Varie, 25 febbraio 2002
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Facchetti Giacinto
• Treviglio (Bergamo) 18 luglio 1942, Milano 4 settembre 2006. Calciatore • «Il mitico terzino sinistro dell’Inter euromondiale e il capitano della nazionale campione d’Europa (’68) e vicecampione del mondo (’70), ma anche uno straordinario esempio di fedeltà alla causa nerazzurra: 476 presenze e 59 gol in campionato, 73 gare e sei gol nelle coppe europee (storico quello al Liverpool, 12 maggio ‘65), 85 partite (e 10 gol) in Coppa Italia. In tutto: 634 partite ufficiali e 75 reti» (“Corriere della Sera 14/11/2001) • «“Cipe” è il curioso soprannome che si porta addosso dal ‘60, da quando Helenio Herrera lo aggregò alla prima squadra dell’Inter. “Non è vero che sia stato l’allenatore a storpiare il mio cognome. Fu Buffon a chiamarmi Cipelletti”. Da allora, Facchetti è rimasto “Cipe”. [...] I suoi migliori amici nell’Inter euromondiale erano Burgnich, Guarneri, Domenghini e soprattutto Jair, il brasiliano con cui aveva legato di più. “Era appena arrivato in Italia e Herrera mi incaricò di farlo ambientare. In ritiro dividevamo la camera e spesso lo invitavo a casa mia. Nacque un rapporto speciale che non s’è mai incrinato”. All’Inter dal novembre ‘58. Ricorda il suo primo provino? “Come se fosse ieri. Arrivavo dalla Trevigliese, che era stata sul punto di cedermi all’Atalanta. All’Inter l’allenatore dei giovani era Peppino Meazza, un mito del pallone. Mi osservò soddisfatto e mi incluse subito in organico, portandomi a Ginevra per un torneo. Due anni dopo, appena arrivato a Milano, Herrera chiese a Meazza di allestire una partita tra due formazioni giovanili da giocare in avanspettacolo a San Siro. Oltre a me, c’erano Mazzola e Longoni, Annibale e Della Giovanna. Notai che il Mago prendeva appunti e a fine partita me lo trovai davanti nello spogliatoio. Mi chiese come mi chiamassi e si complimentò. Continua ad allenarti, mi disse, e diventerai un calciatore di livello internazionale”. Una profezia azzeccata. Il 21 maggio 1961 il debutto in serie A all’Olimpico. “Affrontavamo la Roma e il mio avversario diretto era l’uruguaiano Ghiggia, campione mondiale del ‘50. Per tutta la settimana Herrera mi descrisse le caratteristiche di Ghiggia e mi istruì sul modo migliore per neutralizzarlo. Ero emozionato, però me la cavai bene. Otto giorni dopo, con il Napoli a San Siro, andò ancora meglio: segnai il mio primo gol”. È stato il primo terzino fluidificante nella storia italiana del calcio, capace di spingersi spesso in avanti e di segnare. Una caratteristica naturale o un suggerimento di Herrera? “Era una particolarità che mi portavo appresso dai tempi dell’oratorio. Non mi piaceva restare dietro, preferivo seguire l’azione e cercare di concluderla. Una grossa soddisfazione me l’ha data [...] Beckenbauer, che mi ha confidato di essersi ispirato a me per interpretare il ruolo del difensore che avanza”. Cinquantanove gol in serie A, addirittura 75 tra campionato e Coppe, ma soltanto tre nelle 94 partite giocate in nazionale. Come mai? “Perché il terzino sinistro che avanza non era previsto nel modulo adottato da tutti i c.t., da Fabbri a Valcareggi, da Bernardini a Bearzot, e perché gli avversari giocavano spesso con tre attaccanti e io dovevo fare soprattutto il difensore”. Ancora oggi si parla di terzino alla Facchetti. Dopo di lui, ad avanzare sulla fascia sinistra, hanno provveduto Maldera, Cabrini e Paolo Maldini. [...] Ha conosciuto molti allenatori. Il Mago aveva una marcia in più? “Assolutamente sì. Helenio Herrera era un motivatore straordinario, nessuno sapeva curare gli allenamenti con la stessa meticolosità e preparare la partita con la stessa attenzione. Ci istruiva per una settimana, sottolineando pregi e difetti di ciascun avversario. E non è vero che non sapesse vedere il gioco dalla panchina. Era formidabile tecnicamente e anche tatticamente”. Quattro scudetti, due Coppe dei campioni, e due Coppe intercontinentali. Qual è stata la conquista più esaltante? “La prima in ciascuna competizione, a cominciare dallo scudetto del ‘63. Il ricordo più bello in assoluto resta però la vittoria sul Real Madrid nella finale europea del ‘64 a Vienna. Batterlo per 3-1 mi sembrò un sogno”. Tra 75 gol dev’essere difficile scegliere il più bello. ”È facile, invece. Ce n’è uno che per me rimane indimenticabile. Coppa dei campioni, 12 maggio ‘65, Inter-Liverpool a San Siro, semifinale di ritorno. In Inghilterra avevamo perso 3-1, non c’era ancora la regola dei gol in trasferta che valgono doppio e dovevamo vincere almeno per 3-0. Il terzo gol, quello della qualificazione, lo segnai io dopo uno scambio con Bedin e Suarez, sferrando una gran botta da limite. Fu un delirio. In campo e sulle tribune”. In 476 partite una sola espulsione: Inter-Fiorentina, 13 aprile 1975, arbitro Vannucchi. “Ricordo bene l’episodio. L’arbitro mi ammonì e io gli rivolsi un applauso ironico, meritando di essere cacciato. [...] Il ricordo più bello legato alla nazionale? “Il titolo europeo del ‘68. Erano trent’anni che l’Italia non conquistava un trofeo internazionale e la gioia fu immensa”. E il ricordo più amaro? “La sconfitta con la Corea del Nord al Mondiale del ‘66, che noi italiani abbiamo forse enfatizzato più di quanto meritasse. C’erano però parecchie attenuanti. Eravamo stressati psicologicamente da quasi tre mesi di ritiro e il povero Fabbri era andato in confusione dopo le critiche per la partita persa di fronte all’Urss e persino per la vittoria sul Cile. E restammo in dieci dopo mezz’ora”. Vice-campioni del mondo nel ‘70 in Messico. Ma quel Brasile era proprio imbattibile? “Era una grande squadra, però avremmo potuto farcela. Purtroppo, venivamo dai 120 minuti giocati contro la Germania Ovest, una fatica che a 2.240 metri di quota si sconta. Giocammo comunque alla pari e il 4-1 fu una risultato bugiardo. Lo ammise anche Pelè a fine partita”. [...]» (Mario Gherarducci, “Corriere della Sera” 18/7/2002).