varie, 25 febbraio 2002
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Ferrara Abel
• Bronx (Stati Uniti) 19 luglio 1951. Regista • «[...] Corpo saltellante e massiccio. Volto da film horror. [...] nipote di nonno napoletano emigrato [...] Il regista trasgressivo di Il cattivo tenente, Occhi di serpente, Fratelli e New Rose Hotel, l’uomo che ha diretto Harvey Keitel e Madonna, il film-maker attratto da personaggi negativi ma umani che hanno finora alimentato una cinematografia di culto [...]» (Rodolfo Di Giammarco, ”la Repubblica” 8/3/2005). «Famoso cineasta americano con un nonno di origine italiana, e la madre irlandese, celebre per le storie crudeli sullo sfondo d’una New York tutta droga, gioco d’azzardo, prostituzione. [...] ”Amo Hemingway fin da bambino, ma ho imparato a conoscerlo meglio nella maturità, era un uomo vero, diretto, forte e debole, in lotta con se stesso e con l’esistenza, con il coraggio di suicidarsi. Mussolini non avrebbe avuto quel fegato inoltre il suo modo di scrivere era diretto, diverso dagli altri” [...] Intende chiedere il passaporto italiano (a causa del nonno originario di Sarno) assieme a quello statunitense. [...] Ammira profondamente come registi Pier Paolo Pasolini, Visconti. [...] Viene definito ”Il Caino del cinema americano”, giocando sul nome Abel, per la violenza nei suoi film» (Fiorella Minervino, ”La Stampa” 11/11/2003). «Cosa avrei in comune con Ernest. [...] Di sicuro c´è che Lui è un´icona della letteratura americana, un premio Nobel, un mito universale, un uomo onorato per il suo leggendario coraggio, l´uomo, che vivendo nell´epoca giusta, riusciva sempre a trovarsi nei posti giusti al momento giusto. Io che spesso mi sono trovato al momento giusto ma nei posti sbagliati, io che non ho il suo fegato, che non sparerei mai ad un cervo ma che noi esiterei ad usare un fucile per difendere me e la mia famiglia. Purtroppo come lui ho vissuto una terribile tragedia familiare: entrambi i nostri padri si sono suicidati. [...] Come le storie di Hemingway anche le mie narrazioni cinematografiche - le mie storie - sono raccontate in maniera diretta, senza mediazioni, senza autocensure e senza mai negoziare la mia indipendenza creativa. Ernest era un generoso e in questo siamo certamente ”fratelli d´armi”. Lui ha vissuto in un´epoca in cui le dittature avevano prevalso sulle democrazie, io comincio a riconsiderare il concetto stesso del termine democrazia, soprattutto adesso, soprattutto nel mio paese. Entrambi ci siamo specchiati nel narcisismo delle nostre opere come il mito greco si specchiava nella pozzanghera. Lui ha combattuto sui fronti delle grandi battaglie reali in nome della libertà e della giustizia, il suo corpo ne portava i segni. Io combatto le mie scaramucce col sistema e con l´industria cinematografica della bigotta società americana e a volte le ferite lasciano segni altrettanto profondi. Nel suo tempo le regole letterarie volevano si scrivesse: ”il fanciullo giunse alla dimora?”, lui scriveva semplicemente ”il ragazzo arrivò a casa”. Nel mio tempo Hollywood impone le sue morali e le sue storie, le sue etiche ”globalizzanti” con il conforto di un sicuro lieto fine. Io in tutti i miei film queste regole ho sempre cercato di stravolgerle. Non accetto le imposizioni dettate dalla politica del cinema-marketing, questo mi ha creato non pochi problemi in passato. Lui era un autore universale, letto e compreso in tutto il pianeta, io non mi preoccupo neppure se mi vedranno le casalinghe di Beverly Hills. Ernest ed io di sicuro dividiamo la profonda solitudine che a volte toglie il respiro, i molti eccessi, le trasgressioni, le ansie di essere uomini, le antiche e nuove paure. Lui ebbe il coraggio di compiere un gesto estremo e di togliersi la vita canticchiando. Io continuo a combattere le mie battaglie anche se so che sono perse in partenza. Con lui divido i burroni sui quali a volte mi avventuro, sapendo che è più facile precipitare. Di Lui ho sempre ammirato l´eleganza naturale, i suoi celebri occhi di ghiaccio e i suoi safari africani. Il mio ”primo incontro” con lui avvenne ad Alassio, mentre cercavo la mia donna vidi il suo nome inciso in una roccia a strapiombo sul mare. E a volte amo immaginarmi come lui, nella Venezia degli anni quaranta a bere ”Bellini” all´Harry´s Bar mentre giovani ragazze veneziane si godono il sole in Piazza San Marco nei loro leggeri vestitini di cotone. Lui che assistette disperato alla rotta di Caporetto e alla riscossa del Piave e che di quei giorni e di quei soldati raccontò le gesta, io nato nel Bronx di New York che ho visto i soliti noti spararsi senza una precisa ragione. Siamo vissuti in epoche apparentemente così diverse e brutalmente così simili. Cos´è dunque che mi accomuna ad Hemingway? Quasi nulla o quasi tutto [...]» (Abel Ferrara, ”la Repubblica” 1/12/2003).