici perché mi diverte di più. A parte il fatto che Il pendolo di Foucault, anche se ha delle ampie panoramiche di carattere storico, si svolge nel presente, dove a mio parere vengono toccati alcuni problemi importanti del mondo politico attuale, come la sindrome del complotto e così via. Fatta questa precisazione, il primo fine che mi pongo quando scrivo un romanzo storico, come è stato nel caso de Il nome della rosa, de L’isola del giorno prima e di Baudolino, è di ignorare completamente il presente per cercare di capire quel mondo. Tuttavia ogni lettura storica, anche quella fatta dallo storico più rigoroso, è sempre una lettura in prospettiva. Come diceva Croce, la storia, nel senso della storiografia, è sempre contemporanea. Comunque noi che guardiamo a un tempo lontano non possiamo evitare di vederlo con i nostri occhi di contemporanei. Vale a dire che ci sono certe cose che istintivamente mettiamo a fuoco, mentre ne lasciamo cadere delle altre. In questo senso, mettendomi a raccontare di un mondo lontano, magari senza accorgermene, talora invece accorgendomene persino con una certa malizia, posso mettere a fuoco delle cose che parlano direttamente ai contemporanei. Certe volte mi è accaduto di trovare il lettore che vedeva dei riferimenti al presente che io non avevo in mente, ma proprio attraverso una lettura più sensibile si poteva riscontrare un’analogia con i tempi nostri. Per fare un esempio, scrivevo Il nome della rosa, dove il mio unico interesse era mettere in scena una complessa trama poliziesca all’interno di un’abbazia, che poi ho deciso di situare nel Trecento perché mi erano capitati alcuni documenti estremamente affascinanti sulle lotte pauperistiche dell’epoca. Nel corso della narrazione mi accorsi che emergevano - attraverso questi fenomeni medievali di rivolta non organizzata - aspetti affini a quel terrorismo che stavamo vivendo proprio nel periodo in cui scrivevo, più o meno verso la fine degli anni Settanta. Certamente, anche se non avevo un’intenzione precisa, tutto ciò mi ha portato a sottolineare queste somiglianze, tanto che quando ho scoperto che la moglie di Fra’ Dolcino si chiamava Margherita, come la Margherita Cagol moglie di Curcio, morta più o meno in condizioni analoghe, l’ho espressamente citata nel racconto. Forse se si fosse chiamata diversamente non mi sarebbe venuto in mente di menzionarne il nome, ma non ho potuto resistere a questa sorta di strizzata d’occhio con il lettore. Con Baudolino, invece, mi sono trovato a rivedere tutte le situazioni della rivolta dei comuni lombardi contro Federico Barbarossa, ed era molto difficile trattare di una Lega lombarda dimenticando che ne esiste una attuale. […] Ne L’isola del giorno prima, che si svolge nell’età dell’assolutismo e dove i problemi politici di allora sono abbastanza lontani dai nostri, non c’è politica, se non nel fatto che a un certo punto appare Mazzarino. Viceversa Il pendolo di Foucault ritengo sia un libro di grande valore e impegno politico, in quanto ho sempre sostenuto che è una rappresentazione del fascismo eterno, alla base del quale ci sono radici occulte, la sindrome del complotto e così via. Mi è parso in sostanza di mettere in luce una mentalità che difficilmente porta a posizioni liberali e più facilmente a posizioni totalitarie. Tanto è vero che quando mi chiesero cosa mi aspettavo che dicesse il lettore alla fine di questo romanzo, risposi che sarei stato molto contento se a quel punto si buttava dalla finestra. Come a dire se il mondo è così, è meglio che me ne vada […] Esistono alcuni temi come quello del falso, dell’inchiesta che procede per sbaglio o della manipolazione dei dati che mi hanno filosoficamente sempre affascinato e sui quali ho scritto diversi saggi, indipendenti dai miei romanzi, per approfondire alcuni problemi filosofici che solo in un secondo momento ho affrontato in chiave narrativa. Come filosofo mi sono occupato del problema della ”verità” e ho scoperto che in fondo era interessante affrontarlo attraverso il suo supposto contrario, che è appunto il falso, in virtù di una vecchia tesi, ovvero che è molto facile dire se un quadro è falso conoscendo quello autentico, mentre è assai più difficile dire se l´autentico è veramente