Varie, 25 febbraio 2002
FASSINO Piero
FASSINO Piero Avigliana (Torino) 7 ottobre 1949. Politico. Sindaco di Torino (eletto al primo turno il 15-16 maggio 2011). Eletto alla Camera nel 1994, 1996, 2001, 2006, 2008 (Pds, Ds, Pd). Ex segretario dei Democratici di Sinistra (2001-2007). Diploma di maturità classica, consigliere comunale a Torino per il Pci nel 1975, consigliere provinciale nell’80. Sottosegretario agli Esteri nel governo Prodi, ministro per il Commercio estero nel D’Alema I e II, ministro della Giustizia nell’Amato II • «Può darsi che dipenda dalle origini saldamente piemontesi, se Piero Fassino somiglia più ad un segretario del Pci che ad un dirigente dei Ds. Secondo una leggenda consolidatasi nel corso degli anni fra i corridoi silenziosi di Botteghe Oscure, infatti, il segretario del partito proveniva sempre dall’ex Regno di Sardegna: così fu con Gramsci, con Togliatti, con Longo e con Berlinguer, sardi il primo e l’ultimo e piemontesi gli altri due. Natta era ligure, e dunque rientrava nei confini dell’ex Regno. Quando al soglio salì Occhetto, che politicamente era nato a Milano, s’invocò la sua nascita anagrafica, a Torino: ma i puristi storsero il naso. E Occhetto fece la svolta della Bolognina. Con D’Alema e Veltroni, entrambi nati a Roma, la leggenda si era definitivamente dissolta. Il Pci, del resto, non c’era più. Piero Fassino è diventato segretario della Quercia nel suo momento probabilmente peggiore, alla fine del 2001, dopo che gli antagonisti dell’ultimo decennio, D’Alema e Veltroni, spesso impegnanti in una lotta per linee interne cruenta quanto silenziosa, erano finiti il primo nel limbo della Fondazione Italianieuropei, e il secondo in Campidoglio. I Ds quasi non esistevano più, divisi per bande e gruppi in confusa guerriglia reciproca - e Berlusconi era saldamente insediato a palazzo Chigi. Le invettive di Nanni Moretti (“Con questi dirigenti - disse indicando proprio Fassino - non vinceremo mai”), l’esplosione del movimento dei Girotondi, l’ascesa che pareva irresistibile della stella di Cofferati, l’ammutinamento dell’“Unità” di Furio Colombo e il movimentismo esasperato della Cgil di Epifani sembravano preludere ad un definitivo inabissamento della Quercia, e certo alla fine prematura della leadership fassiniana. Così non è stato, e oggi Cofferati è un tranquillo sindaco di Bologna, l’“Unità” sta per cambiare direttore e dei Girotondi s’è persa ogni traccia. [...] La segreteria di Occhetto aveva avuto il merito storico di salvaguardare l’eredità del Pci dando vita ad un nuovo partito non più comunista, ma è stata anche segnata da lacerazioni profonde, che soltanto oggi si vanno rimarginando. Altre lacerazioni erano poi venute da D’Alema, salutato dal corpo del partito come una sorta di “normalizzatore” dopo gli eccessi occhettiani, e divenuto invece rapidamente il “modernizzatore”, in conflitto frontale con la leadership del sindacato e con la sinistra interna. “Movimentista”, se così si può definire, fu invece la segreteria di Veltroni, segnata da un congresso kennedyano a Torino e da una predilezione per l’Africa piuttosto che per l’apparato, conclusasi traumaticamente con la candidatura al Campidoglio. Le macerie - politiche, ideali, psicologiche, persino umane - che Fassino si è trovato di fronte quando entra nell’ufficio più importante di via Nazionale sono diventate, per questo piemontese figlio di un partigiano e nipote di un fondatore del Partito socialista, una sfida da affrontare giorno dopo giorno, passo dopo passo, mediazione dopo mediazione. Gli si rimprovera di essere privo di carisma, di avere un aspetto rassegnato e triste, e persino di essere troppo magro: ma anche in questa immagine apertamente, persino spettacolarmente anti-spettacolare, c’è un’eco dei vecchi segretari del Pci, che si chiamavano per cognome, non frequentavano i salotti e preferivano una riunione di organizzazione o un comizio di periferia ad un’intervista eclatante. Ma è naturalmente con la politica che Fassino è riuscito [...] a trasformare un rissoso accampamento in un condominio relativamente ordinato. Dialogando con la sinistra interna così da eroderne i margini di consenso, tenendo a rassicurante distanza D’Alema e Veltroni, con i quali pure è forse il solo ad avere un ottimo rapporto personale, schierandosi convintamente con Prodi ma, al tempo stesso, difendendo le ragioni e il peso della Quercia, Fassino ha saputo costruire un centro solido, e per