tale» (Alessandra Fagioli, ”la Repubblica” 2/3/2003). «Sono un fallito. Da piccolo, prima volevo fare il bigliettaio del tram, perché avevano delle bellissime borse a dieci scomparti con mazzetti di biglietti di vario colore. Non come ora, che si entra nel metro infilando il biglietto in una macchinetta automatica. Un po’ più tardi avrei voluto diventare generale (sotto il fascismo, il modello era il guerriero) e invece, fatto il servizio militare sono andato in congedo col grado di caporale maggiore di fanteria distrettuale. Come se non bastasse, negli anni Sessanta ho collaborato a fondare il Comitato per il Disarmo atomico. Ma so che la mia vera ambizione sarebbe stata quella di fare il pianista di pianobar. Sino alle due o tre di notte, la sigaretta all’angolo delle labbra, un whisky, e via a suonare Smoke gets in your eyes e Time passing by. andata proprio male. Beh, pazienza […] Da piccolo volevo anche scrivere romanzi. Ho iniziato così. Prendevo un quaderno, e scrivevo il frontespizio. Il titolo era di tipo salgariano, come I corridori del Labrador o Lo sciabecco fantasma. Poi scrivevo in basso il nome dell’editore, Tipografia Matenna (audace sintesi di ”matita e penna”). Quindi procedevo a collocare ogni dieci pagine una illustrazione sul tipo di quelle di Della Valle o Amato per le edizioni di Salgari. La scelta delle illustrazioni determinava la storia che avrei dovuto poi costruire. Di questa scrivevo alcune pagine del primo capitolo. Ma per fare qualcosa di editorialmente corretto, scrivevo a stampatello, senza potermi consentire correzioni. Ovvio che dopo alcune pagine abbandonassi l’impresa. Così sono stato, a quell’epoca, solo l’autore di alcuni romanzi incompiuti […] Per il resto, come è noto e documentato, più tardi mi sono occupato solo di saggistica sino a quasi cinquant’anni. Per favore non mi chieda come mai a un certo punto, improvvisamente, ho scritto il mio primo romanzo perché sono stufo di sentirmelo domandare e ogni volta ho dato una risposta diversa (tutte ovviamente false). Diciamo che l’ho fatto perché me ne era venuta la voglia, e se questa non le pare una buona ragione, allora non capisce niente di letteratura. Insomma, l’ho scritto e basta. E quindi ho vendicato la mia infanzia di romanziere incompiuto […] Dopo il successo del Nome della rosa, editori di vari paesi sono andati alla ricerca di miei libri precedenti che non erano stati tradotti. Il mio primo libro, il Problema estetico in Tommaso d’Aquino, era stato la mia tesi di laurea, e ne erano state stampate, credo, trecento copie da una casa editrice universitaria. Di colpo è stato tradotto nelle lingue principali. In America è uscito dalla Harvard University Press, in Francia dalle Presses Universitaires, insomma nei posti più concupibili. Ebbene, sono stato più contento di queste traduzioni che di tutte le copie del Nome della rosa o dei romanzi successivi […] Un libro come Apocalittici e integrati ha suscitato molte discussioni, è stato tradotto dappertutto, continua a vendere, e nell’America Latina, chissà perché, è la mia opera più nota. Lo studiano dappertutto. Ma era un brogliaccio, una raccolta di saggi esplorativi, mi secca moltissimo che continui ad andare in giro[…] Ho avuto da adolescente una educazione cattolica, intensa, voglio dire un’educazione al sacrificio e al disprezzo delle cose terrene. In più, sono cresciuto da ragazzo in un’economia di guerra, con lo spettro della fame o della prospettiva che la casa in cui vivevi fosse distrutta da una bomba. Devi essere sempre nella disposizione di spirito di sopravvivere avendo perso tutto quello che avevi prima. E quindi mi tengo pronto al grande black out dei computer di tutto il mondo. […] In Rai entrai per caso. Durante l’estate avevo finito la tesi, ma non mi ero ancora laureato perché era settembre, tropo presto per la sessione di laurea. Era ancora aperto il bando di un concorso per telecronisti e un tale della radio lo segnalò a me, a Furio Colombo, a Gianni Vattimo e a Michele Straniero. Ricordo che tutti rispondemmo che non ce ne importava nulla di diventare telecronisti, ma ci fu fatto osservare che era un modo per entrare in Rai […] Ci presentammo. Prova scritta di un articolo giornalistico, e poi mi trovo in uno studio buio con una sola piccola luce, e voci misteriose che venivano dall’alto (una era quella di Vittorio Veltroni, il padre di Walter, che allora dirigeva il telegiornale). Mi chiesero come avrei organizzato una trasmissione televisiva di poesia. Io di televisione non ne avevo quasi mai vista, salvo un dieci minuti in qualche bar, quindi lavorai di fantasia. Dissi che avrei fatto recitare versi di Montale, quelli con la muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglie, e sullo schermo avrei fatto carrellare la camera per certi sentieri della Liguria, dove ci sono la muraglia e i cocci sotto il sole che abbaglia […] Credo che nessuno avesse mai tentato alla tivù trasmissioni di poesia, e quelli là in alto furono abbacinati dalla mia idea. Fui ammesso, e con me Colombo e Vattimo, che aveva appena dato la maturità. Straniero no, non so per quali ragioni. Fu un’ingiustizia, perché tra noi quattro il vero uomo di spettacolo era lui. Ci siamo trovati con quelli che sarebbero poi diventati i telecronisti famosi degli anni successivi, Tito Stagno, Adriano De Zan, Sparano, Oddo e quel personaggio incredibile che era Carlo Mazzarella. Per tre mesi abbiamo avuto maestri bravissimi, come Pier Emilio Gennarini e Umberto Segre […] Mi mandarono alla segreteria artistica. Era il posto dove si faceva il palinsesto, dove cioè si raccoglievano e smistavano tutte le informazioni concernenti i programmi e quindi un punto d’osservazione centrale per capire tutto il meccanismo della tivù. […] Eravamo i veri autori di moltissimi testi, perché riscrivevamo quelli degli esterni raccomandati che invece apparivano come gli autori. Ma ho imparato un sacco di cose, ho incontrato musicisti come Berio e Maderna, ho vissuto in mezzo agli attori. Lavoravo con quel gran personaggio che è stato Ferdinando Ballo (quello delle edizioni Rosa e Ballo, che durante la guerra ha fatto conoscere tanta letteratura mondiale in Italia), e nel suo studio mi capitava di incontrare, che so, Brecht o Strawinskij […] Eravamo i funzionari giovanissimi, ed era naturale che poi andassimo a ballare con le nostre coetanee, che erano appunto attrici, indossatrici, ballerine, cantanti... Erano celebri le nostre serate settimanali in un piccolo appartamento con terrazzo che condividevo con altri due amici: il meglio della intellighenzia milanese (poeti, filosofi, artisti) e della grazia femminile (cioè tutte quelle fanciulle che gli altri vedevano sullo schermo e basta). Si beveva Cuba libre, cioè Coca Cola e rum, perché era la cosa che costava di meno. Prendevo sessantamila lire di stipendio. Meno male che in quegli stessi anni passavo molte sere a studiare, per prepararmi lentamente alla libera docenza. Lavoravo alla sera e mi divertivo di giorno. Ma, ripeto, ho visto la televisione dall’interno, ne ho seguito tutti i meccanismi, per questo sono stato poi tra i primi a scrivere di comunicazione di massa, perché facevo teoria in base a una esperienza concreta […] Un giorno Ottiero Ottieri, che era nipote di Valentino Bompiani, mostrò all’editore alcune cose che avevo scritto. Bompiani aveva bisogno di rinforzare la redazione e mi ha mandato a chiamare. Ho cominciato a lavorare per la casa editrice mentre facevo il soldato. Mi sono trovato subito a dover curare la collana ”Idee nuove”, quella di filosofia, ed ero felice […] Inizialmente lavoravamo insieme a Paolo De Benedetti, che ora fa l’ebraista a tempo pieno, e a Sergio Morando, che non c’è più. Tutti e tre piemontesi, e Bompiani, che era marchigiano, ci diceva che non si era reso conto di essersi messo in casa una mafia piemontese, ma poi ne sono passati tanti altri in casa editrice. Tra gli scomparsi, Nanni Filippini e Antonio Porta, che noi conoscevamo col vero nome, Leo Paolazzi. Tanti anche gli scomparsi di altre case editrici: Mario Spagnol, Eric Linder, Luciano Bianciardi, transfuga editoriale e traduttore di ventura […] Si rincorreva ancora la voce, la ”dritta”, sul capolavoro ignoto, si cercava di catturare l’opzione. Giravano dei grandi vecchi, ho persino fatto in tempo a vedere Gaston Gallimard. La frenesia era tale che un giorno, a colazione, Valentino Bompiani, Paul Flamant, forse Rohwolt e non ricordo chi altro si sono detti che