questa via proporre i Ds come forza centrale della coalizione. Il radicamento del partito è migliorato, e così la sua struttura organizzata; la periferia è saldamente “fassiniana” [...]» (Fabrizio Rondolino, “La Stampa” 2/2/2005). «Se c’è in Italia un uomo intriso di Novecento, è Piero Fassino. È l’erede di un pensiero forte, di un3idea classica, fondata sul lavoro e sulla fabbrica. È il figlio della Torino antifascista e operaia, moderata e combattiva. Città capace di grandi mobilitazioni e di grandi sconfitte. Per questo, il modo più corrivo per sminuirlo è iscriverlo d’ufficio nella categoria del funzionario. Certo, per la dedizione al suo compito, Fassino è forse l’ultimo esponente di quella politica descritta da Max Weber “come professione e vocazione”. Ma nello stesso tempo è un dirigente che si è assunto il peso di trasportare il suo partito nella fase nuova, nel secolo della leggerezza, della volatilità, dei desideri, dell’individualismo, delle angosce intrinseche nell’era dellì’“uomo flessibile”. [...] da segretario della federazione torinese arrivava prestissimo per organizzare addirittura i turni delle pulizie, e si addormentava tardissimo dopo qualche pagina delle opere di Togliatti. Nella capitale subalpina, nella company town dominata dalle cattedrali tayloristiche della Fiat, il “responsabile fabbriche” Fassino impersonava alla perfezione ciò che il sociologo Giuseppe Bonazzi chiamò il “metaregolatore”: vale a dire una funzione in grado di sollevare il conflitto e di moderarlo (e la possibilità di usare le cellule comuniste di fabbrica come un freno alle eventuali fughe in avanti del sindacato). Lotta e mediazione, durezza e confronto, ma in ogni caso una cultura, un’abitudine, una pratica negoziale formatasi nel cuore del capitalismo industriale, con l’occhio rivolto al “blocco dei produttori”, cioè a quel rapporto di conflitto e integrazione nell’impresa che segnano il Pci torinese dai tempi di Gramsci. Per lui, soprattutto per il dirigente politico e per l’uomo che crede nel progresso almeno condizionato dalla classe operaia, dev’essere una tragedia vedere concludersi con un disastro l’“ultima lotta”, quella del 1980, rimasta nella memoria della sinistra per l’icona di una sconfitta, Enrico Berlinguer ai cancelli della Fiat. “L’intera vicenda - commenterà Fassino - mette in evidenza la radicata persistenza nel movimento operaio di una dualità di fondo: il coesistere di un’anima ‘antagonista’ e di un’anima ‘contrattualista’”. È un punto di svolta. E se non è senno di poi, questo giudizio rappresenta la matrice della visione riformista fassiniana. Il resto è generalmente colore. La magrezza su cui è il primo a scherzare, citando Teo Teocoli: “Nato di 4 chili, sei mesi dopo era già di 2”. L’amore per il calcio e per la Juventus, Mozart, e il jazz, il cinema e il teatro di Pirandello e Brecht, il carattere irascibile, la buona cucina e l’abilità di danzatore (Fassino è l’ultimo italiano che può dire “la mia passione sono i music-hall”, come se ci fossero ancora i music-hall), tutto questo è colore. La verità è che il segretario diessino costituisce l’identificazione totale fra il proprio essere, la propria cultura, la propria volontà con il progetto di cui è, alla lettera, il corpo e l’anima. Ciò a cui non rinuncerà mai è la propria essenza di socialista e di riformista. A rileggere Per passione, la sua autobiografia politica pubblicata nel 2003, si può rimanere sorpresi per come tratta Craxi e il Psi, anticipando praticamente tutti i revisionismi che gli vengono chiesti oggi. Non condivide il giudizio “largamente diffuso nel Pci, secondo cui Craxi è il nostro peggior nemico”, e neanche l’esecrazione lanciata da Berlinguer verso Bettino ”pericolo per la democrazia”. A suo parere Craxi ha posto le domande giuste, anche se spesso ha dato le risposte sbagliate. Sembra quasi di avvertire la sua emozione allorché Craxi a Berlino, nel 1992, dopo scontri, accuse e una trattativa infine convulsa, dà il via libera all’ingresso del Pds occhettiano nell’Internazionale socialista: “Sono circondato da decine di mani che si congratulano. Mi alzo e attraverso tutta la sala fino a raggiungere Craxi. Ci stringiamo la mano, mentre il congresso nuovamente applaude”. Non sarà il sentimento di un istante a sciogliere i nodi di una storia, tutta davvero novecentesca, in cui le sinistre si sono fatte la guerra “perché ognuna pretendeva di essere la sinistra esclusiva”. Ma intanto si può capire che Fassino conosce il “dramma del riformista”, questa cognizione del dolore politico che assale i rivoluzionari più moderati e i riformisti più radicali quando devono fare i conti con le alleanze, gli avversari, gli amici, i compagni, i compromessi, perfino il governo, mentre qualcun altro può sfoggiare la sua purezza oltranzista. L’esperienza al governo è più che altro un banco di prova che dimostra la sua dedizione impressionante, la conoscenza dei dossier, la mole ingente di lavoro che svolge. Ma i drammi del riformismo cominciano dopo il governo, dopo la sconfitta elettorale, la sera in cui Nanni Moretti sale sul palco e urla “con questi dirigenti non vinceremo mai”, mentre il vertice dell’Ulivo ammutolisce di fronte alla piazza. Perché Fassino nel segno del riformismo vincerà il congresso di Pesaro, tuttavia la sua leadership sarà sempre sottoposta a tensioni fortissime. Ci vuole un impegno straordinario per tenere il timone della centralità riformista mentre infuriano i girotondi e volteggiano leader popolari come Cofferati che per una fase sembrano volare sull’onda movimentista. Non solo: ci vuole una determinazione assoluta anche per restare fedele all’idea giudicata volentieri anacronistica di un partito organizzato e radicato nella società. Occorre una pazienza biblica per farsi riconoscere la propria posizione strategica nell’alleanza di centrosinistra, lui che è il segretario del maggiore partito della coalizione, mentre molti altri si arrogano un potere che in base ai voti non avrebbero. E ci vuole anche la solidità di un carattere ostinato quando per un paio d’anni l’unica opposizione efficace viene identificata nel sindacato. “Non siamo portatori d’acqua”: queste durezze lessicali sono necessarie perché all’esterno dei Ds la pazienza nel tessere relazioni unitarie viene fraintesa come una debolezza. “Non siamo donatori di sangue”, quando la sua scommessa razionale sul maggioritario viene percepita come una cedevolezza nei negoziati per le candidature. Fassino il riformista, Fassino il socialdemocratico, colui che vuole trasportare nel nuovo millennio il pensiero forte del Secolo breve, l’unico leader che nel centrosinistra rivendica (e su cui talvolta grava) una tradizione politica certa, subisce continuamente la minaccia di vedersi oscurato dalle malcerte, quindi modernissime, identità altrui. La Grande alleanza passa nel cielo della politica sopra di lui. Il riformista non socialista Rutelli gli contesta la vitalità della cultura dei padri. La sinistra radicale strappa con la fantasia di chi non ha responsabilità vincolanti. Se il segretario dei Ds ce la farà, sarà perché è lineare, trasparente, razionale. Chiede di partecipare al gioco e alla battaglia, e questo gli è consentito. Ma chiede anche di non essere considerato mai più il figlio di un dio minore, di essere trattato alla pari anche quando si presenterà il momento, forse non oggi, ma sicuramente domani, in cui lui e il suo partito così pesante decideranno di candidarsi alla guida di un’Italia così leggera, e di giocare le carte del suo partito e della sua cultura dentro una coalizione che sembra provare godimento nel mostrarsi così irriconoscente, così sciolta, così volatile» (Edmondo Berselli, “la Repubblica” 3/2/2005). «Figura che non si impone ma si ricorda, sempre un po’ piegato da un lato a causa del vento, e degli eventi che gli crollano addosso sorprendendolo. Berlingueriano, occhettiano, dalemiano, è in attesa dell’era che verrà per seguirla con convinta malinconia. Se fosse di destra lo avrebbero accusato per la morte di un’ottantina di albanesi annegati durante una gita di dovere al largo di Otranto. Ma è di sinistra e quindi: uno di sinistra non è che con le disgrazie possa farci niente, dato che le disgrazie disgrazie sono e disgrazie restano. E poi: la tragedia in verità è stata colpa della destra per due motivi. Primo: perché come si sa la destra affama la gente e la costringe a emigrare. Enver Hoxha docet. Secondo: perché se la sinistra ha la scarogna di accoppare senza intenzione ottanta emigranti, la destra ha il cattivo gusto di parlarne. Trasformando in questo modo una fottuta disgrazia in una strage. Infine, buon peso: la Marina militare, diciamocelo perdio, è sempre stata di…? Destra. Da responsabile del lavoro operaio a Torino, che di operai era piena, infatti non fece mai una strage operaia che fosse una. A dimostrazione quasi certamente della sua indole