se avessero inventato un autore tutti si sarebbero messi a cercarlo. E hanno inventato Milo Temesvar, che aveva appena scritto Let me say it now, per cui l’American Library aveva versato un anticipo di 50.000 dollari (dei primi anni Sessanta). Bompiani torna dalla colazione, racconta la storia a me e a Morando, e noi cominciamo a girare stand per stand, chiedendo con aria sorniona notizie di Temesvar. Verso le sei di sera tutta la Fiera era in fibrillazione. Alle otto, a una cena, Giangiacomo Feltrinelli (non ho mai capito se per scoraggiare i contendenti e avere spazio libero per la sua caccia, o perché se ne era davvero convinto) afferma: ”Lasciate perdere Temesvar. Ho già acquistato io i diritti mondiali”. Temesvar è rimasto per me un personaggio di famiglia. Tempo dopo ho scritto su di lui una falsa recensione, dicendo che era stato espulso dall’Albania per deviazionismo di sinistra e che aveva scritto tra l’altro un libro su Borges dal titolo Sull’uso degli specchi nel gioco degli scacchi. Si doveva pensare che un personaggio espulso dall’Albania per deviazionismo di sinistra fosse piuttosto inverosimile, ma poi ho saputo che Arnoldo Mondadori aveva segnato in rosso quell’articolo scrivendo ”comprare subito”. Milo Temesvar ritorna anche nella mia introduzione al Nome della Rosa. Insomma, ormai mi sono convinto anch’io che esista […] Arrivato ai settant’anni mi accorgo che, pur avendo passato una vita senza grandi episodi individuali... voglio dire, senza tragedie: malattie, esilio, fughe per la prateria. Mi accorgo, dicevo, che, malgrado questo, ho attraversato grandi eventi. Ho vissuto da ragazzo il fascismo, da adolescente (tra i dodici e i tredici anni non si è protagonisti ma testimoni attentissimi) il periodo della Resistenza, le tensioni della guerra. E via via, fino all’attentato alle Torri gemelle... Sono figlio di una generazione fortunata. Quelli che avevano pochi anni più di me sono stati sfortunatissimi. Sono cresciuti sotto la dittatura, la guerra li ha decimati, quelli che si sono salvati non hanno potuto terminare gli studi, facevano fatica a sapere che cosa succedeva negli altri paesi, in grande maggioranza non leggevano le lingue straniere... Adesso noi pensiamo ai sopravvissuti, a quelli che se la sono cavata - personaggi come Calvino - ma erano una minoranza. La mia generazione è uscita dal fascismo quando avevamo undici anni, e poi c’è stato tutto il tempo di imparare cosa volesse dire; la nostra adolescenza ha coinciso con il momento della rinascita e poi del miracolo economico. La nostra è stata la prima generazione che è salita su un aereo a vent’anni, siamo andati in tutto il mondo e abbiamo avuto il mondo in casa, abbiamo trovato lavoro e talora lavori di responsabilità da giovanissimi... […] Sono disperato per il fatto che ho ancora una posizione di rilievo all’Università, dirigo due collane editoriali, ho una rubrica su un settimanale e cose del genere. Perché qualcuno non mi ha ancora fatto fuori? Dove sono quelli che dovevano uccidermi almeno vent’anni fa come abbiamo fatto noi con i nostri padri? Che pena, che vergogna... […] Vedo con terrore molti miei coetanei che vivono solo tra i nostri coetanei. Vivere coi giovani tiene su. Tu mangi un poco della loro carne fresca, loro un poco della tua, dura ma saporita, come le bistecche argentine. solo cercando di spiegarla agli altri che capisci se l’idea che avevi in testa era giusta o per lo meno se poteva essere formulata. In più, sei costretto ad aggiornarti anche quando non ne avresti voglia... Insomma, sono tutte buone ragioni che direi biologiche. Ma ce n’è un’altra. che nel mondo dei media le notizie, le nozioni, le idee si consumano in un giorno, arrivano di traverso, non vengono approfondite, e vengono buttate via. L’Università, con tutti i suoi immensi difetti (secolari) è ancora un posto in cui su un’idea ci puoi stare un anno. Dove si conservano anche le cose che dicevi ieri. E dove, infine, c’è ancora un laboratorio attivo, e si discutono oggi le idee che arriveranno ai media tra vent’anni. E questo è il secondo modo di vincere la morte» (Laura Lilli, ”la Repubblica”, 471/2001). Vedi anche: Catherine Nay, ”Sette” n. 12/1998. Vedi anche: Marco Damilano, ”Sette” n. 44/2000;