buona, certamente della sua buona fede. Uno dice: ma era all’opposizione. Ma questo non vuol dire niente. A Torino nel 1981 era a fianco del segretario Berlinguer quel giorno fatidico davanti ai cancelli di Mirafiori. Il segretario lo ascoltò e scelse la linea dura. Venne la marcia dei quarantamila colletti bianchi che disoccupò la Fiat, e il giovane dirigente si fece un nome. Al congresso di fondazione del Pds era il responsabile organizzativo ma si sbagliò nella caccia dei voti e il fondatore-segretario Achille Occhetto non ottenne l’elezione nella prima votazione, dove servivano i due terzi dei votanti. Il segretario-fondatore non ne fu contento. Nemmeno Lamberto Dini lo fu quando il suo sottosegretario si presentò alla commissione Esteri della Camera e a microfoni aperti e telecamere collegate con la sala stampa spiegò che mediazioni e trattative in Albania erano pura manfrina, perché “tanto Berisha se ne deve andare”. È a lui che si deve la fortunata serie di “Striscia la Berisha”. È amico di Carmen Llera vedova Moravia, un po’ perché lei è affascinata dalla magrezza, un po’ perché lui compra i libri che lei gli consiglia. Tutti rigorosamente acquistati alla libreria Rinascita. È nato a Cuneo, anche nel significato della categoria dello Spirito che questi natali implicano, ed è per questo che è amico di Mirko Tremaglia. Può comprare tutte le calze lunghe che vuole, le avrà sempre corte. Può cambiare tutti i partiti che vuole, sarà sempre del Pci. Questo che può sembrare un male invece è un bene. Perché dimostra che Fassino, al contrario di Francesco Rutelli, il quale cambiando sostanzialmente partito ogni cinque minuti è pursempreverde, vive e invecchia come tutti noi» (Pietrangelo Buttafuoco, “Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini” 17/10/1998). «È un ottimo dirigente, il tipo indispensabile nel gioco di squadra, un mediano alla Oriali, per citare una famosa canzone. Ma non sembra tipo da inventarsi nuove strade né possiede il carisma personale di un D’Alema o di Veltroni, Cofferati, Bassolino» (Curzio Maltese, “la Repubblica” 13/11/2001). «Un tempo, a Torino, pare che il giovane Piero si distinguesse anche per quel suo vizio o vezzo di mettere a posto le sedie prima e dopo gli attivi al federale; e quando venne a Roma, 1987, per giunta alla guida dell’Organizzazione, arrivava alle Botteghe Oscure in orari pericolosamente antelucani, tanto che si pensò di dargli le chiavi del palazzo. Bene, oggi questa sua cifra quasi missionaria naturalmente si coniuga con gli spazi, i ritmi e i contorni della tecnopolitica. Per cui Fassino attacca la mattina presto da Piroso, su la7, poi legge i giornali e fa l’incontro pubblico, parte con l’aereo, fa il punto con Cuillo, arriva a destinazione, fa l’altro incontro pubblico, va alla manifestazione, presenta il libro, denuncia Igor Marini, sistema i debiti del partito con BancaIntesa, partecipa al convegno, presenzia al forum, apre e chiude il dibattito on line, riprende l’aereo, concede l’intervista piaciona alla tv privata sulla via del ritorno dall’aeroporto, spedisce il messaggino spiritoso, quello serio e quello intrigante, si rimira nell’ultima vignetta della serie “Visti da Piero” (l’autore è il suo amico Cesare Damiano, responsabile Lavoro ds), intanto si studia il sondaggio, va a Porta a porta, si presenta al cocktail, arriva legittimamente anche un po’ intronato al dinner e quando è una brutta serata - ma forse no, bisognerebbe chiederglielo - i fotografi lo pizzicano pure nel foyer dell’hotel Hassler mentre si bacia con l’Angiolillo. Altro che foto. Chiunque cerchi di seguire il segretario si trova a fare i conti con la sua pretesa onnipresenza. Il guaio, semmai, è che Fassino fa sempre una cosa in più, invece di farne una in meno. Così la sua scorta tampona un’auto a Varese, prima delle elezioni. Oppure lui fa un girotondo attorno alla Rai, ma in contemporanea il suo alias va in onda a TeleCamere con Anna La Rosa. Cerca di entrare nel corteo no-global nel modo sbagliato, nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. S’impiccia con i pulsanti e sbaglia a votare la Cirami. Riconcorre sulle scale Bertinotti perché ha dimenticato di fargli vedere quel libro sul musical. E sempre rischia in definitiva di diventare, più di un tiranno, un personaggio da cartoni animati. Simpatico suo malgrado: nel tempo degli spettacoli politici e del loro primato sulla realtà» (Filippo Ceccarelli, “La Stampa” 16/11/2004).